Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

Su Eredità ed estinzione

Di Rossella Pretto

Ascolta: Stravinsky: Introitus T S Eliot in Memoriam.

Non è un caso.

E ha davvero qualcosa di apocalittico. Quella marcia che è una marcia funebre. Atmosfera lugubre, allora, che banchetta tra i pensieri e li tempesta. A tratti.

«Requiem aeternam dona eis, Domine».

L’incalzare del cavaliere con la falce. Il tamburo battente degli zoccoli e di tutte le sue schiere. Il bisbiglio degli uomini. L’attesa.

La preghiera, l’invocazione.

È morto T.S. Eliot, il 4 gennaio 1965, e Stravinsky lo trasfonde in note. Apre l’invaso sconfinato del dolore.

Arriva subito l’epigrafe di Giovanna Frene, quella che avvia Eredità ed Estinzione (Donzelli Editore 2024, pp.124, euro 15). Chi vi è citato (anche se, diciamo così, liberamente) se non Eliot, lui, proprio lui e le sue rovine?

«Su queste rovine non ho fondato che rovine».

La distruzione e l’estinzione a cui chiama. Ma anche l’eredità che si tramanda. Quel modernismo che respira nel libro, la stratificazione, il racconto, il frammento che collide e si spalanca ad altra scaglia.

Che sorpresa, che gioia e quanto l’avevi attesa!

Eliot e La terra desolata, devastata o guasta. Il grande Eliot che si rifà a Isaia, lo usa e lo capovolge.

1 Per amore di Sion non starò in silenzio, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché la sua giustizia non risplenderà come un astro, la sua salvezza come una fiaccola accesa. 2 Allora le nazioni vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; e tu sarai chiamata con un nome nuovo che la bocca del Signore stabilirà. 3 Sarai una corona di gloria nella mano del Signore, un diadema regale nelle mani del tuo Dio. 4 Non ti chiameranno più “Abbandonata”, né la tua terra si chiamerà più “Desolata”; ma tu sarai chiamata “Il mio compiacimento” e la tua terra “La Sposa”; perché il Signore sarà compiaciuto di te e la tua terra avrà uno sposo.

Frene lo segue, segue Isaia. E nomina, concede il nuovo nome alla città: ecco Cleveland.

all’ossessione, si aggiunge la certezza, l’esattezza: aperti 

gli occhi, ha visto il nulla. e tu, piccola Cleveland, città sepolta, 

sarai chiamata beata tra le genti, perché hai aperto gli occhi 

sul sotterrato: sottoterra, vedrai, nulla cambia, 

o soldato: timbra il biglietto, non occorre 

rispetto, per questa rovina

È una traccia per risolvere l’enigma, lo sforzo che richiede, l’interpretazione di un percorso poetico di chi si è votato alla restituzione di quelle rovine: se non al loro puntello, alla riedificazione, come vuole Daniele Gigli che ricorda che These fragments I have shored against my ruins della Terra guasta si riferisce a un nuovo inizio: ricostruire sulle e dalle macerie. È ciò a cui mira Giovanna Frene?

Eppure la dissoluzione, l’eterna ruota della storia che condanna a estinguersi, non solo l’uomo ma anche i prodotti del suo lavoro e dell’intelletto o gli imperi – l’Impero Romano e l’Impero Austroungarico a cui Frene dedica due stupendi poemetti: Diplopia 9 agosto 378 d. C. e Mayerling – quel finire sottoterra – «sottoterra, vedrai, nulla cambia» – quell’esperienza domina e crea l’atmosfera della narrazione tutta. Il tempo della morte è ogni momento, secondo Eliot. Un infinito requiem che apre e chiude il libro (con l’aggiunta del latino dell’ultima poesia in Explicit per la morte della madre, un piccolo capolavoro di concisione e addio, senza ombra di lamenti).

E c’è la dedizione con cui la poeta tende a scarnificare l’esperienza per restituire la materia del suo racconto: «si brucino / i corpi ma non le carte, poi che al ritorno ritroverà / il posto». Ed era il dubbio di Stoner, quello se andare in guerra o restare per tenersi il posto di professore, restare rintanato tra le mura universitarie e chiudere fuori il furore dei corpi che si dilaniano. Gli altri, coraggiosi, vanno. E chi torna non solo riprende il lavoro ma fa anche balzi avanti nella carriera.

Dunque è guerra ciò di cui si parla, l’opera dell’uomo. Perché, come ha detto Frene recuperando il monolite di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick, c’è un legame inscindibile tra la scoperta dell’intelletto dell’essere umano e la violenza, il suo uso per scopi di sopraffazione – anche lì le ossa dei morti sono armi, il cervello serve scopi distruttivi. Il retaggio parte da Adamo: la conoscenza porta all’esilio e alla maledizione. E si trasformerà in guerra.

Ancora nei Quattro Quartetti Eliot si interrogava sulla Storia:

Tempo presente e tempo passato

sono forse entrambi presenti

nel tempo futuro e il tempo futuro

è contenuto nel tempo passato. Se tutto il tempo

è eternamente presente

tutto il tempo è irredimibile.

Frene lo sa e il suo essere “poeta come storico” vuole questo, perché solo attraverso il tempo si conquista il tempo, scrive ancora Eliot in “Burnt Norton”, restituendo un procedimento proustiano. L’istante. Laddove c’è perdita c’è conquista. Il tempo che distrugge è il tempo che conserva. Nella fine è l’inizio o viceversa. Questo è il campo – santo, come tiene a ricordare Frene, quella distesa di corpi sotto la collina – ma la missione è ampia e lei se la sobbarca: «Infinitamente meno preciso, nei dati e nel metodo, di uno storico tout-court, il poeta-storico ha però dalla sua l’arma del linguaggio, la possibilità estetica che fa della poesia la traduzione di un’intuizione che più di ogni altro linguaggio si avvicina all’essenza di quell’intuizione. Senza scomodare la teoria dei generi, la perspicuità del linguaggio che si deve usare con l’oggetto-storia è fondamentale, pena ridurre la storia a una lanterna magica per bambini».

Nessuna concessione all’emotività, nessuno svolazzo. Eventi, dettagli, date che si sovrappongono e si richiamano – diplopia, quel fenomeno per cui l’occhio vede di un oggetto due immagini, infrange l’unità per moltiplicarla nel senso di un’unica sorgente che si fa rifrazione, i cicli storici uguali ma diversi: il ritorno circolare di una sconfitta che si installa nel guscio necrotico, nella forma svuotata, sfollata. E allora «c’è solo la lotta per recuperare / ciò che è stato perduto / e trovato e ancora perduto / e ancora: e ora in circostanze / che non appaiono propizie. Ma forse / non guadagno né perdita. Per noi / resta solo il tentare. Il resto / non ci riguarda», con l’Eliot di “East Coker”, luogo di antenati e dunque di interrogazione sulla persistenza, la durata.

E allora segui Giovanna Frene, falle da Sancho Panza, nelle sue galoppate per il tempo, attraverso quella filigrana e il suo scoscendimento, perché la Storia avanza, sì, ripete, si aggiorna, richiama. Ma ha anche sacche di silenzio e buchi neri. Mutismi che dicono le lacrime delle cose. O l’improvviso addensarsi degli eventi che di colpo si fanno tornante. «Quale tragitto avesse percorso Bellona accompagnata dalle Furie / dopo essere stata armata dall’alterna ruota della Fortuna / per raggiungere con la sua sferza nefasta il felice dell’Oriente, / era inciso da tempo in una pietra quadrata nelle mura di Calcedone / abbattute per costruire un semplice bagno, a quanto pare più insidioso / delle strida dei denti degli spettri / delle loro ossessive nenie funebri». In questo c’è progressione, causa-effetto che lavorano. L’azione non è ininfluente, ma va vista da un punto neutrale che disostruisce il condotto d’ansia per la responsabilità del singolo, rimettendo al centro un principio etico che allena la consapevolezza di essere parte di un movimento più ampio. Non tutto attiene a chi agisce, ci sono cause che fanno avanti e indietro nel tempo, ma la “catena umana” di Seamus Heaney non va dimenticata, né la sua portata sminuita.

Certo è che ogni rapporto, secondo Frene, è un rapporto di potere. Non si scappa. E anche qui, in Eredità ed Estinzione, continua il discorso su quanto siano aberranti certe forme di controllo e violenza ormai consustanziali della stoffa umana, come il paradigma del nazismo e della pulizia etnica, o l’ebraismo hanno mostrato. A ogni contesto storico, comunque sia, questi versi risuonano, vibranti, densi di senso e di orrore. Per il male che si avvicina paurosamente al bene – come scriveva Giovanni Raboni: «Mio male, mio bene, così vicini / ormai che tante volte vi confondo» – per la vita intima che si agglutina a quella del mondo, le storie alla Storia: l’imperatore Valente alla mamma di Frene, il fante semicolto Giuseppe Bof a Rudolf il principe suicida figlio di Francesco Giuseppe e “Sissi”, la cui morte costituì una sorta di prodromo della caduta dell’Impero. Così come la rete, la tessitura continua di Frene accosta periodi storici – dall’antica Roma all’oggi passando per la Prima e Seconda Guerra mondiale e ai fatti delle guerre dell’ex Jugoslavia con Slobodan Milošević – opere d’arte – le larve di tricotteri dell’artista Hubert Duprat usate per venire a patti con lo scempio di Dresda, quel bombardamento atroce che rase al suolo la città e disseccò i corpi  delle vittime col napalm, o i diversi quadri Trionfo della morte – fatti veri e inventati, o meglio, suggestioni che spingono il lettore a prendere parte attiva, riempire i vuoti, decrittare i codici, le teche dei suoi “musei” – in “Larve acquatiche” o anche in “Linea Gotica”, per esempio.

C’è uno sguardo che si vuole fare neutro, chirurgico, ma anche qualcosa di estremamente sensuale (la carne e la morte sono così): quando il crollo dell’impero si concreta nei corpi di Rudolf e Maria Vetsera, i due amanti suicidi, quando la ragion di stato contamina la ragione esistenziale, quel cortocircuito restituisce un palpito scandaloso dell’attimo in cui vita e morte si abbracciano. Sarà forse non voluto ma quando il corpo, quello vero che ansima e suda sotto il sole dell’esistenza, si fa vivo e vero oltre il simbolo, oltre l’astrazione del concetto, ecco allora che prende il primo piano, e anche il non detto si fa prepotente reclamando attenzione.

C’è poi un che di ironico, puntuto, dissacrante. Questione forse anche di origini. E una volontà di dare testimonianza, dare un’interpretazione del mondo e della sua Storia. Andare oltre alle facciate e alle spiegazioni ufficiali: «È tempo che osserviate bene questi cadaveri / nel loro presente srotolato nel vostro singolare passato: mettete la vostra mano su questo foro / e credete che qualcosa è davvero accaduto alle spalle di un intero mondo sprovveduto». Così facendo, la poeta traccia una mappa geo-politica dell’Europa per voce altrui – «Io attesto che sono stata seppellita alle 9 del mattino / di venerdì primo febbraio dell’anno 1889. Resto / a testimoniare che qui, nel cimitero di Heiligenkreuz, / è sepolto con me il cuore dell’Impero: Caina attende / chi a vita ci spense», afferma Maria Vetsera echeggiando dantescamente Paolo e Francesca.

È dunque l’apocalisse, sembra l’apocalisse. Ma se vi è, se è presente, non chiuderà con il segno meno, dice Giovanni:

Ma egli, posando su di me la sua

destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo,

e il Vivente. Ero morto, ma ora

vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi.

Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle che sono e quelle che accadranno dopo.

Ecco: il Cavaliere oscuro che viaggia per le terre del libro se ne incarica. Una volta alzata la visiera dell’elmo, però, è il volto di Giovanna Frene che vedi, sono le sue parole a rimandare l’eco di quella promessa di testimonianza: una sorta di nordico Ragnaröck, con la fine dei tempi, e la speranza di palingenesi, che Frene rinvia ma che tuona sorda oltre la morte.

Eredità ed estinzione Book Cover Eredità ed estinzione
Poesia
Giovanna Frene
Poesia
Donzelli
2024
128 p., brossura