Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

L’amico di Daniela Matronola e i Genesis

Di Rossella Pretto

L’hai scoperta qualche ora fa musicata, la vicenda di Ermafrodito e Salmàcide.

Ovidio, nelle sue sempre frequentatissime Metamorfosi, racconta che, nato da Ermes e Afrodite (e chissà la bellezza), Ermafrodito fu nutrito dalle Naiadi e, compiuti 15 anni, se ne andava vagando per i monti alla ricerca di fonti e fiumi. Abitante di una polla d’acqua chiara era la ninfa Salmàcide, sconosciuta ad Artemide e solitaria, che subito si innamorò del giovinetto (così simile all’Ippolito della Fedra), non ricambiata. Fingendo di andarsene ella si nascose e quando Ermafrodito si svestì e bagnò nelle acque della fonte, la ninfa tutta gli si avviticchiò intorno e i due corpi divennero uno.

Proprio stamattina ti hanno suggerito la versione dei Genesis, ‘The Fountain of Salmacis’ (clicca QUI per ascoltarla) contenuta nell’album Nursery Crime del 1971, così suggestiva, visionaria, tanto che non hai potuto fare a meno di pensare al libro appena letto di Daniela Matronola, Il mio amico (Manni 2020). E non perché sia visionario, in quella sua indagine, nello scandaglio, tutto razionale, di una storia che si frantuma in racconti, anche se tutti con lo stesso protagonista, come se una vita non potesse più raccontarsi dall’inizio alla fine ma avesse bisogno di fondare la propria sostanza per lampi ed ellissi, abolendo il tempo e il suo ordine. Non per quella visionarietà, dicevi, ma per una trama preziosa che Matronola tesse e che in qualche modo vi unisce.

Ma andiamo per gradi.

Si diceva dei Genesis, con quella meravigliosa apertura che spalanca lo stupore verso un mondo tutt’altro che ordinario. Ecco il monte Ida elevarsi da una foresta di pini, nel folto una caverna, le ninfe e il figlio degli dei, Ermafrodito, già spaventato dall’amore di quelle creature, «Hermaphroditus, son of gods, so afraid of their love». E mentre l’alba si fa largo nel cielo, Ermafrodito segue una cerva, invaso dal desiderio predatorio. Quando arriva nei pressi di un lago sconosciuto, «A shadow in the dark green depths / Disturbed the strange tranquility». C’è qualcosa che non torna, uno strano bagliore, un’ombra che balugina sinistra. È in agguato una passione non corrisposta e rapace. Una voce liquida gli sussurra di bere quell’acqua e quando si volta vede Salmàcide avvolta in un manto di nebbia, «And as he gazed, her eyes were filled with the darkness of the lake». Negli occhi di lei, allo sguardo di lui, dilaga il buio lacustre della passione irresistibile, «pazza nella caccia come nel possesso;/ cercando di avere, avendo e avendo avuto, estrema;/ una beatitudine nell’atto, e, compiutolo, una pena;/ prima, una gioia sperata; dopo, un sogno», dice Shakespeare nei suoi Sonetti.

E torni al libro di Daniela Matronola, allora, incontrata qualche giorno fa a Roma sotto i tendaggi ombreggianti di Antonini in una breve pausa dagli imprevisti che hanno occupato un tempo che pensavi svagato. Ma averla vista, così come Giovanni che ti ha mandato la canzone dei Genesis e Alessia, l’amica speciale, tutti sempre in quel tuo salotto improvvisato di via Sabotino, ti ha dato gran sollievo.

Ed ecco, dunque, il primo elemento che usi per mettere insieme i pezzi del puzzle. Un ragazzo, una certa ritrosia nei confronti della avances delle donne, soprattutto più mature, quelle che oggi chiameremmo “milf”, e lui è «so afraid of their love», come Ermafrodito. Un Don Juan byroniano, scrive Matronola contrappuntando i racconti con una trama di riferimenti letterari per te molto godibili, l’hai detto.

Insomma, al protagonista è successo qualcosa che non sa perdonare e la sua vita si è sgretolata. Ha dovuto cercare di difendersi, di mascherarsi per sopravvivere ingannando, o cercando di ingannare il suo psichiatra Cesare. Il dolore era troppo forte. Un dolore tutto interiore. Ma anche uno esteriore di cui non si conosce esattamente la causa. Matronola non lo spiega. Sappiamo solo che «ancora se lo ricorda il tunnel di dolore in cui sostò per più di un mese l’estate delll’81 subito dopo essere diventato una poltiglia di carne e sangue incollata tra il cotto e la parete bianca su cui presero a imprimersi sagome geografiche: l’umido dei suoi umori esplosi. Una furia lo aveva demolito, e aveva pure cercato di cancellargli la faccia. Sono i ricami che fanno del suo viso un placido volto d’angelo scolpito come la maschera di un super eroe». Ma questa ferita, il corpo piegato, tutto sofferenza, determina una risoluzione: specializzarsi in anestesia rianimazione e terapia del dolore. Mauro, quindi, è un medico che passa le sue giornate all’ospedale Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina, a Roma, sperimentando farmaci contro il dolore.

Algos…

Proprio qualche giorno fa, Davide Antonio Pio parlava della nostalgia, il dolore del ritorno, l’algos del nostos. Algos è figlio della Discordia, Eris, a sua volta generatrice della Notte. È il lato oscuro, muto dell’esistenza. Proprio su questo si specializza Mauro che ritiene il dolore un ostacolo alla guarigione e un marchio che si imprime nella memoria: «non solo imprime la memoria nella coscienza e nei suoi infiniti strati, ma si marchia a lettere di fuoco nelle cellule, nella chimica del corpo». È solo che Mauro è stanco, tanto stanco, gli sembra di essere Atlante, di reggere tutto sulle spalle, senza mai prendere ferie. Forse la rabbia non l’ha mai lasciato e, pur di sopravviverle, ha chinato la testa e si è messo al lavoro, indefesso. E allora bisogna tornare indietro e andare a scoprire qualcosa di mai domato, quel dolore del ritorno che graffia, ma grazie a cui, forse, i pezzi si possono accostare per ripartire ancora una volta, nonostante, come sa bene Mauro, il dolore rimanga. Tocca farsene carico, prendersene cura, guardarlo ancora una volta in faccia e mettere un piede davanti all’altro. Tocca agli amici farsi vedere, in questa galleria del ritorno, tocca all’amico musicista, tocca a Cesare, lo psichiatra “quasi-parente” con cui dialoga serrato in pagine acute e molto dense sul male del totalitarismo e dei campi di prigionia o di sterminio, sulla responsabilità e la libertà, su che cos’è un uomo nel momento in cui si smarca diventando un ingranaggio di una macchina perversa. Il mito della purezza che tu hai incontrato un giorno in un personaggio di cui hai vestito i panni, in quel testo di Maria Bernardini Pignataro interpretato nell’estate del tuo crollo, Il Purificatore.

Ed ecco la figura del padre Gianni, tante volte nominato, il grande aguzzino che ha lasciato la famiglia e ha condannato un ragazzo a spezzarsi. Ecco l’avventura parigina e, nel tragitto di Mauro tra la stazione e l’albergo, un topo, che Matronola, con la trovata del suo stile ricercato e ironico, gustosissimo in alcuni passaggi, dice essere «il più autentico dei citoyens» paragonandolo anche a uno scoiattolo americano. E tu allora, tu che in questa tua rubrichina ti dedichi alla poesia, ricordi quella di Giuseppe Conte, tratta da Le stagioni, del 1988, dove il nostro amato Giuseppe racconta degli scoiattoli di Central Park: di uno spelacchiato e solitario visto precedentemente, «grigio come/ un topo di città e con una piccola/ coda bisunta […] fermo come un malato,/ come un sopravvissuto», contrapposto allo sciamare degli scoiattoli estivi, di ramo in ramo, che attentano al cielo. Mimano le folle tra la Settima e Broadway, si chiede Conte, «o i frettolosi che arrivavano al Lincoln Center/ in bicicletta con la borsa di libri/ o ne uscivano a fumare una sigaretta/ d’in piedi?». Ma no, non è così, gli scoiattoli poco c’entrano con l’uomo, ci suggerisce il poeta, per rinfrancarsi basta guardarli saltare «improvvisi: raggi del mattino/ arricciati sembrano/ di un sole piccolino, un gomitolo/ di luce».

E c’entra sempre la poesia, se Ovidio non fosse abbastanza o se non lo fossero i Genesis.

E allora forse non è un caso che la loro canzone ti sia arrivata proprio in concomitanza con la lettura de Il mio amico, perché Ermafrodito, vinto dalla passione di Salmàcide, con lei si confonde e sparisce, così come Mauro si unisce a Sigo, a Parigi, disertando la camera prenotatagli dal padre. «And then their flesh and bones were strangely merged / Forever to be joined as one», cantano i Genesis.

Per scoprire qualcosa di più tocca aspettare il prossimo romanzo.

In copertina Daniela Matronola, credits by Paolo di Bugno