Diploma maturità classica – Laurea in Giurisprudenza in 3 sessioni e mezza – Pratica legale – Pallavolista di successo – Manager bancario e finanziario – Critico musicale dal 1977 – 6 mesi esperienza radio settore rock inglese ed americano – Studi continuativi di criminologia ed antropologia criminale – Lettore instancabile – Amante della letteratura noir e “gialla “ – Spietato con gli insignificanti. Fabio è venuto a mancare nel maggio del 2017. Ma noi abbiamo in archivio molte sue recensioni inedite che abbiamo deciso di pubblicare perché sono davvero parte della storia della critica musicale italiana

Intanto il nome del gruppo. Cabaret Voltaire è un movimento di rottura fondato nel 1916 dal regista di teatro Hugo Ball a Zurigo. La cosa fondamentale è che fu la culla del DADAISMO che voleva assolutamente rompere le logiche dell’arte più tradizionale e ripetitiva. Circa 60 anni dopo (!), a Sheffield, si trovano tre studenti dell’Università, tutti appassionati della musica del momento: il punk ma, pure del funk e della musica elettronica. Obiettivo è quello di ricollegarsi a quell’arte iconoclasta che era il dadaismo ma in musica, stavolta. Nascono i Cabaret Voltaire. Stephen Mallinder (Basso e voce), Richard H. Kirk (chitarra) e Christ Watson (manipolazione nastri ed effetti elettronici) sono i protagonisti, che nel 1973 fondano i Cabaret Voltaire e sei anni dopo pubblicano questo disco tanto aspro e sconnesso quanto seminale, lasciando un’impronta indelebile e tracciante di quello che sarebbe stato definito, tanti anni dopo, industrial- music. La scena industrial di quel periodo contemplava Throbbing Gristle e, da Sheffield soprattutto, i Clock Dva che presto troverete in questa rubrica col loro pezzo migliore della produzione, “Advantage”. Ma qui siamo in una sorta di tunnel, un videogame di materiale ferroso, plumbeo, debutto folgorante tra i dischi seminali di un anno, il 1979 che, ricordo come il migliore in assoluto, dopo la grande abbuffata degli anni dal 1967 al 1974 e dal 1977 fino al 1983. Tanto per fare chiarezza! Claustrofobia, laboratorio colpito dai fulmini dove si cerca di far vivere il mostro del Dr. Frankenstein, una miscela densissima di funk, elettronica con tanto di disturbi raggelanti costituiti da rumori sparsi e frequenti, visioni di spessa oscurità. C’è una discesa a spirale verso il caos qui, con un allontanarsi ed un riavvicinarsi continuo verso il centro, il fulcro della narrazione con spostamenti a spirale. Ed allora come negare l’influenza della scuola tedesca nell’utilizzo del synth, il maestro Klaus Schulze su tutti, come non traguardarsi coi Suicide (da me già disseppelliti con l’omonimo disco qualche giorno fa) o con gli stessi Throbbing Gristle? Un grande lavoro di sartoria anche, costituito da tagli e rammendi continui combinati con un’elettronica nevrastenica e gorgogliante, voci che vengono veicolate direttamente da vicoli bui e sinistri, lai di gente disperata della suburbia che più proletaria non si potrebbe. E le ambientazioni del disco? Ne vogliamo parlare un attimo? Scenari in bianco e nero degni dei capolavori di Murnau (Dracula), a braccetto col Dottor Mabuse e con la “piastra gigantesca” del film indimenticabile “Metropolis”. Questo è “Mix-Up” dei Cabaret Voltaire.
Macchine impazzite, robot raggelanti, replicanti molto prima di Rutger Hauer e di Blade Runner di Ridley Scott. Come può essere musica per tutti? Lo è, solo se la gente che l’ascolta sta attenta e va verso il suono.
Qui non ci sono sculettamenti e paillettes, qui non si ride, qui non ci sono i salottini delle ospitate con le nostre dive o presunte tali incartapecorite. Qui c’è oscurità e sofferenza. “Kirlian Photograph” parla subito la lingua di una percussività esasperata, di un basso monocorde e di sinistri cigolii sintetizzati. Voce che viene filtrata e diventa labirinto elettronico essa stessa. “Fourth Shot” è l’amplesso osceno con quel che rimane dei Velvet Underground mutilati di fine Settanta. Mantra nero e glaciale. “Heaven and hell” ed “Expect nothing” vivono di gelidi respiri impressi su un vetro opacizzato. “Photophobia” è il roco respirare di uno che sta per trapassare. Il rifacimento di “No Escape” dei mai troppo esaltati Seeds fa tornare a galla la melma metropolitana ed aliena dei Suicide, mentre la conclusiva “ Capsules” finisce col giocare con macchine oramai impazzite e fuori controllo. Ed alla fine tutto questo perché? Per cercare di avvicinarsi alle brume della nostra anima, della psiche, tra scossoni, shock, nenie glaciali e trance. E riuscirono pure a stare in classifica a lungo in quell’anno seducendo tutti, come provavano invano a fare le sirene con Ulisse. A questo portava la rivoluzione siderurgico-industriale di Sheffield. Qui non ci sono balletti tecnologici ma, solo il sussulto profetico ed ahimè terminale delle nefandezze politico sociali che ci sarebbero piombate addosso anni dopo. Cabaret Voltaire artigliava in anticipo la realtà che incombeva sopra le nostre teste e dimostrava di avere unghie davvero affilate. Indimenticabili e disco imperdibile da degustare lentamente e ripetutamente.

Mix Up Book Cover Mix Up
Cabaret Voltaire
Elettronica sperimentale d'avanguardia
1979