Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

Holodomor: una tragedia dimenticata

Di Graziella Enna

L’Holodomor: una tragedia dimenticata Fino al 2008 non vi è stato alcun riconoscimento ufficiale del genocidio avvenuto in Ucraina negli anni 1932/33, chiamato oggi Holodomor (=sterminio per fame). Sull’argomento, per decenni, è stato molto difficile trovare una bibliografia, però una testimonianza molto forte ci viene proposta da Vasjlii Grossmann in “Tutto scorre”[1]. Per questo motivo il romanzo fu pubblicato a Parigi e assolutamente proibito in Russia. La descrizione agghiacciante di Grossmann, benché nella finzione letteraria sia il racconto di un personaggio, non ha nulla di romanzesco o eccessivo, ma è solo un terrificante accenno dell’orribile  tragedia che si consumò in quegli anni. Ettore Cinnella[2] in un eccezionale saggio, ricostruisce gli eventi, ne spiega la genesi, lo sviluppo e le conseguenze con rigore documentario. Oltre al suddetto autore, Cinnella si avvale degli studi dello storico inglese Robert Conquest[3] che ha esaminato compiutamente questo sterminio altrimenti ignorato, o meglio, oggetto di insensato negazionismo. Solo nel 2003 Le Nazioni Unite hanno riconosciuto l’ Holodomor, come un crimine contro l’umanità, ma appunto nel 2008 c’è stata l’ufficializzazione di genocidio. Per lungo tempo “Tutto scorre” rimase la sola fonte dettagliata disponibile al di fuori del’URSS, su un evento di proporzioni colossali che portò alla morte milioni di persone. A differenza di altri apocalittici misfatti del Novecento, lo sterminio per fame passò inosservato grazie alla congiura del silenzio portata avanti dal regime comunista: nessuno ne parlava, ma soprattutto nulla se ne sapeva. Molti giornalisti dell’epoca addirittura diffusero nel mondo occidentale l’immagine oleografica di un paese impegnato in un processo di modernizzazione che però doveva affrontare anche dei problemi legati a difficoltà di approvvigionamenti alimentari e una diffusa mortalità ed esso collegata. Non è difficile pensare che anche i giornalisti stranieri potessero essere al soldo del governo sovietico, soprattutto perché altri più onesti, sebbene non fosse semplice penetrare nei territori interessati, si accorsero che non si trattava di problemi legati alla malnutrizione ma di inedia assoluta, voluta e crudelmente organizzata. La Croce Rossa Internazionale ne fu informata ma non poté mai organizzare un’azione di soccorso a favore di un paese

senza la richiesta e il consenso del governo. Anche tramite i diplomatici molte notizie furono divulgate e sebbene  sia essi che le organizzazioni internazionali fossero al corrente di ciò che accadeva, nessuno ritenne opportuno comunicare notizie tantomeno preparare interventi. I paesi confinanti, in particolare la Romania tentarono qualche forma di aiuto poiché erano soliti vedere i contadini ucraini falcidiati dalle mitragliatrici mentre tentavano la fuga, ma il governo sovietico considerò i tentativi di aiuto degli stati confinanti indebite ingerenze negli affari interni. Lo storico dedica ben due lunghi e articolati capitoli all’esposizione dei problemi di politica estera, in particolare con la Polonia, ma anche alle problematiche interne dovute alle polemiche e ai tentativi di opposizione in seno allo stato sovietico. Anche il Vaticano arrischiò un intervento internazionale di soccorso, ma il governo di Mosca, che negava radicalmente la carestia, respinse sdegnosamente qualsiasi offerta d’aiuto. Altri studiosi e dissidenti tentarono invano di diffondere la verità ma rimasero sempre inascoltati. Insomma, per decenni in occidente fu divulgata una visione edulcorata della storia dell’URSS e venne respinta la categoria di totalitarismo persino dopo la pubblicazione dello sconvolgente studio di Conquest nel 1986. Sorsero acritici paladini della collettivizzazione, vista come una guerra contro ignoranza e arretratezza e non come una violenta e tragica imposizione dalle conseguenze catastrofiche. Finalmente la verità fece irruzione grazie alla ricostruzione di Conquest, frutto di anni di studio addirittura precedente all’apertura degli archivi sovietici. Egli attinse da tutta la documentazione allora disponibile: fonti ufficiali, memorialistica, resoconti diplomatici, servizi giornalistici, racconti di cittadini stranieri, testimonianze. Due furono le tesi di Conquest:

 “Nel 1929-1932 il partito comunista, guidato da Stalin sferrò un duplice attacco contro la classe contadina dell’intero paese: la dekulakizzazione e la collettivizzazione”

In sintesi la dekulakizzazione implicò la soppressione o la deportazione di milioni di contadini considerati ricchi insieme con le loro famiglie nelle gelide regioni artiche: costoro erano rei di opporsi ai piani del partito. La collettivizzazione significò l’abolizione della proprietà privata della terra e la concentrazione di tutti i contadini in aziende collettive controllate e gestite dallo stato. Queste due fasi provocarono milioni di morti ma non furono che l’inizio della tragedia. Una seconda fase, nel 1932/33, definita “carestia terroristica”, provocò ancora più vittime della precedente e consisté nell’imposizione di quote di grano superiori alle possibilità reali e inoltre alla requisizione di tutti i generi alimentari senza possibilità di riceverne da nessun luogo della Russia. Questi fatti furono senza dubbio alcuni dei risvolti più sconvolgenti e scabrosi della politica staliniana e suscitarono grande interesse durante la Perestrojka. Si aggiunga il fatto che migliaia di persone avevano voglia e urgenza di raccontare le atrocità subite. L’autore, nell’ultimo capitolo, ci parla infatti della folta messe di testimonianze esistenti oggi e ne cita alcune particolarmente esemplificative. L’Istituto di marxismo-leninismo decise di  affrontare lo spinoso argomento della carestia, tentando di fare delle stime sulle perdite umane. Da allora le ricerche sono proseguite alacremente fino ai giorni nostri, i ricercatori hanno scandagliato gli archivi, fatto accurate ricerche sul campo e pubblicato anche le testimonianze dei sopravvissuti. L’obiettivo che a nessuno deve sfuggire è che oggi l’Holodomor rappresenti un monumento collettivo dell’identità nazionale ucraina e un monito contro i crimini dei totalitarismi.  Dopo l’esposizione generale dei fatti, Cinnella nei capitoli successivi esamina in maniera dettagliatissima le fasi del processo della collettivizzazione in tutti gli aspetti possibili. Prima di tutto è necessario partire dalla considerazione che il nuovo sistema agricolo economico basato sulla meccanizzazione e sulla coltura collettiva negli intenti di Stalin doveva essere realizzato in tempi rapidissimi. Considerato che la maggior parte della popolazione viveva nelle campagne ed era impegnata nell’agricoltura, si può immaginare che un tale processo diede luogo a una rivoluzione sociale di enormi proporzioni che fu arginata con crudeli mezzi repressivi. La fertile e ubertosa Ucraina venne scelta come luogo designato all’applicazione del nuovo metodo perché possedeva i requisiti necessari, a detta dei gerarchi del partito. Negli anni della NEP si era creata una sorta di stratificazione sociale dei contadini, tuttavia non era sempre facile definire quali si potessero definire kulaki, ovvero i contadini più agiati, quali medi, poveri o braccianti. Si iniziò a pensare che il vero ostacolo alla realizzazione dei colcos fosse la presenza dei kulaki perciò si doveva intraprendere una guerra assoluta contro di loro per distruggerli come classe. L’avvio della collettivizzazione integrale fu un tutt’uno con la lotta agli strati ritenuti più benestanti del mondo contadino. Il politbjuro presieduto da Molotov sancì innanzitutto la confisca di beni, mezzi e bestiame, poi decise di rinchiudere i membri più attivi in campi di concentramento, punirli con la morte in caso di ribellione o resistenza, deportare quelli pericolosi in luoghi remotissimi e lasciare solo alcuni a coltivare appezzamenti nelle fattorie collettive. La vaghezza di questi criteri fu inevitabilmente caratterizzata dall’arbitrio e dai soprusi nell’individuare la classe di appartenenza dei presunti nemici kulaki, non furono risparmiati neppure invalidi, vecchi e bambini, tantomeno famiglie di contadini poverissimi o addirittura soldati dell’armata rossa. Quanto al sequestro dei beni dei kulaki, si verificarono abusi di ogni tipo, furti, atti di vandalismo, insomma un saccheggio autorizzato e indiscriminato di cui molti approfittarono per il loro tornaconto. La deportazione improvvisa, frettolosa e disorganizzata di migliaia di persone provocò una spaventosa moria delle sventurate vittime. Il trasferimento coatto avvenne in luoghi gelidi siberiani che non erano stati minimamente preparati, neppure in modo spartano e rudimentale, ad accogliere esseri umani. Tra fame, sporcizia, gelo e malattie si consumò la prima ecatombe della deculachizzazione che sancì la massima brutalità dell’inizio del processo di collettivizzazione. Non fu solo l’Ucraina a subire un’immane tragedia, un altro territorio lontanissimo, il Kazakhstan, fu violentemente snaturato nelle sue tradizioni. Da secoli i territori erano abitati da pastori nomadi, ma in considerazione del fatto che solo una minima parte dell’immenso territorio kazako fosse coltivata, si riteneva necessario aumentare la superficie seminata. Con la consueta fretta e violenza ai nomadi kazaki fu sottratto il bestiame e furono costretti a sedentarizzarsi e rinunciare alle loro secolari abitudini di vita. La guerra contro i nomadi kazaki fu quindi disastrosa sul piano economico e spinse migliaia di pastori alla fuga, per questo è molto difficile anche fare delle stime sull’ingente calo demografico di quei territori. Un’ altra grave conseguenza della prima fase della collettivizzazione fu la drastica diminuzione del bestiame da tiro e d’allevamento che contadini macellarono per mancanza di altre fonti di sostentamento piuttosto che consegnarli gratuitamente allo Stato. Un elemento peculiare della lotta dei contadini contro la collettivizzazione fu anche la massiccia partecipazione femminile, come emerse dal rapporto di uno dei più stretti collaboratori di Stalin, Kaganovič, nel XVI congresso del partito del 1930. L’emancipazione femminile nasceva non solo da motivi economici e di difesa dei propri beni, ma anche da un altro motivo: la campagna ateistica che prevedeva la distruzione delle chiese e dei luoghi sacri e la persecuzione dei ministri del culto, resero le donne strenue oppositrici. L’eliminazione della religione divenne un aspetto fondamentale della politica di Stalin, la furia distruttiva verso chiese e simboli religiosi dilagò, non si dovevano udire più campane ma solo sirene di fabbriche e di stabilimenti. Questi dunque furono i primi disastrosi effetti della politica di statalizzazione dell’agricoltura, che provocarono un trauma collettivo senza eguali al popolo russo, snaturalizzando completamente ritmi, abitudini, tradizioni, ideologie. Per queste ragioni, ben presto iniziarono a serpeggiare movimenti anticolcosiani e insurrezionali, spesso guidati da culachi, soprattutto nell’Ucraina e in Kazakhstan. Si verificarono fughe di massa dai colcos, le campagne erano agitate da fortissime tensioni per le violenze e le umiliazioni subite, pesavano come macigni le deportazioni di migliaia di amici e parenti, le requisizioni ingiuste. Insomma il risentimento allignava ovunque. Anche  i membri del partito più devoti a Stalin e fautori della sua politica cominciarono a palesare dubbi. Nel 1930 la situazione era, così, estremamente ingarbugliata anche sul piano della politica interna, ma l’unico elemento positivo fu un raccolto più abbondante del precedente anno che fu però del tutto casuale e dovuto a questioni climatiche e non certo legato ai nuovi sistemi produttivi. A partire dal 1931 il governo impose una nuova ondata di deculachizzazione e di collettivizazione a cui seguirono nuove agitazioni e sommosse: i contadini macellavano furiosamente  il bestiame, fuggivano dai colcos, la penuria alimentare crebbe in modo esponenziale, la fame falcidiava migliaia di persone. Da ogni parte dell’Unione Sovietica iniziarono a giungere al potere centrale delle lettere di protesta sulle condizioni di fame e miseria che attanagliavano i colcosiani, ma l’unico pensiero della dirigenza era di favorire gli ammassi del grano sottraendo fino all’ultima cariosside ai miseri e affamati contadini con lo scopo di incrementare, con i proventi del grano, l’importazione di costosi macchinari destinati all’industria. Gli ammassi dei cereali, si rivelavano infatti insufficienti rispetto alle cifre ipotizzate dai piani quinquennali, quindi tradotto in termini molto più immediati, si prospettavano miseria e fame per i contadini già stremati dalla penuria estrema di approvvigionamenti. La seconda offensiva di Stalin contro i contadini si stava rivelando una vera e propria catastrofe. Il raccolto del 1930 fu dunque abbondante grazie a fattori climatici e all’esperienza che i contadini si portavano appresso. Negli anni 1931 e 1932  quando furono introdotti nuovi sistemi anche meccanizzati, per la disomogeneità con cui vennero diffusi e per l’inesperienza nella loro gestione, non sortirono gli effetti sperati. A ciò si univano la decimazione del patrimonio zootecnico necessario alla coltura e il fatto che la vita produttiva dei villaggi fosse controllata da un apparato burocratico e poliziesco che imponeva regole arbitrarie e cervellotiche senza possedere un barlume di esperienza nel settore agricolo. A causa della penuria di cibo, diminuirono le superfici coltivate, perché i contadini, per disperazione, consumarono per potersi sfamare, parte delle sementi. Un segnale del degrado dell’agricoltura fu la presenza di erbacce che infestavano il grano che era in netto contrasto con i campi puliti degli anni precedenti. Un altro fattore che accrebbe il caos fu la divisione amministrativa effettuata in Ucraina che si ritrovò divisa in 503 unità amministrative difficili da gestire. Nell’anno 1932 pertanto il raccolto risulto magro e non per motivi climatici bensì a causa di disfunzioni burocratiche tipiche del sistema economico sovietico. Mentre prima i contadini erano scrupolosissimi nella cura e nella raccolta di ogni singola spiga,  dopo la collettivizzazione forzata imperavano disordini, sprechi e ruberie. Alla carestia, determinata dai suddetti fattori, se ne aggiunsero altri di natura politica come il proseguimento delle esportazioni destinate a finanziare l’industrializzazione e la precedenza negli approvvigionamenti all’esercito e alle popolazioni cittadine. La crisi alimentare si mostrava in tutta la sua tragicità e a farne spese erano sempre i contadini. Il regime sembrò provare un briciolo di pietà destinando parte del raccolto alle regioni colpite dalla carestia ma poi prevalsero le ragioni ideologiche pronte a sacrificare vite umane pur di non compromettere l’edificazione del socialismo. Si manifestò di nuovo la fuga massiccia dai colcos, alimentata da fame e denutrizione, con la speranza di un lavoro meno schiavizzato e servile di quello  imposto dallo stato. Un’altra forma di protesta fu quella attuata dai contadini contro le quote esagerate degli ammassi fissate in modo arbitrario senza tenere conto dell’entità del raccolto e delle necessità alimentari. Nell’estate del 1932 l’Ucraina divenne il luogo della fame per eccellenza più di qualsiasi altra zona collettivizzata della Russia. Durante l’estate la situazione si aggravò a tal punto che furono registrati atti di cannibalismo. Alla fine Stalin decise di diminuire le quote di ammasso per l’Ucraina ma allo stesso tempo stava progettando  nuove severissime misure per portare a termine l’edificazione definitiva del socialismo nelle campagne. Promulgò così quella famigerata legge chiamata dai contadini “delle cinque spighe”, con valore retroattivo, che comminava la fucilazione o altre pene severissime a chi fosse stato sorpreso a rubare beni comuni nel colcos o altre merci e a coloro che avessero intrapreso opera di sobillazione o propaganda contro le fattorie collettive. Così Stalin proseguì per la sua meta di attuare ad ogni costo il piano degli ammassi e quelle poche misure palliative si rivelarono inutili ed inefficaci per  recare un po’ di sollievo alle popolazioni affamate dell’Ucraina. La società dello stato in buona sostanza era basata solo sull’asservimento delle masse contadine che stava portando a termine spacciando per socialismo un anacronistico ritorno alla servitù della gleba.

Nell’autunno del 1932 Stalin dopo aver firmato il patto di non aggressione con la Polonia, si rese conto che in Ucraina la situazione rimaneva molto tesa e che molti funzionari del partito erano inaffidabili e decise di infliggere a questa terra martoriata  una nuova e terribile punizione. Il capo della GPU aveva raccolto una serie di dichiarazioni di comuni cittadini sull’impossibilità di adeguarsi alle quote degli ammassi. Tale malcontento esibito in modo così palese confermava che le poche concessioni di Mosca non potevano calmare la fame e l’indignazione degli ucraini. Il capo supremo decise così di inviare in Ucraina il suo feroce collaboratore, Molotov, per soffocare ogni velleità di ribellione. Il politbjuro ucraino ordinò il sequestro delle merci nei distretti che non ottemperavano agli obblighi del piano e vietò loro qualsiasi scambio commerciale. Venne stilata una sorta di lista nera dei colcos inadempienti. Inoltre nei villaggi vennero inviate squadre di operai comunisti che potevano sequestrare e portare via il grano e tutti i prodotti agricoli. Stessa sorte toccò ad alcuni territori del Caucaso per mano di Kaganovič, l’altro perfido collaboratore di Stalin, suo fedelissimo. In nome della suddetta legge delle cinque spighe, furono condannati a morte migliaia di contadini in tutta la Russia, ma pure in questo caso fu l’Ucraina a pagare il numero di vittime più elevato. Malgrado la miseria assoluta e la fame, queste misure draconiane costituirono un deterrente contro le  ribellioni.  Quanto alle fughe, vennero adottate misure poliziesche e terroristiche, furono introdotti dei passaporti interni, custoditi negli uffici dei colcos, che sancivano legalmente la condizione di servi della gleba e pertanto rendevano impossibile ogni spostamento o trasferimento. Nonostante queste forme terribili di oppressione la fame spingeva migliaia di persone all’esodo, perciò tutti i fuggiaschi venivano arrestati, alcuni spediti nei campi di concentramento, altri nei colcos da cui erano fuggiti. Il risultato delle frontiere interne fu la condanna a morte per fame di milioni di persone impossibilitate a fuggire e a mettersi in salvo. Nel primo semestre del 1933 le morti per fame subirono un incremento nettissimo. Quelli che, avventurosamente, riuscivano a raggiungere i centri urbani, vi si aggiravano  come spettri, denutriti e gonfi e ogni giorno i cadaveri venivano raccolti e portati via da appositi camion. Non possedendo documenti ovviamente non potevano sperare di trovare un lavoro o una sistemazione. Nelle città ucraine i lavoratori delle industrie non avevano una sorte migliore dei contadini, anche loro soffrivano fame e malattie. Tante categorie urbane di lavoratori e professionisti patirono la fame, ne rimasero indenni solo i funzionari del partito, la polizia e gli amministratori. Un altro gravissimo fenomeno fu la diffusione di migliaia di orfani affamati, chiamati in russo besprizornye, che spinsero le autorità a prendere provvedimenti, ad esempio denunce per chi abbandonava i piccoli, o fondi per gli orfanotrofi, ma sta di fatto che i poveri orfani spesso venivano trattati alla stregua di vagabondi per i quali erano previste delle misure di tipo militaresco nella formazione di squadre di lavoro con quelli più grandicelli. Sono stati ritrovati moltissimi documenti ufficiali con i dati  relativi all’infuriare della carestia tutti corredati di cifre relative al numero dei decessi per fame, per malattie, alle epidemie scoppiate in ciascun distretto, ai casi di necrofagia e cannibalismo. È dunque palese che si aveva sempre la massima contezza di ciò che stava accadendo, tutto era descritto dettagliatamente ad uso e consumo dei gerarchi del partito. C’è un particolare però che lascia atterriti: mentre nella prima fase della deculachizzazione e della collettivizzazione erano stati evidenziati alcuni errori e devianze, ora invece  i dirigenti dei partito si esentavano da ogni colpa anzi  consideravano di essere stati troppo indulgenti o poco attenti nell’applicazione dei piani degli ammassi. Al contrario, le forze antirivoluzionarie e i culachi venivano accusati come artefici della carestia, mentre chi raccoglieva e diffondeva notizie sulla fame era considerato un fautore di propaganda antisovietica.  Nei documenti ufficiali si diceva anche che chi pativa la fame erano i fannulloni che minavano con la loro indolenza la costruzione colcosiana. Questa era dunque la versione ufficiale, presentare la grande fame come un naturale e logico castigo abbattutosi sugli agricoltori pigri e indegni, espediente ideologico perverso usato dal Cremlino per giustificare le aberrazioni e la barbarie che erano state inflitte al popolo. Far morir di stenti milioni di persone  in una situazione di diminuite risorse alimentari, offriva la possibilità di usare il grano come strumento di pressione e di ricatto. Furono rifornite derrate alimentari ai contadini disposti a sottomettersi docilmente alla disciplina dei colcos, mentre gli altri furono inesorabilmente condannati alla fame. Nel 1933, gli agricoltori stremati dal pugno di ferro e dalle terribili restrizioni furono costretti alla resa ed effettuarono una regolare semina. I gerarchi comunisti, tronfi della loro vittoria, parlarono di rieducazione socialista del colcosiano, che non doveva più sentirsi padrone del grano ma una persona che adempiva con disciplina i doveri verso lo stato proletario. Furono allentate le più aspre misure punitive ma ciò non significò un ritorno alla vita normale, lo stato non si curò certo dei soccorsi alle popolazioni stremate e annichilite. Lo sterminio per fame aveva raggiunto, dal punto di vista dei gerarchi, i risultati sperati. Nonostante la rassegnazione dei contadini, non venne meno l’odio cupo e il rancore che essi nutrivano nei confronti dello stato comunista. Tutte le fonti oggi concordano unanimemente sulla mesta accettazione da parte dei contadini della loro condizione servile, gli effetti devastanti della fame li aveva resi infatti servili e apatici. L’unico barlume del loro mondo precedente che rimase in loro fu la celebrazione di cerimonie religiose per le persone defunte dopo la grande fame. Proprio nel cuore del Novecento in Russia è dunque riapparso un periodo storico di totale regressione in cui i contadini avevano, in seguito alla grande fame, perso tutto i diritti ed erano stati ridotti in schiavitù. In sintesi in un’ossimorica contraddizione, lo stato definito socialista aveva fondato la sua forza lavoro sul lavoro servile e schiavistico.

Note

[1] Adelphi, 2010

[2] Ettore Cinnella (Miglionico, 4 maggio 1947), professore all’Universita di Pisa e storico italiano che ha dedicato gran parte d i suoi studi alla storia politica sovietica.

[3] Robert Conquest, (Malvern, 15 luglio 1917 – Palo Alto, 3 agosto 2015) ,Raccolto di dolore. Collettivizzazione sovietica e carestia terroristica”, Roma, Fondazione Liberal, 2004

Ucraina: il genocidio dimenticato Book Cover Ucraina: il genocidio dimenticato
Cinnella Ettore
Storia
Della Porta
2015
304 p.,