Roberto Cocchis, classe 1964, nato a Bari, cresciuto a Napoli, oggi residente nel Casertano dopo aver trascorso molti anni nel Nord Italia. Diversi lavori svolti nella vita, attualmente insegnante di ruolo nel licei. Redattore di Redattore di Vanilla Magazine e di Cronache Letterarie, estensore del blog L'angolo giallo, autore di diverse opere narrative, uscite in gran parte con la Placebook Publishing".

Il faro di Scotch Cap

Di Roberto Cocchis

Quella della navigazione è sempre stata un’arte per uomini particolarmente temerari, quasi ai limiti dell’incoscienza. Il fascino del mare e dei suoi spazi aperti ha sempre esercitato un’attrazione irresistibile per tutti gli spiriti più avventurosi.

Ma la navigazione è stata anche il solo modo che per molto tempo l’uomo ha avuto a disposizione per muoversi su tutta la Terra, e dunque è stata sempre incentivata in ogni modo da tutti i popoli. Quando gli strumenti di bordo erano molto più rudimentali e imprecisi di quelli attuali, soprattutto nel mare tempestoso, muoversi senza rischiare di sbattere contro nessun ostacolo era un’impresa ai limiti dell’impossibilità. Per questo, fin dall’antichità, si è cercato di fornire ai naviganti una possibilità di orientarsi in mare quando è notte o il cielo è coperto.

Inizialmente si accendevano fuochi sulle spiagge perché fossero visibili in mare aperto, ma era un sistema con molti limiti. A partire dal III secolo a. C. furono costruiti degli edifici costieri monumentali e molto alti, in cima ai quali si tenevano accesi dei bracieri accesi, visibili anche da lontanissimo. I due esempi maggiormente noti sono passati alla storia come “meraviglie del mondo”: il colosso di Rodi e il faro di Alessandria. Il primo durò solo 67 anni poi crollò in seguito a un terremoto. Fu sempre un terremoto ad abbattere il secondo, ma dopo ben 16 secoli.

Anche i romani costruirono molti fari sulle coste del loro impero, così come le repubbliche marinare: ma, in realtà, il vero boom dei fari si è avuto sulle coste francesi e britanniche, fatto che non deve sorprendere, viste le difficoltà della navigazione in oceano e nei mari settentrionali. Grandi fari furono costruiti soprattutto in Scozia e in Irlanda. Molti ingegneri si fecero un nome come progettisti di fari pressoché indistruttibili, come gli scozzesi Robert e Thomas Stevenson, rispettivamente nonno e padre dello scrittore Robert Louis Stevenson.

Ovviamente i fari erano situati in posizioni impervie e spesso isolate e richiedevano del personale appositamente formato. Quello di guardiano del faro era un mestiere (oggi scomparso: i fari si controllano da remoto) duro e pesante, adatto a uomini capaci di sopportare a lungo l’isolamento oltre che parecchie privazioni. Ciò non toglie che fosse esercitato anche da alcune donne, come l’inglese Grace Darling e la statunitense Ida Lewis, entrambe ricordate anche per l’eroismo con cui trassero in salvo dei naufraghi in più di un’occasione.

Alcuni fari, poi, si trovavano in posti così remoti e pericolosi che prestare servizio in uno di essi equivaleva quasi a un suicidio. Ed è proprio di uno di questi fari che parleremo oggi.

La punta estrema dell’Asia e quella dell’America, dai due lati dello stretto di Bering, sono separate da un arcipelago inospitale e pochissimo abitato, quello delle Aleutine. La maggiore e più orientale di queste isole si chiama Unimak e ospita anche diverse bocche vulcaniche, come lo Shishaldin, alto 2857 m. Il clima è gelido, perennemente nebbioso, continuamente spazzato da venti polari che provocano tempeste con onde anche molto alte. Insomma, è un posto che per una persona normale equivale a un pianeta alieno.

Ma durante la Seconda Guerra Mondiale, proprio per la loro posizione, le Aleutine hanno ospitato parecchie unità militari. Teoricamente, se il Giappone avesse voluto conquistarle, non avrebbe fatto molta fatica. Però ai giapponesi non interessavano. Tuttavia i contingenti militari sono stati mantenuti lì anche dopo la guerra, quando il nemico ha smesso di essere il Giappone ed è diventato l’URSS.

Il fatto che l’area fosse molto pescosa aveva portato lì già dal XIX secolo diverse navi da pesca, ma i naufragi erano stati moltissimi e questo aveva indotto il governo americano a costruire un faro nella punta più estrema di Unimak, presso il capo denominato Scotch Cap. Il faro fu costruito sfruttando la migliore tecnologia del tempo tra il 1902 e il 1903. A occuparsi del suo funzionamento erano tre uomini, che dovevano svolgere 4 anni di servizio ininterrotti prima di poter godere di un anno di congedo a terra.

Il faro di Scotch Cap, nei decenni successivi, si sarebbe rivelato preziosissimo. Nel 1909, una nave passeggeri con 194 persone a bordo naufragò in una tempesta ma le scialuppe, seguendo la luce del faro, riuscirono a raggiungere il capo, dove furono salvate dai guardiani, che ospitarono i naufraghi (non c’erano stati né morti né dispersi) per due settimane prima che una spedizione di recupero arrivasse a recuperarli. Nel 1930, la stessa cosa successe con un mercantile giapponese. Nel 1942, toccò a un mercantile sovietico con 35 persone a bordo e anche stavolta non vi furono né morti né dispersi, nonostante le condizioni atmosferiche proibitive.

Intanto, il faro era stato più volte rimodernato, fino a diventare una solidissima struttura in cemento armato (inizialmente era di legno) alta 30 m.

Durante la guerra, anche il faro di Scotch Cap ospitò una piccola guarnigione militare, costituita da un ufficiale di marina, Anthony Petit, e da 4 marinai. Il servizio al faro era molto più tranquillo di quello al fronte e i 5 si consideravano molto fortunati.

Il 1° aprile 1946 dovevano essere particolarmente sereni, perché entro breve il loro turno sarebbe finito, dando loro la possibilità di tornare finalmente a casa.

All’1,30 era in corso un cambio turno, quando la terra tremò violentemente, con un sisma che fu sentito a migliaia di km di distanza. Sulle Aleutine, tutti pensarono che si trattasse di un fenomeno vulcanico, ma non era così. Nella vicina Fossa delle Aleutine (150 km da Unimak), un brusco movimento litoferico aveva determinato una frana sottomarina di notevoli dimensioni. Il terremoto, sia pure violento (tra 7,4 e 8,1 Richter), non era ancora nulla: il peggio sarebbe stato il successivo maremoto, che avrebbe attraversato tutto il Pacifico, lasciando dietro di sé una lunga scia di danni e vittime, soprattutto alle Hawaii.

Di quanto accadde al faro di Scotch Cap sappiamo qualcosa grazie alla relazione sul fatto che fu redatta da Hoban Sanford, un tecnico radiofonico in servizio su una piattaforma che si trovava sempre a Unimak, ma a una quota molto più elevata di quella del faro.

Sanford dormiva nella sua cuccetta quando fu svegliato da una scossa. Pensò a un’eruzione dello Shishaldin, ma il vulcano appariva tranquillo. Qualche minuto dopo, mentre ne discuteva con i compagni, arrivò una seconda scossa più forte, poi l’edificio in cui si trovavano ricevette come una botta sul lato esposto in direzione del mare e si allagò con almeno 20 cm di acqua sul pavimento. Sanford inviò un segnale di S.O.S. e uscì all’aperto dall’altro lato dell’edificio. La notte, a parte le stelle nel cielo insolitamente sereno, era buia. La luce del faro, sulla costa, non era più visibile, né si sentiva il suono della sirena che il faro inviava a intervalli fissi.

Il mattino dopo, alle 7, con il cielo ancora sereno e il mare tornato calmissimo, Sanford e i suoi compagni scesero dove avrebbero dovuto trovare il faro e non trovarono nient’altro che poche macerie. L’onda alta oltre 30 m che nella notte avevano percepito come un colpo alla base della loro stazione aveva completamente spazzato via l’edificio sottostante. Dopo parecchie ricerche, trovarono in mezzo alle macerie un piede staccato di netto dalla caviglia e un intero corpo martoriato, che gli amici della stazione radio identificarono come quello del marinaio Paul Ness.

Il corpo e il piede furono poi seppelliti nel piccolo cimitero che era stato attrezzato a poca distanza dal faro, che già ospitava i resti di due naufraghi che erano stati gettati a riva già morti, diversi anni prima.

Il faro di Scotch Cap era troppo importante per poterne fare a meno. Nel 1950 fu ricostruito, Funziona ancora oggi, ma dal 1971 è automatizzato.

Lo stesso tsunami che aveva spazzato via il faro e le vite dei 5 uomini presenti in esso, dopo qualche ora, raggiunse le Hawaii con l’altezza di 17 metri e uccise complessivamente 159 persone. Diversi altri morti furono registrati su tutte le coste pacifiche. Lo tsunami arrivò perfino sulle coste dell’Antartide, dove distrusse una capanna (fortunatamente disabitata in quel momento) costruita per gli esploratori.

Dopo l’esperienza dello tsunami del 1946, la marina militare americana ha organizzato un sistema di allarme basato sull’avvistamento precoce delle onde anomale e sul monitoraggio del loro movimento. Purtoppo questo sistema è attivo solo nell’oceano Pacifico, mentre Atlantico e Indiano ne sono sprovvisti, come divenne fin troppo evidente nella tragica occasione dello tsunami del 26 dicembre 2004.

In copertina il faro di Scotch Cap, foto presa da langologiallo. blogspot.com