Roberto Cocchis, classe 1964, nato a Bari, cresciuto a Napoli, oggi residente nel Casertano dopo aver trascorso molti anni nel Nord Italia. Diversi lavori svolti nella vita, attualmente insegnante di ruolo nel licei. Redattore di Redattore di Vanilla Magazine e di Cronache Letterarie, estensore del blog L'angolo giallo, autore di diverse opere narrative, uscite in gran parte con la Placebook Publishing".

L’omicidio di Patsy Burton: la storia di un delitto

Di Roberto Cocchis

La maggior parte degli omicidi, esaminata in dettaglio, appare di una banalità sconcertante, sia per lo squallore o l’inconsistenza dei moventi, sia per le modalità con cui il delitto viene attuato, ossia generalmente o con la prima arma che capita o tramite piani talmente elaborati da condurre direttamente al responsabile una volta che vengono smascherati.

Che molti omicidi restino impuniti dipende soprattutto dal fatto che spesso i testimoni chiave sono fin troppo reticenti e che altrettanto spesso le prime indagini sono condotte in modo sciatto, inquinando da scena del crimine con contaminazioni tali da rendere dubbia la maggior parte delle prove raccolte.

I vari “geni del male” che nelle diverse epoche hanno terrorizzato popolazioni intere fino a far tramandare la loro memoria per secoli sono soprattutto invenzioni dei mezzi di informazione, oggi i mass media ma in precedenza anche la semplice trasmissione orale. Si può facilmente verificare come giornali, televisioni e altro non perdano occasione di gonfiare in ogni modo le storie di delitti, per fare leva sul vouyeurismo del pubblico e mantenere un elevato livello di audience. In precedenza, quando questi mezzi d’informazione non esistevano, ci si limitava a ricamare fino all’inverosimile sui fatti criminali, mettendo in seria difficoltà gli storici che hanno poi cercato di ricostruirli sfrondandone la memoria dalle tante invenzioni.

Alcuni delitti però si segnalano per qualche elemento di originalità. In questi casi, è frequente che finiscano per ispirare degli scrittori per delle opere narrative che, quando sono particolarmente ben raccontate, finiscono anche per avere anche delle versioni cinematografiche, che ne dilatano la fama. Anche se poi magari la maggior parte degli spettatori, anche quando è al corrente della derivazione letteraria, non sa nulla del caso reale di partenza.

La storia che raccontiamo oggi, di film ne ha ispirati addirittura tre, tutti molto famosi: Il tempo si è fermato del 1948, Police Phyton 357 del 1976 e Senza via di scampo del 1987.

Non sarebbe facile riconoscere la vicenda originale, però, perché tra questa e il romanzo che fa da ispirazione ai tre film, L’enorme ingranaggio (in Italia è stato pubblicato più volte, anche con i titoli Il tempo si è fermato e Il grande orologio) ci sono di mezzo la fantasia e le invenzioni narrative dell’autore, sul quale vale la pena di soffermarsi un attimo.

A scrivere il romanzo è stato uno strano personaggio, uno dei più grandi poeti del ‘900 americano, Kenneth Fearing, vissuto dal 1902 al 1961. Uno di quegli intellettuali da un lato molto vicini alla sensibilità della gente comune e da un altro incapace di adattarsi alla vita da persona comune. Afflitto da ristrettezze economiche per tutta la vita, ottenne i suoi soli guadagni scrivendo slogan pubblicitari, romanzi pornografici e romanzi gialli. Questi ultimi sono tutti di buon livello e in Italia ne sono stati tradotti tre. L’enorme ingranaggio è quello che ottenne più successo, anche se i guadagni se ne andarono in pochi anni di vita da bohémien.

Un giorno di ottobre del 1943, mentre c’era la guerra in corso ma a New York la vita andava avanti più o meno come sempre, Fearing lesse sui quotidiani la notizia di un delitto capace di scuotere parecchio l’opinione pubblica. Innanzitutto per la vittima, una ricchissima ereditera di soli 22 anni, considerata una delle ragazze più fascinose e più ambite d’America.

Patsy Burton, nata nel 1921, era l’unica figlia ed erede di William Oliver Burton, magnate della birra (quella dei birrifici di proprietà della famiglia Burton Bernheimer, di origine ebrea tedesca, da non confondersi con la Burton inglese detta anche Old Ale), deceduto appena tre anni prima, a soli 44 anni, per l’aggravarsi di una malattia cardiaca di cui soffriva da tempo. L’addolorata Patsy era stata consolata dall’eredità che ammontava a 7 milioni di dollari (dovrebbe essere equivalente a circa 130 milioni di dollari di oggi).

Papà Burton, che a modo suo ci teneva molto alla figlia, prima di andarsene, le aveva combinato quello che a suo giudizio era il miglior matrimonio possibile. Tutti penserebbero a questo punto che l’avesse fatta sposare con un altro riccone: invece l’aveva letteralmente spinta nel letto del proprio amante, un ragazzo canadese di origini modeste e abituato a prostituirsi fin dall’adolescenza, Wayne Lonergan, nato nel 1918. Infatti, sia Burton sia Lonergan erano bisessuali (ragione che aveva reso piuttosto complicato il matrimonio di Burton: la moglie dopo qualche anno aveva chiesto il divorzio, poi però la coppia si era risposata). Burton aveva incontrato Lonergan all’Esposizione Universale di New York del 1939 e lo aveva preso al suo servizio. Lonergan gli era devotissimo e, man mano che le condizioni di salute di Burton si aggravavano, lo aveva assistito con la massima cura. Alla fine, Burton era giunto alla conclusione che Lonergan fosse la sola persona cui potesse affidare quella svampita della figlia, che da bambina era stata tenuta sotto una campana di vetro ma crescendo si era abituata a vivere solo tra feste, divertimenti e amanti occasionali.

Patsy Burton. Foto presa da langologiallo.blogspot.com

Non si può certo dire che una simile unione partisse con le migliori premesse, anche perché Patsy era convinta che Lonergan fosse solo l’uomo che si era guadagnato tutta la fiducia del padre e ignorava tutti i retroscena del loro rapporto. Intraprese una relazione con Lonergan accompagnata dalla benedizione del padre e, quando questo morì, la coppia andò a sposarsi a Las Vegas, lontana dagli occhi indiscreti. Sette mesi dopo, nacque il loro unico figlio, Anthony, che quindi era stato concepito prima ancora del matrimonio.

Tre anni dopo, la loro storia era al capolinea. La coppia si stava separando consensualmente ma le pratiche erano ostacolate dal fatto che Lonergan, da cittadino canadese, era stato chiamato alle armi per il suo Paese e prestava servizio nell’aeronautica, a Toronto. Tornava però a New York ogni volta che era possibile, per vedere il figlio.

La mattina di domenica 24 ottobre 1943 Patsy era attesa a pranzo dalla madre, Lucille Wolfe, ma non si presentò e non rispose alle telefonate. Né la madre né i suoi vicini nel quartiere di Beekham Hill inizialmente si preoccuparono più di tanto: Patsy conduceva una vita molto mondana, si ritirava all’alba, dormiva fino a tardi. Nel pomeriggio, però, visto che Patsy continuava a non rispondere, Lucille cominciò a essere preoccupata per il piccolo Anthony, che aveva un anno e mezzo e viveva con la madre. Fece un giro di chiamate tra i principali amici della figlia e parlò con un certo Peter Elser, che aveva anche lui un appuntamento con Patsy quel giorno, ma nemmeno l’aveva vista. Lucille e Elser decisero di andare a vedere se a casa era tutto a posto. Quando nessuno rispose a diverse bussate alla porta, Elser prese una decisione drastica e forzò la serratura per entrare.

Patsy giaceva distesa sul pavimento della stanza da letto, nuda, con diverse ferite alla testa inferte con un candelabro d’argento. La posizione scomposta e le numerose unghie rotte indicavano che aveva lottato con l’assassino. Dopo essere stata colpita più volte era stata strangolata. Invece il piccolo Anthony, che dormiva in un’altra stanza, era solo un po’ agitato, ma stava benissimo.

Il primo funzionario di polizia a giungere sulla scena del crimine, l’ispettore Patrick Kenny, pensò subito che nel delitto potesse essere coinvolto il marito. Un rapido giro di verifiche permise di accertare che in quel weekend doveva recarsi a New York. Il procuratore distrettuale Jacob Grumet, incaricato di seguire il caso, inviò subito un telegramma a Toronto, chiedendo alla polizia locale di fermare Lonergan, intanto che i detective newyorkesi lo raggiungevano in treno e il sostituto procuratore in aereo.

La mattina presto di lunedì 25 ottobre, i detectives Arthur Harris e Alex Dean della polizia di Toronto si presentarono al residence Belvidere Manor, dove Lonergan risultava residente, chiedendo di lui. La signora Miller, proprietaria del residence, nel condurli all’appartamento dell’uomo, disse era stato fuori nel weekend e che il giorno prima si era ritirato molto tardi.

Lonergan aprì la porta senza fare problemi. Era già vestito, ma in borghese, e quando i poliziotti gli chiesero perché non indossasse la divisa pur essendo giorno di servizio, dichiarò che gli era stata rubata. Gli agenti notarono immediatamente che aveva diversi graffi sul mento e sul petto.

Lonergan non sembrava neanche particolarmente agitato, ma era già al corrente del delitto, poiché era uscito di mattina presto e aveva comprato un quotidiano.

Seguì gli agenti senza fare alcuna resistenza, portandosi dietro una busta contenente pacchetti di sigarette e tre bottiglie di brandy. I poliziotti se la presero comoda: prima di portarlo in centrale: passarono prima per il comando dell’aeronautica a spiegare che Lonergan non poteva prendere servizio quel giorno e poi, dato che nessuno dei tre aveva fatto colazione, si fermarono a mangiare tutti insieme a una tavola calda.

In centrale, Lonergan non batté ciglio quando il brandy gli venne sequestrato. In compenso gli furono lasciate le sigarette, che divise amichevolmente con i poliziotti nelle 24 ore in cui fu trattenuto senza essere interrogato. Infatti, una serie di disservizi nei trasporti fecero sì che solo la mattina di martedì 26 ottobre arrivassero a Toronto i detective newyorkesi William Prendergast e Nicholas Looram incaricati di prelevarlo e il giudice John Loher incaricato di interrogarlo.

Intanto, Lonergan aveva chiamato un suo parente chiedendogli di mandargli un avvocato alla centrale di polizia. Le circostanze del fermo determinarono forse un equivoco, perché quando l’avvocato Michael Doyle si presentò alla centrale gli fu risposto che non era stato fermato nessun Wayne Lonergan. Quando Doyle tornò il giorno dopo, invece, gli fu risposto che non poteva assistere il suo cliente perché questo era stato già preso in consegna dalla giustizia americana. Doyle e il suo socio Lionel Davis avrebbero poi dichiarato, scrivendo anche lettere che fecero molto scalpore ai giornali, che l’estradizione di Lonergan era illegale perché l’uomo non aveva ricevuto alcuna assistenza legale prima di essere estradato.

Giunto a New York, comunque, Lonergan si dimostrò collaborativo al massimo. Ammise di aver distrutto lui l’uniforme, perché macchiata del sangue di Patsy, e diede la seguente versione dei fatti:

sabato 23 ottobre si era recato a New York per vedere il figlio. Sebbene avesse ormai un nuovo compagno fisso, l’arredatore italoamericano Mario Gabelline, quel giorno Patsy era sola in casa con il bambino e piuttosto ben disposta verso l’ex marito. Non è dato di sapere se i due avessero bevuto, ma è molto probabile. Comunque, dopo un po’ di conversazione, la coppia era finita a letto. Ma, subito dopo, mentre Lonergan cominciava a rivestirsi, Patsy aveva ripreso a insultarlo come faceva sempre e ne era scoppiato un litigio, al culmine del quale la donna si era avventata su di lui, prendendogli a morsi il pene e i testicoli. A quel punto, Lonergan aveva perso la testa e l’aveva colpita.

La scabrosità dell’argomento era tale che questo dettaglio fu taciuto alla stampa e passato anche sotto silenzio al successivo processo. Tuttavia, il fatto che il procuratore distrettuale accettasse di derubricare l’accusa da omicidio di primo grado a omicidio di secondo grado (si dice in seguito a una perizia medica in cui Lonergan fu visitato da medici specialisti), sembra confermare la versione dell’uomo.

La tesi per cui avrebbe ucciso Patsy per impossessarsi dell’eredità fu rigettata dalla giuria.

Lonergan fu condannato comunque a 35 anni di reclusione, una pena piuttosto elevata. Ne scontò però solo 23 e nel 1967 fu liberato per buona condotta, a patto che lasciasse gli Usa e non ci tornasse mai più. Tornò in Canada e in poco tempo trovò un’altra donna ricca da cui farsi mantenere, l’attrice Barbara Hamilton, che trovava molto eccitante l’idea di diventare la seconda moglie di un uxoricida.

Sebbene il processo fosse stato il più discreto possibile su certi argomenti, le rivelazioni sulle preferenze personali di Lonergan e sulla vita frivola di Patsy scatenarono le prediche dei moralisti per decenni.

Lonergan morì di cancro nel 1986, a 67 anni. L’eredità Burton, nel frattempo salita al valore di 15 milioni, passò direttamente al figlio Anthony, nel 1954. Il ragazzo ottenne comunque la reale disponibilità della ricchezza solo al raggiungimento della maggiore età, perché fino ad allora rimase sotto la tutela della nonna materna, che lo aveva allevato.