Andrea Gratton (Ottobre 1983) ha pubblicato romanzi per Il Foglio Letterario (Karma involontario, 2011), Ex Cogita (Neanche per prendere la rincorsa, 2015) e Olmis (La rosa di Gerico, 2021). Ha collaborato in antologie per Tellus Folio, Edizioni la Gru e 66th and 2nd. Vive e lavora nella Pedemontana pordenonese.

Una parabola discendente

Di Andrea Gratton

Quando penso alla mia carriera di scrittore penso a una parabola. Una parabola discendente. Il mio primo romanzo era stato un discreto successo. Anzi no, era stato un successo punto e basta. Ottime vendite, ottime recensioni, ottime partecipazioni a fiere e convegni letterari. Non ero nemmeno in rampa di lancio: ero in orbita. Poi, con il secondo romanzo, tutto iniziò a intiepidire. Come una minestra lasciata troppo a lungo sul piatto. In attesa che qualcuno ne porti una
cucchiaiata alla bocca. Le recensioni si erano fatte meno positive. Le vendite erano calate. Gli inviti non erano più così numerosi, né stimolanti. Allora decisi di prendermi una pausa. Un anno sabbatico, in fondo, non si nega a nessuno. Figuriamoci a uno scrittore di grido, che era ciò che mi sentivo di essere in quell’istante. L’anno passò in fretta. Viaggiai un po’ a casaccio, spesi molti dei soldi incassati col primo romanzo, buttai giù appunti per dei nuovi lavori. Di tutte quelle pagine raffazzonate, a voi posso confessarlo, non ne utilizzai nemmeno una. Quando la mia vecchia casa editrice iniziò a farmi pressioni per ritornare a produrre, feci ciò che ogni scrittore di buon senso avrebbe fatto: misi in
cantiere un terzo romanzo. Lo finii in fretta, attento più alle scadenze che alla sostanza. Inutile dire che il romanzo non piacque a nessuno. Non piacque a me, non piacque alla casa editrice e, ovviamente, non piacque al pubblico. Ero finito.
Terminato il contratto iniziai a guardarmi attorno. E, ben presto, mi resi conto che non c’era poi molto da guardare. Nell’ordine ero stato scaricato dalla mia casa editrice, dalla mia compagna, dal mio agente letterario, dai miei “colleghi” scrittori e, per ultimo, da Leone. Il mio gatto. Leone se ne andò una mattina di novembre, senza una reale motivazione. O meglio, con le stesse motivazioni che avevano addotto le persone di cui sopra: l’impossibilità di starmi accanto. Leone, però, non
miagolò nulla. Quanto meno per decenza. Non volle farmi sapere che, in ultima analisi, anche lui mi considerava un fallito. E di questo gli sarò riconoscente in eterno. Dopo questo domino di abbandoni cercai di ripropormi in altri modi. Scrissi alcuni articoli per delle riviste specializzate, partecipai a qualche antologia per un paio di piccoli editori, proposi di collaborare come ghostwriter e traduttore per alcune importanti case editrici. Sbarcai il lunario alla meno peggio, insomma.
Interessato non tanto all’aspetto economico, quanto più al restare vicino alla scrittura. Perché, in fin dei conti, il problema era soltanto uno: non avevo più idee. Non sapevo più cosa scrivere. Ironia della sorte, da tutti quei miei tentativi di riavvicinarmi alla scrittura saltò fuori forse la sola opportunità che avrei preferito evitare con tutte le mie forze. Ovvero quella di tradurre in italiano corrente i bugiardini dei prodotti farmaceutici. Figuratevi un ipocondriaco come me intento
a rielaborare le infinite controindicazioni che un banalissimo farmaco contro il raffreddore può causare. E non solo, moltiplicate tutto ciò per i farmaci contro le disfunzioni renali, quelli contro le cardiopatie, quelli contro le crisi asmatiche e via di questo passo. Centinaia e centinaia di controindicazioni, effetti collaterali, complicazioni da sovra-dosaggio e chi più ne ha più ne metta. Stavo cercando un’occupazione che mi avvicinasse alla scrittura e mi desse sufficiente serenità per
dedicarmi a un nuovo romanzo. Ero finito in una giungla di sintomatologie. Tuttavia non potevo rinunciare a un introito sicuro, così fui costretto ad accettare quel lavoro. Anzi, fui costretto a tenermelo ben stretto. Ringraziando il fatto che mi venisse data la possibilità di non vedere, oltre alla carriera di scrittore, la mia stessa vita imboccare la pericolosa parabola discendente da cui tutto ebbe inizio.
Decisi, così, di lasciare tutto quel che potevo lasciare. Una casa che non mi piaceva. Una vecchia stufa a gas con cui mi ero ustionato già un paio di volte. Scatoloni su scatoloni di libri, ritagli di giornale, vecchi dischi musicali e vestiti. Impacchettai tutto con cura, nonostante provassi per quegli oggetti un sentimento non troppo distante dall’indifferenza. Erano miei, certo, ma nello stato d’animo in cui mi trovavo mi sembrava come se facessero parte di un’altra vita. Di un’altra
esistenza. Fossi entrato casualmente in quella che era la mia vecchia casa e avessi aperto quegli scatoloni, credo non ne avrei riconosciuto il contenuto. Nel chiuderli all’interno di un’improvvisata conchiglia di cartone era come se mi stessi liberando di un peso portato troppo a lungo. Lasciai una città, ovviamente. Una piccola e noiosa città di cui, per rispetto, non farò il nome. La lasciai così, su due piedi. Giusto il tempo di chiudere i contratti delle utenze domestiche e di mettere a conoscenza i miei genitori e mio fratello Pietro della mia scelta di partire. I miei genitori non si fermarono troppo a discutere. Non credo avessero capito la mia scelta. Men che meno credo l’approvassero. Con la prima incomprensione che, a pensarci bene, era decisamente più grave della seconda. Pietro, invece, mi fece una sorta di “in bocca al lupo” privo di parole. Masticò un paio di sigarette, disse qualcosa sull’importanza di reinventarsi, ma non mi chiese nulla dei miei progetti futuri, né delle opportunità sprecate. Così come con i non-miagolii di Leone, fui contento di quel suo non-discorso privo di retorica. I mozziconi delle sue sigarette, schiacciati nervosamente sul selciato di casa, erano sufficienti. Le poche cose che mi servivano le caricai dentro un vecchio. Se per i miei inconcludenti viaggi nel corso dell’anno sabbatico avevo scelto un borsone nero e curato, per quella nuova tappa della mia vita uno zaino sgangherato era più che sufficiente. Dopotutto non avevo bisogno di molte cose. E non perché partissi alla ventura per chissà dove, semplicemente perché mi ero accorto di essere diventato pesante. Di essere diventato eccessivo. Avevo bisogno di spogliarmi. Di perdere quella patina di costruzione che, per diversi anni, mi ero dipinto addosso come uno strato protettivo. O, forse, come una stupida posa. Magro nel corpo, pesante nei pensieri. Nel muovermi, come un pachiderma, lasciavo orme così profonde che era impossibile vederne il particolare. La semplicità mi si manifestava di fronte e io, anche solo per sfiorarla, finivo con lo schiacciarla inesorabilmente.
Presi diversi treni regionali. Cambiai diverse stazioni. Mi nutrii a bibite gasate e cracker, comprati a distributori automatici impolverati e arrugginiti. Poi, semplicemente, arrivai a Monterosso, nelle Cinque Terre. Era dicembre, ed io dovevo essere il solo essere umano desideroso di passare l’inverno in quel luogo.
Non saprei spiegarvi perché scelsi proprio Monterosso per quella mia specie di esilio. Non ci avevo mai messo piede in vita mia, né avevo ricordi che mi legassero alle Cinque Terre o alla Liguria in generale. Forse si trattò della fascinazione per le poesie di Montale, studiate durante un vecchio corso universitario. Quelle descrizioni di luoghi così pregni di naturalismo e, allo stesso tempo, malinconia mi avevano sempre attirato. O forse, più semplicemente, volevo ripercorrere le
orme di uno dei miei scrittori preferiti: Luciano Bianciardi. Auto-esiliatosi a Sant’Anna di Rapallo dopo un romanzo di successo, una critica alla società del commercio sfrenato e un paio di buchi nell’acqua stagnante della letteratura italiana. No, davvero non saprei dire il perché. O meglio non saprei dire perché, nella mia mente, quel posto sconosciuto era finito per compendiare tutti i miei
canoni di ricerca: distanza da chiunque potesse conoscermi, solitudine, silenzio e, aspetto non trascurabile, vicinanza al mare. Presi in affitto un piccolo appartamento distante alcuni chilometri dal centro del paese. Non ci misi molto a trovarlo. Le uniche necessità pratiche che avevo posto erano la vicinanza alla
spiaggia, la distanza dal nucleo rurale e una connessione internet per poter continuare a lavorare. Non chiesi altro. La signora che mi affittò l’appartamento fu ben felice di avere un nuovo inquilino. Qui l’inverno è una carneficina, aveva detto. I turisti si muovono solo d’estate, mentre d’inverno il paese si svuota: è una fortuna trovare qualcuno come lei disposto ad affittare un appartamento in bassa stagione! Io avevo bofonchiato alcune parole di circostanza e, sorridendo, avevo pagato i primi mesi in anticipo. La signora non commentò le mie parole e si infilò il denaro in tasca. In pochi minuti era già fuori da quella che era la mia nuova abitazione. Le cose si erano svolte così in fretta che quasi stentavo a crederci.
I primi giorni li passai a lavorare e a organizzare la mia nuova casa. L’inverno era rigido, e a me mancava quasi tutto il materiale necessario. Non era, però, la comodità ciò che stavo cercando. Una vecchia stufa a legna mi dava calore. Un fornelletto con un paio di fuochi mi dava la possibilità di cucinare. Il tavolo, ampio e spazioso, mi permetteva di lavorare con tranquillità. L’assenza di tutto il superfluo che aveva caratterizzato gli ultimi anni della mia vita era diventata qualcosa di elettrizzante e proibito. Mi sentivo come un ragazzino alle prime vacanze senza i genitori. Non dovevo rendere conto di nulla o a nessuno. Il tutto, perché non volevo avere a che fare con nulla e con nessuno. Credo che quella specie di rifiuto per le persone e le situazioni fosse maturato nell’ultimo
periodo della mia esistenza. Non era stato tanto l’abbandono in sequenza delle persone (e dell’amato Leone) a farmi nascere la necessità di staccarmi da esse. Quanto più la presa di coscienza che tutto ciò era avvenuto senza che io me ne fossi reso conto. Senza che io ne avessi mai preso piena consapevolezza. Certo, percepivo come le mie sfere lavorative, emotive e sentimentali fossero in pericolo, solo non mi rendevo conto di quanto fosse avanzato lo stadio di tale malattia. Di
quanto, insomma, gli addii fossero sul punto di concretizzarsi. Devo dire che mi ferirono più i silenzi che le parole. Forse perché, semplicemente, ricevetti più addii silenziosi che parlati. I pochi parlati, infatti, furono così miseri, che davvero avrei potuto equipararli a silenzi condensati in dialoghi maldestri. Ora che anche le frasi di circostanza si erano seccate al sole dell’indifferenza, ero pronto a immergermi al mio interno. Ero pronto a cercare di comprendere me stesso. Le giornate, quindi, le passavo nel modo più semplice possibile. Scrivendo, leggendo libri che prendevo in prestito presso la biblioteca comunale, cucinando piatti semplici ma dalle preparazioni decisamente lunghe (ero diventato un mago nelle zuppe e nei minestroni). E, soprattutto, camminando. Di solito uscivo un’oretta prima del tramonto, imboccando la via stretta e poco frequentata che dal mio appartamento portava all’arteria principale del paese. Da lì proseguivo verso la stazione dei treni, costeggiando la spiaggia. Camminavo, poi, sul percorso pedonale antistante il lungomare, fermandomi di tanto in tanto per osservare il sole che si tuffava nell’acqua. Mi piaceva vedere la velocità della sua immersione. L’evidenza del buio d’inizio inverno, il quale si manifesta improvviso e inaspettato come un ladro. Allora iniziavo il percorso a ritroso, camminando però, direttamente sulla spiaggia. Con i piedi che si adagiavano lenti e soffici su quella lingua di sabbia bagnata dal mare. Lo sciabordare delle onde sul bagnasciuga era il rumore che accompagnava il silenzio discreto dei miei passi. Attorno a me, quasi sempre, la solitudine più totale. Ci mettevo anche un paio d’ore a compiere quel tragitto. Gustando ogni inerenza di quell’azione. Quasi come se si trattasse di un rito depuratore. Inizialmente era stato un gesto che mi ero imposto. Una sorta di cura alla quale sentivo di dover sottoporre il mio corpo e il mio pensiero. Poi, con il prolungarsi
della mia permanenza, la diffidenza iniziale aveva lasciato spazio alla serenità. Era come se, camminata dopo camminata, riflessione dopo riflessione, quel gesto avesse perso la patina di forzatura e si fosse impossessato dei miei automatismi più reconditi. La mente vagava senza controllo, affollandosi di immagini e ricordi. Abbagli di situazioni facevano il pari con frammenti di conversazioni che credevo di aver rimosso. Vecchie discussioni che credevo di aver appianato. Calciando le conchiglie che trovavo lungo il percorso mi sembrava di calciare lontano l’incomprensione stessa di quelle situazioni. A ben vedere, la mia solitudine era stata più marcata durante quei frangenti che durante le mie camminate quotidiane. Mi sembrava anzi che, per mezzo di queste, mi venisse data la possibilità di rivivere quei contatti e quelle relazioni. Come se, sprecata la prima possibilità, avessi ora l’occasione di dire ciò che volevo. Di essere chi volevo.
Capitava, così, che parlassi tra me e me a voce sostenuta. Intrattenendo dialoghi immaginari con le persone che avevano segnato gli abbandoni degli ultimi mesi. Ci sono stati troppi silenzi, dicevo. Troppi silenzi più rumorosi di un brusio ininterrotto! Come potevo farmi capire? Come potevate pretendere che capissi? Ci ha fregato la comunicazione, questa è la verità! Ora che ho tutto il silenzio del mondo voglio essere ascoltato. E voglio essere chiaro. Preciso. Millimetrico nelle mie spiegazioni. Anche a costo di essere logorroico. Le parole scritte, questo lo avevo imparato a mie spese, non erano davvero in grado di comunicare i miei sentimenti. Quanto meno quelli più profondi. La mia carriera di scrittore era precipitata proprio per questo. E in quelle passeggiate sulla spiaggia me ne resi conto senz’ombra di dubbio: avevo perso la capacità di filtrare le emozioni
direttamente su pagina. Non sto parlando, però, di talento o cose simili. Parlo, piuttosto, della capacità di lasciar trasparire un sentimento attraverso una storia che non fosse necessariamente quella che lo aveva animato. La delicatezza di sapermi non tanto immedesimare in situazioni immaginifiche, quanto più di riuscire ad adattarle al mio sguardo. Di renderle non soltanto reali o credibili, piuttosto sovrapponibili. Adeguate alle storie che avevo deciso di dedicar loro. Le
scadenze continue che arrivavano dal mio agente o dal mio editore avevano fatto a pari con la mia presunzione, maturata dopo il successo del primo romanzo. Ce l’hai già fatta, mi dicevo, ora si tratta solo di riproporre in continuazione il meccanismo. Ma no, non era così, e se questa sorta di maestranza della scrittura funzionava per un sacco di ex-colleghi e mostri sacri, per me era uno schema rotto in partenza. Io avevo necessità di vivere appieno i sentimenti che andavo descrivendo, non di adattarli. Forse non ci crederete, ma non furono gli insuccessi degli ultimi romanzi a farmi capire quanto fosse limitata la mia capacità di dare forma alle parole. No, fu piuttosto una lettera che scrissi alla mia ex-compagna alcune settimane dopo la nostra separazione. Dato che il nostro addio era stato tra quelli più silenziosi del fatidico periodo degli abbandoni, cercai di spiegarle su carta i miei sentimenti e le mie sensazioni. Scrissi un paio di pagine fitte, posseduto da una semplicità di scrittura non troppo diversa da quella che avevo provato nel corso degli ultimi anni. I periodi uscivano fluidi e lineari. Con frasi a effetto piazzate nei punti focali e ripetizioni ben assestate e gradevoli. Avevo imbustato quelle pagine e le avevo spedite all’indirizzo di casa dei suoi genitori,
consapevole che, in un modo o nell’altro, sarebbero arrivate a lei. Esattamente una settimana dopo mi era arrivata una sua email in cui mi ringraziava per averle scritto ma che, in definitiva, ribadiva il fatto che non aveva null’altro da dirmi. Che in quelle pagine aveva letto sì tante belle parole, ma non una che fosse realistica o rispondente allo stato delle cose. Stato delle cose che era ben esemplificato da tutto ciò con cui mi ero scontrato negli ultimi mesi. E che io, con tutte le mie forze,
avevo fatto finta di non vedere. L’email era scritta con un linguaggio scarno. Indifferente, più che distaccato. Tuttavia mi aveva messo di fronte a due evidenze che non ero stato in grado di considerare. Evidenze che erano la causa (nemmeno troppo indiretta) di quello che era diventato il mio esilio a Monterosso. La prima era che avevo perso il contatto con la realtà. La giusta distanza tra quelle che erano le mie impressioni e il mondo che mi circondava. La seconda era che non ero stato in grado di comunicare quali fossero davvero i miei sentimenti. Avevo scritto sì due pagine godibili e appropriate (per chi o per cosa, poi?), tuttavia non ero stato in grado di guardare a fondo dentro di me. Così da dare forma ai miei pensieri, alle mie incongruenze, ai miei errori. Nemmeno una settimana dopo aver ricevuto la sua email avevo deciso di abbandonare l’appartamento, fare i bagagli e partire per Monterosso. Oltre al camminare sul lungomare c’era un’altra attività che mi concedevo in maniera pressoché rituale: visitare un centro commerciale nel corso del week end. Non lo facevo per la necessità di rifornirmi di cibo. Lo facevo per provare una nuova tipologia di solitudine. Ovvero non più quella dell’individuo solo in quanto estraneo fisicamente alla società, bensì quella dell’individuo solo in quanto inserito in una società indifferente. Una società concentrata sull’acquisto di beni di consumo. Così prendevo una serie di autobus e mi recavo in un grande
centro commerciale poco distante da Genova. Una specie di cattedrale di cemento nel deserto, che attirava ogni tipologia di possibile acquirente. A volte ci andavo di sabato, altre volte, invece, puntavo alle domeniche. Avevo notato una sostanziale differenza tra le due giornate. Se il sabato la folla era ancora sovra-eccitata dalla fine della settimana lavorativa, già la domenica iniziava a tradire una sorta di fastidio per il lunedì incombente. Il tutto condito da una specie di odio verso il
luogo in cui si trovavano. Un odio che andava di pari passo con l’evidenza che stavano sprecando tempo, denaro, serenità. Eppure sembravano tutti impossibilitati dal fare altrimenti. Come posseduti da una calamita di rabbia e consumismo. Vagavo per le corsie del negozio e mi imbattevo in facce pressoché catatoniche. Tutto era finalizzato all’acquisto della merce. O meglio, all’impossessarsi di prodotti nella completa alterità rispetto a chiunque passasse loro accanto. Non era, però, una semplice questione di indifferenza. Nel guardare i carrelli della spesa della maggior parte delle persone che popolavano quella specie di tempio, mi sembrava che non vi fosse una reale necessità. Ovvero che gli oggetti che finivano nei carrelli non ci finissero per un preciso bisogno alimentare o pratico, bensì servissero a riempire vuoti più ampi. A colmare fastidi o dissapori ben più reconditi. A volte mi capitava di vedere coppie tenersi il muso per la scelta del tipo di marmellata o di sugo pronto. Altre volte mi imbattevo in bambini intenti a vagare da soli per le corsie del centro commerciale. Dimenticati da genitori troppo presi dalle pile di detersivi in promozione per ricordarsi di avere dei figli. Mi piaceva alternare la mia presenza in quel luogo tra il picco di massima presenza (di solito a mezzogiorno, o nella parte centrale del pomeriggio) e quello di minore afflusso (le ore prima della chiusura, patria di acquirenti smemorati e votati al superfluo). La visione delle due facce di quella dipendenza dall’acquisto mi faceva percepire le diverse declinazioni del medesimo fenomeno. Di tanto in tanto, non lo nascondo, mi scappava un sorriso sarcastico. Immerso nella vuota solitudine di tutti quegli sconosciuti mi sentivo decisamente meno solo. Anzi, mi sentivo rinfrancato nella mia solitudine, che consideravo ben più pura. Temprata dalle scelte che avevo fatto per cercare di capire le ragioni della mia resa invincibile e incondizionata. Ed era proprio in quel tempio dell’indifferenza che trovavo similitudini con le passeggiate sulla spiaggia di Monterosso. Due situazioni così diametralmente opposte che finivano per stimolarsi a vicenda. Per comunicare alla
mente la medesima sensazione di pienezza che andavo cercando. Esclusi i bugiardini farmaceutici, nel corso della mia permanenza a Monterosso non scrissi
una sola riga. Non rilessi vecchi appunti, né tornai sugli ultimi romanzi per capire quali fossero i loro punti deboli. Abbandonato dai legami, mi ero come intestardito sulla mia non-appartenenza a tutto ciò che era successo prima di mettere il piede sul predellino del treno, diretto verso quei luoghi. Dimenticata la scrittura narrativa e immerso fino al collo in quella tecnica (ero diventato un mago nel prevedere gli effetti collaterali dei farmaci antiemetici!), mi ero concentrato maggiormente sulla lettura. Saccheggiando costantemente la piccola biblioteca comunale di
Monterosso. Facevo incetta di libri di scrittori e poeti liguri, concentrandomi soprattutto sui passaggi in cui si parlava del paesaggio delle Cinque Terre o della Liguria in generale. Avevo così ripreso in mano alcuni vecchi libri di Bianciardi, ritrovandomi in quelle sue passeggiate lungo la spiaggia di Rapallo. Non tanto nei sentimenti che le animavano, quando più nella fisicità degli scorci. Nei colori e negli oggetti che aveva utilizzato per descrivere il silenzio malinconico del mare
d’inverno. Gli scarti che si depositavano sulla spiaggia, la sabbia fredda in cui affondavano i piedi, le nuvole basse, capaci di schiacciare il cielo grigio sopra la testa. Mi colpiva quel suo esilio così cosciente e sofferente. Era come se Bianciardi fosse finito in quei luoghi non per ritrovare se stesso, piuttosto per ricaricare le pile al fine di perdersi nuovamente. Con più forza, con più disperazione. Erano così diversi i suoi propositi dai miei! Ecco perché lo alternavo alle poesie di Montale, con i suoi scorci selvaggi, misteriosi, affascinanti. La forza della natura che ritrovavo nelle parole di Montale era la stessa forza che sentivo di notte, quando il vento di Ponente sferzava la porta del mio appartamento. Oppure quando camminavo diretto in paese e, all’improvviso, quelle che erano nuvole grigie e minacciose si
trasformavano in un acquazzone improvvisato. Con le onde nere del mare a gonfiarsi e schiumare di rabbia. Schiantandosi contro la battigia quasi come se si volessero immolare in un’ultima selvaggia rivendicazione. C’era del romanticismo estremo in quegli attacchi così violenti e inevitabili. Era come se la natura cercasse di comunicare con un suo linguaggio ma che, rendendosi conto di non essere compresa, si scagliasse contro qualsiasi cosa le capitasse a tiro. Come un uomo infuriato dal non essere riuscito a trasmettere i propri sentimenti alla persona amata. Allora ripensavo alle poesie di Montale e mi placavo nell’accorgermi che vi era una possibile armonia tra le diverse tipologie di comunicazione. Tra le diverse maniere di rendere partecipe delle nostre sensazioni e peculiarità chi ci circonda.
Così un giorno recuperai il mio zaino da montagna e lo riempii del necessario per una piccola escursione notturna. Presi una torcia elettrica, un paio di felpe, una sciarpa, una bottiglia d’acqua, del cibo e mi diressi verso il vecchio semaforo della marina militare che si trovava all’apice di Punta del Mesco. Partendo dal mio appartamento si trattava di un’escursione di poco più di un’ora, attraverso un sentiero già caratterizzato da Montale per i suoi massi e le rade sterpaglie.
Avevo deciso di salire al buio per una sorta di continuità con tutte le camminate serali fatte sul lungomare di Monterosso. E, perché no, per ribadire quella lontananza dalla luce naturale che provavo ogni volta che mi recavo al centro commerciale. Mi incamminai diretto al semaforo, con lo zaino da montagna sulle spalle, la torcia in mano, la mente lucida e sgombra. Passo dopo passo constatavo la differenza tra la sabbia soffice e umida e le rocce dure su cui si adagiavano le
sterpaglie rattrappite. La torcia emanava una luce flebile, la quale illuminava quel tanto che bastava per capire la direzione da seguire. Mi sentivo come se mi stessi muovendo entro i bordi dell’abisso. Come se la luce della torcia mi desse la possibilità di vedere non tanto la direzione da seguire, quanto più i limiti entro i quali non cadere. Le coordinate entro le quali non lasciarmi andare. Nel buio di quella notte invernale, quindi, io salii per il sentiero che da Monterosso porta a
Punta del Mesco. E lo feci incurante di tutto. Lo feci semplicemente per sentire il buio e la solitudine dentro di me. Per provare la paura recondita della notte, unita al fatto di essere solo in un luogo sconosciuto. Senza indicazioni, senza punti di riferimento, senza nessuno capace di aiutarmi. Eppure continuai a salire, perché sapevo che quella era la sola cosa da farsi. Passo dopo passo, roccia dopo roccia, sterpaglia dopo sterpaglia. E più salivo più il buio sembrava diradarsi. Come se,
avvicinandomi all’apice, i cancelli della notte si aprissero. La torcia, quindi, si fece quasi superflua. La richiusi, iniziando a camminare supportato soltanto dalla flebile luce lunare. Camminai finché non arrivai al vecchio semaforo della marina militare. Un rudere che, a parte la struttura cementizia, appariva spogliato di ogni cosa.
I rovi avevano iniziato ad avvolgerlo con discrezione, avvicinandosi circospetti allo
scheletro di quello che una volta era stato un indispensabile fornitore di indicazioni marine. Si insinuavano dalle fondamenta, arrampicandosi timidi sulle pareti scolorite. Tuttavia erano ben lontani dal prenderne possesso. Era come se la natura non fosse ancora pronta a inglobare quella struttura, così da omogeneizzarla a se stessa. Come se nutrisse una sorta di rispetto per il semaforo.
Oppure come se si immaginasse che non fosse ancora giunto alla fine della sua esistenza. Salii una piccola scalinata di pietra e fui dentro all’ultimo piano. Quello che, per mezzo di un’ampia feritoia, doveva aver ospitato le luci di segnalazione. Accesi la torcia per vedere se ci fosse ancora qualcosa all’interno. Esclusi un paio di preservativi usati gettati in un angolo e dei vetri rotti non c’era nulla. Le pareti, però, erano imbrattate da scritte adolescenziali. Nomi propri, commenti sarcastici sulla dubbia moralità di qualche sconosciuto, date, dichiarazioni d’amore, proposte sessuali. Pensai all’assurdità di tutti i ragazzini che avevano scarpinato fin lì soltanto per deporre quegli scarabocchi da liceali. Banalità che si potevano leggere in qualsiasi bagno pubblico o muro cittadino. Abbozzai un sorriso sarcastico e mi proiettai verso la feritoia che si apriva sullo spaccato del Mar Ligure. Nero, come un’immensa macchia d’inchiostro. La luna lo illuminava quel tanto che bastava per dipingergli addosso una patina biancastra. Una patina distaccata, però, dall’essenza stessa del mare. Come una federa sdrucita appoggiata su un lenzuolo di seta nera. L’aria era fredda e mi solleticava il corpo, soprattutto a causa del sudore accumulato nel corso della salita. Il calore dei vestiti a contatto con il freddo umido della notte, poi, sprigionava una sorta di vapore acqueo in tutta la costruzione. Mi sembrava di essere un’entità soprannaturale. Un fantasma che, nel buio della notte, emanava la sua aura mistica. L’assenza di rumore acuiva la sensazione di una realtà straniante. Il buio del paesaggio, il calore del corpo, il
vapore acqueo tutt’intorno. Nell’inchiostro del mare mi sembrava di aver trovato una sorta di pace superiore. Un frammento puro di quella solitudine che stavo cercando con così tanta insistenza. Allora avrei voluto esternare tutte le domande alle quali non ero stato in grado di trovare risposta. Già, ma esternare a chi? In attesa di quale risposta? Avvolto in una folla indifferente mi ero trovato
impossibilitato ad ascoltare me stesso. Aggrappato alla mia solitudine scoprivo di non aver nessuno a cui rivolgermi. Il mattino dopo mi feci una doccia calda e uscii di buon’ora. Presi la solita sequenza di autobus affollati dai pendolari del weekend, deciso a trascorrere l’ennesima giornata nella solitudine pullulante di gente del centro commerciale. Era una giornata invernale fredda e luminosa. Con la luce del sole simile a quella di una luna algida e globulare. Le persone sembravano in fermento. Frastornate dal freddo rapace dell’aria che si fondeva alla luce scintillante del sole. Sul piazzale di cemento, in attesa del bus navetta diretto al centro commerciale, pensavo alle migliaia di pagine scritte cui non ero riuscito a dare vita. Ai romanzi abbandonati dopo incipit che avevo ritenuto folgoranti. Ai racconti conclusi, ma mai realmente amati. A quelli abbandonati a metà. A quelli
abbandonati e basta. Agli articoli, alle recensioni, ai commenti. Agli appunti di viaggio per viaggi che non avevo saputo vivere appieno. Quanto spreco di forze! Quanto tempo gettato alle ortiche alla ricerca di riempire un vuoto che avevo confuso con la necessità di scrivere. Quante banalità, poi, in quello che avevo scritto cercando di essere chi non ero. Pensavo che, così facendo, avrei condotto il
lettore là dove avrei voluto io. Là dove mi ero prefissato di portarlo. Quasi a forza. Quanta presunzione! Non si può condurre lo stomaco a ragionare all’unisono col cervello se prima non si sono appresi i movimenti basilari del corpo. Se prima non si è riusciti a dissipare tutti i dubbi su se stessi. Nel freddo accecante di quel mattino ligure, mi sembrava di aver capito quanto avessi sbagliato ad arrendermi alla facilità. Quanto fosse inappropriato aver ceduto alle lusinghe di chi da me non cercava altro se non una proiezione parziale. Se non un surrogato di ciò che ero. Una persona tascabile, adatta a ogni evenienza. Allora mandai al diavolo anche la mia solitudine imposta e rovesciai la ritualità della ricerca dell’indifferenza. Lasciai tutti quegli sconosciuti al loro bus navetta e al loro centro commerciale e presi il primo autobus per Genova. Inutile dire che non ero mai stato a Genova. Né ne avevo mai sentito la necessità, pur essendone così vicino. L’autobus mi lasciò in un parcheggio grigio e sporco a pochi passi dalla stazione dei treni. Iniziai così a camminare senza meta, incrociando via via le stradine strette e pietrose, i caruggi scuri in cui non sembra mai filtrare la luce e i palazzoni alti e barocchi, con le
loro modanature vecchie di secoli. Mi muovevo per la città come un’anima in pena. Le mani infilate a forza nelle tasche del giubbotto, per proteggerle dal freddo. Mi muovevo senza avere alcuna meta precisa. Senza sapere minimamente dove sarei andato a parare o cosa avrei potuto aspettarmi da quella passeggiata per una città sconosciuta. Costeggiai il porto vecchio, guardai il mare calmo e oleoso davanti a me. Mi persi nella rutilante e caotica frenesia delle automobili incolonnate ai semafori. Mi fermai a fissare le persone intente a muoversi per le vie del centro con grandi borse di carta. Insomma, abbandonai la mia mente allo scorrere degli eventi, nell’attesa che un flusso nuovo si impadronisse di me. Che mi desse la capacità di tirare le fila di tutto ciò che avevo vissuto. Di tutto ciò che in quei mesi avevo sedimentato. Solitudine. Solitudine in tutte le sue inerenze. Come il
freddo sole d’inverno che schiantava la città. Così iniziai a camminare ancor più lentamente. Cercando di trasportare tutte le emozioni provate nel mio soggiorno a Monterosso tra le vie di Genova. Allora era come se a ogni passo corrispondesse un ricordo. A ogni movimento corrispondesse una riflessione profonda. E fu come un attimo. Una folgorazione. Mi passò davanti la marea di immagini e frammenti di parole scritte che avevo sprecato nel corso di quegli anni. Tutte. Senza alcuna distinzione. Un getto continuo di errori e confusione e speranze e intuizioni. Allora mi sentii come la battigia di Monterosso. Una spiaggia pronta ad accogliere i detriti del mare. Ossi di seppia, frammenti di conchiglie, spugne bianche, alghe
sfilacciate, mostri marini. Quello era il mio spazio. Quello era il mio compito. Dallo sciabordare della schiuma del mare dovevo raccogliere quei rimasugli scomposti e dare loro vita. Il brulicare primitivo non era in me. Non lo sarebbe mai stato. Io ero la riproposizione di un nuovo fermento. Il grembo accogliente dove le occasioni si sarebbero depositate per diventare storie. Per reincarnarsi in parole e immagini. Non in ex-voto privi d’anima. Così alzai gli occhi al cielo, pallido e freddo, e mi accorsi che ero salito fino alla parte alta della città. Mi guardai un attimo attorno e mi concentrai su un’immagine inusuale, che mi colpì profondamente. Da un balcone era steso ad asciugare un lenzuolo bianchissimo. Sventolava ai timidi rivoli di vento che accarezzavano Genova. Lo faceva con una discrezione armonica. Con una leggerezza quasi emotiva. Guardarlo era come perdersi nel ritmo della pagina bianca. In una storia priva di contorni che mi veniva dato di raccontare. Chi poteva aver lasciato un lenzuolo ad asciugare in quella giornata invernale? Non avevo visto vestiti appesi in qualsiasi altro balcone della città. Perché proprio da quello, invece, penzolava un lenzuolo bianco? Un lenzuolo puro, immacolato. Un lenzuolo che aspettava solamente di essere raccolto e riutilizzato. E poi, perché tutta quest’urgenza di lavarlo e stenderlo al sole d’inverno? Perché l’autore di quel gesto non aveva aspettato che il lenzuolo si asciugasse all’interno delle pareti di casa? O magari tramite un’asciugatrice elettrica? Iniziai a pormi questa e molte altre domande, anche se la verità era che non riuscivo a distogliere lo sguardo dal lenzuolo che sventolava da quel balcone della città alta. Il suo candore e il suo movimento ondulatorio erano come ipnotici, e davvero credo di essere rimasto
ammaliato da quella visione. Da quel lenzuolo che era stato ripulito dai detriti della notte, e che ora si presentava in tutta la sua disponibilità creatrice. In tutta la sua voglia di accogliere nuove storie e nuovi corpi. Nuovi momenti di intimità, nuove frizioni, nuovi sciabordii sentimentali. Come una spiaggia soffice. Come un grembo accogliente. Un miagolio sordo mi distrasse da quell’immagine.
Mi girai in direzione di quel suono. Un gatto uscì da un vicolo. Incrociò un altro gatto. Miagolò nuovamente, questa volta di disappunto. Pensai al mio vecchio Leone. Sorrisi. Mi girai verso il balcone. Il lenzuolo era sparito. Ora che tutta questa storia è alle spalle, e che la primavera sembra prendere possesso dei corpi e dei luoghi, lo so che vi piacerebbe sapere che ne è stato di me. Dove sono finito. Se ho
trovato le risposte che cercavo. Se mi sono riappacificato con chi o cosa di dovere e sì, se sono riuscito finalmente a trovare l’idea di cui parlavo. Quella capace di collegare i sentimenti alle storie. Quella capace di restituirmi non tanto l’ispirazione perduta, quanto più la consapevolezza di ciò che voglio raccontare. La pienezza dei pensieri cui voglio dare forma. Devo dire, però, che non ho una risposta a queste domande. Né credo siano poi così importanti. Certo, molte cose sono cambiate da quell’inverno a Monterosso, ma mi sembra che il percorso sia così drasticamente in divenire che fermarmi per dare dei ragguagli su ciò che mi sta accadendo sia soltanto del tempo perso. O meglio, del tempo che rischierebbe di rallentare un meccanismo già in atto. Una pausa che potrebbe essere negativa per tutto ciò che mi sento ribollire dentro. Certo, mi piacerebbe dirvi che le parole stanno uscendo con una semplicità mai provata prima, che le storie mi fioccano nella mente come idee estemporanee, che le pagine che butto giù sono pagine piene, convincenti, accattivanti. Mi piacerebbe dirvi che sento di nuovo un fuoco dentro di me, e che l’assurda solitudine che ho provato quest’inverno mi ha rafforzato e temprato, permettendomi di affrontare con uno spirito nuovo tutte
le difficoltà. Mi piacerebbe dirvi che ho lasciato Monterosso non appena è iniziato il contro-esodo dei primi turisti. Che ho ripercorso molte volte la salita fin su a Punta del Mesco, e che mi sono emozionato quando mi capitava di incontrare coppiette di giovanissimi intente a baciarsi adagiate sui ruderi che precedono il semaforo. Mi piacerebbe raccontarvi di come sono tornato diverse volte
a Genova, alla ricerca di quel lenzuolo bianco e immacolato. Di come non sia mai riuscito a trovarlo, tant’è che sembrava che in tutta la città nessuno mettesse più a stendere le lenzuola. Mi piacerebbe raccontarvi di come, al mio ritorno a casa, sono stato accolto dai miei genitori e da mio fratello Pietro. Del suo “bentornato” che, come il precedente “in bocca al lupo”, era stato detto senza parole. Senza emettere alcun suono. Mi piacerebbe raccontarvi di come sia passato
nuovamente sotto il mio vecchio appartamento. Di come non lo abbia fatto per caso. Di come lo abbia fatto per vedere se era restato qualcosa di mio. Qualche segno, fosse anche lievissimo, del mio passaggio. I famosi detriti che sciabordano dal mare sulla spiaggia. Mi piacerebbe dirvi che, mentre ero lì imbambolato sotto il balcone, dalla siepe del giardino accanto è uscito Leone. Il mio vecchio, caro Leone. E vorrei raccontarvelo come se fosse una fiaba, perché a descrivervelo come
un fatto reale dubito che qualcuno di voi lo crederebbe possibile. Così Leone è uscito fuori dalla siepe e mi ha guardato in silenzio. Sembrava che entrambi portassimo addosso come i segni di una lotta più grande di noi. E che li portassimo non tanto nel corpo, quanto più nello sguardo. Leone mi si è avvicinato a passi lenti, quindi, emettendo un miagolio di riappacificazione più che di sorpresa. Allora io mi sono chinato verso di lui, allungando la mano in cerca del suo muso triangolare. Lui ha tirato fuori la lingua rossa e ruvida, e ha iniziato a leccare la mia mano con insistenza. Ce ne siamo stati così per un po’, senza compiere altri gesti. Era primavera, e l’inverno era lontano un’intera vita. E forse molto di più. Per certi versi, in fondo, l’inverno non c’era ma stato. Mi piacerebbe davvero raccontarvi una storia del genere. Mi piacerebbe farvi capire cos’ho
provato prima, durante e dopo. Mi piacerebbe farvi credere che si sia trattato come una specie di fiaba, e che quello che ho ricordato non sia mai avvenuto nel mondo reale, ma soltanto nella mia mente. Mi piacerebbe far sì che siano delle immagini a raccontarlo, perché le parole mi sembrano sempre noiose e sovrabbondanti. Come la solitudine che ci avvolge quando siamo immersi nell’indifferenza altrui. O come le discussioni che non portano a nulla, se non a creare nuove incomprensioni. Mi piacerebbe, davvero mi piacerebbe riuscire a fare qualcosa del genere. Ma ho le mani impegnate ad accarezzare il vecchio Leone. E sento silenzio tutt’intorno a me. Silenzio e pace. Le due cose da cui si deve partire per raccontare una fiaba. La fiaba di uno scrittore che torna a scrivere delle carezze dispensate al suo vecchio gatto. E del calore che si prova nel farlo. Mi piacerebbe, davvero mi piacerebbe. E quando succederà, beh, potete scommetterci che sarete i primi a leggere questa fiaba.

L’immagine di copertina è un’opera di Herman Bas presa dal sito dia.org