Paolo Umberto Pasquon, nato a Eraclea tempo fa, ha sempre litigato con le note biografiche che talvolta gli venivano chieste; anche questa volta è stato così. Lavoro, studi fatti, vita personale, sono tutte cose di cui riesce a parlare a fatica. Sappiate solo questo: gli piacciono le auto veloci e italiane, la disco music degli anni settanta, vecchi noir in bianco e nero, scrivere storie. Le cose che non gli piacciono sono molte di più, avete presente la lunghezza di Guerra e Pace? Nonostante tutto, continua a essere fiducioso nel futuro e a voler sempre scoprire cosa c’è Oltre la Collina.

La vergogna ha il suono di due euro che cadono

di Paolo Umberto Pasquon

Che sarebbe stato un giorno di quelli, Ali lo intuì non appena mise i piedi giù dal letto, a pomeriggio iniziato da un pezzo, e schiacciò un paio di cimici che si stavano nascondendo proprio vicino al tappeto in finta lana che gli aveva regalato sua zia Fat, poco prima di partire per Zurigo. Non capì subito di cosa si trattasse, all’inizio sentì come qualcosa di viscido che gli si era spalmato sotto la pianta del piede destro, quello che s’era fatto male giocando a calcio, poi arrivò la puzza: nauseabonda, come se si fosse aperto un varco su tutte le fogne del mondo. I recettori olfattivi non resistettero e lo spinsero a cercare subito un rimedio. Intorpidito, con gli arti e il corpo ancora raggomitolati nel sonno, caracollò in direzione del bagno. Fece scorrere l’acqua della doccia poi si guardò allo specchio: aveva delle profonde occhiaie nere, residui della nottata di bisboccia con Luca e Andrea. Ai lati della bocca, una sottile linea di bava scura rappresa gli ricamava il profilo secco e affilato del mento in una smorfia bizzarra e allo stesso tempo inquietante. Si passò una mano sulla testa e, fra i lunghi capelli rabbuffati, scoprì con dolore una leggera increspatura della cute là dove aveva battuto sullo stipite della porta di casa quando era rientrato un po’ sbronzo la notte prima. L’alito lo fece indietreggiare schifato, pareva facesse a gara con la puzza degli insetti schiacciati. Si girò e allungò una mano sotto l’acqua che scendeva calda creando volute di vapore bollente tutt’attorno, e lasciò che il getto ristoratore lavasse via dal suo corpo, assieme al fetore, tutto lo sporco che aveva accumulato e che lo rivestiva come una seconda pelle. Poggiò le mani sulla parete difronte e iniziò a 1 pregare. Non che fosse mai stato un devoto osservante di un qualsiasi tipo di credo religioso, ma pensò che non gli potesse far male, dopotutto. Del resto, non gli restava altro che pregare. Con Giulia le cose s’erano messe al peggio, il lavoro, beh non c’era proprio e più si dannava per trovarne uno più le cose sembravano farsi difficili. Colloqui ce n’erano stati, e la risposta sempre quella “grazie le faremo sapere”. Stava ancora aspettando. Gli restavano duecento euro sul conto e poco altro. L’affitto del monolocale per fortuna non era alto: centocinquanta euro e molti servizi alla padrona di casa. La signora Matilde, la sua affittuaria, aveva cinquantotto anni ed era la vedova del ragionier Pistilli che una mattina, mentre percorreva la solita strada per andare al lavoro, era stato investito da una macchina guidata da un certo Grisaldi che s’era giustificato dicendo che non l’aveva visto mentre attraversava le strisce pedonali. Lei s’era ripresa presto dal lutto, e aveva cominciato ad affittare parte della grande casa in cui viveva a studenti o tali. Bastava che pagassero e rigorosamente in nero, come s’era sempre raccomandata, e non le interessava altro. Uscì dalla doccia e si asciugò davanti allo specchio ovale. Si sentiva meglio e la botta in testa gli faceva meno male. Si diresse verso l’angolo dove teneva la macchina per il caffè inserì una capsula e guardò sgorgare il liquido nero e fumante, carico dell’acre profumo di terre lontane. Guardò fuori dall’unica finestra che c’era mentre il caffè iniziava a fargli effetto. Il cielo era grigio e carico di pioggia e calcolò quante foglie gli sarebbe toccato raccogliere quel fine settimana. Sarebbero state un bel mucchio. Era autunno e oltre le colline che circondavano come un rosario lo stretto orizzonte, stormi e stormi di uccelli si dirigevano in ordinate formazioni geometriche verso luoghi più accoglienti. Si vestì: jeans, maglione girocollo a coste, Allstar grigie con la stoffa ormai quasi a 2 brandelli, giubbotto in simil pelle da 20 euro al mercato rionale e uscì dalla stanza. Non fece neanche due metri che una voce alle sue spalle lo chiamò indietro. «Aliano, senti ti devo parlare», era la signora Matilde in vestaglia e ciabatte, con la faccia di chi ha appena visto una mosca passeggiare sulla fetta di pane spalmata di marmellata mentre se la sta ficcando in bocca. Ali sentì come una scossa serpeggiare sottopelle ben sapendo che cosa volesse. Cercò di mantenersi positivo e abbozzò un sottile sorriso rassicurante. Lei mantenne l’espressione severa e lo fissò per un lungo momento, poi la sua bocca parve aprirsi come al rallentatore, le rughe ai lati del viso e sulla fronte, si infossarono ancora di più, le labbra stirate divennero più sottili, se possibile, di quanto lo erano già in origine. Le vene sul collo s’erano ingrossate ed erano diventate un tutt’uno con la flaccidità della pelle che si attorcigliava e s’accavallava in disgustosi cuscinetti mollicci con la consistenza gelatinosa di un budino. «Sei in arretrato di due mesi con l’affitto» gli esplose in faccia assieme a una quantità industriale di saliva. Aliano la stette a guardare in quella rituale esibizione che teneva ogni santo primo del mese. «Stasera avrà i suoi soldi», le disse cercando di aggirarla anche se era un’impresa tutt’altro che facile vista la mole della donna. Lei lo prese per un braccio e lo strattonò e continuò a sibilargli contro con un livore che lo sorprese. «Li voglio tutti uno sull’altro. Tutti quanti e trecento. Qua in mano». Gli occhi parevano schizzarle fuori dalle orbite. Rossi. Cattivi. Aliano sentì la testa pulsargli al ritmo dello scorrere del sangue nelle vene e una sensazione di svilimento lo colse lasciandolo senza forze. Lei lo guardava trafelata, le labbra che tremavano per la tensione e il petto che andava su e giù al ritmo del respiro impazzito. Il gatto Orfeo gli passò tra le gambe e iniziò a fare le fusa. Ali fissandolo si disse che non meritava una padrona del genere. La guardò un’ultima volta poi, 3 senza una parola, uscì di casa con l’umore ancora più nero di prima. Perfino il cielo grigio gli parve più scuro di com’era. Si avviò alla fermata dell’autobus poco distante e aspettò il quattro barrato che lo avrebbe portato in centro. L’aria umida serpeggiava avvolgendolo tra le sue spire e appiccicandogli addosso gli abiti. Ripensò a quanto era successo, e dove li trovo adesso trecento euro per l’affitto si chiese. Di darle un acconto neppure a parlarle dopo la sfuriata di prima. Arrivò l’autobus strapieno e ci salì a fatica restando stretto a ridosso della porta di accesso pressato come un trancio di tonno in scatola. La sua meta era il Bar da Ricky, poche fermate più avanti, dove sapeva di trovare Luca e Andrea. Il posto si trovava all’angolo di una laterale del corso principale, tra un pizza express e un chebab. Da fuori non sembrava niente di che, dentro era anche peggio. Ricky se ne era andato da un pezzo, ora il locale era gestito da cinesi ma i prezzi, cosa strana, erano rimasti ai tempi di Ricky. Il posto giusto per tirare le giornate senza spendere un capitale. Appena dentro fu catturato dalle immagini caleidoscopiche della smart tv da 50 pollici sintonizzata su Rete 105 appesa alla parete sul fondo del locale. Le immagini scorrevano senza sonoro creando una voluta sensazione di vivere in una realtà distopica. Luca e Andrea s’erano sistemati vicino alla vetrata che dava sulla strada dove, come una luminaria natalizia, era appesa una insegna al neon verde e rossa con la scritta Aperto 24h. La porta della sala slot alle loro spalle. Quando lo videro, smisero subito di cincischiare con gli smartphone e lo chiamarono al loro tavolo. Luca era il più alto dei due, capelli neri cortissimi, barba lunga ben curata come si portava in quel periodo. Occhi azzurri. Maglione e pantaloni griffati, scarponi militari ai piedi. Andrea più tarchiato e con la pelata che risplendeva sotto l’effetto di qualche lampada, indossava il solito parka verde oliva e chinos dello stesso colore e distese le labbra in un sorriso malizioso. Gli occhi neri lo fissavano dilatati dando allo sguardo un che di allucinato. Luca gli passò un bicchiere di rudler, ma Ali non lo prese. «Sono alla canna del gas ragazzi, la stronza della padrona di casa vuole l’affitto e io non ce la faccio». I due si guardarono in silenzio, pareva quasi che si parlassero telepaticamente. Per alcuni istanti si sentì solo il gorgoglio smorto della macchina del caffè, poi annuirono nello stesso momento e si girarono verso Ali che nel frattempo s’era seduto di fronte a loro. «Uhm, allora le cose stanno così Ali», disse Andrea, «e che pensi di fare?». «Non lo so, e a dire il vero non me ne frega più di tanto», rispose allontanando da se la birra al limone . «Cazzo, ma come fate a bere ancora dopo ieri sera?». Andrea guardava fuori e si stropicciava il naso in preda a una sorta di frenesia irrefrenabile. «Dovresti smetterla per un po’ con quella roba», disse Ali. «E te dovresti smetterla di dirmelo», ringhiò l’altro sempre più nervoso. «Mah la vita è tua, se te la vuoi rovinare così, fai pure, è solo fastidioso vederti maltrattare quel povero naso tutto il santo giorno. Sei patetico». «E finitela che iniziate a rompere», disse Luca sbattendo sul tavolo il suo bicchiere vuoto, interrompendo la cosa prima andasse oltre. «Ali, è passata Giulia ti stava cercando. Dice che non le rispondi». «Non ci voglio parlare«, disse lui guardando fuori. «Non posso». Il cielo si stava oscurando sempre più e le prime gocce di pioggia cominciavano a lasciare il segno sulle vetrate del locale scivolando come lacrime su un viso di marmo. Ali pensò ad un altro giorno di pioggia, freddo e scuro come quello. 5 Stava in un locale del centro stracolmo di gente che cercava un riparo. C’era Giulia con lui, attaccata al suo braccio che tentava di non farsi travolgere dalla calca assordante. Aveva i cappelli lunghi e biondi nascosti sotto un berretto nero di lana a maglie larghe e sembrava che avesse in testa un cielo di stelle e la coda che le usciva da dietro poteva benissimo essere quella di una cometa. Un vociferare in cinese lo scosse dai ricordi e voltandosi vide i due orientali che stavano dietro al banco dirsene di tutti i colori nella loro caotica lingua. A vederli gli parvero due galletti da combattimento pronti a sfidarsi a duello racchiusi in un improbabile arena. Poi com’era iniziata, la questione finì ed entrambi tornarono impassibili alle loro faccende. Ali bevve un caffè che sapeva di fondi bruciati, amaro così come se l’era immaginato. Ne aveva mandati giù tanti di uguali e la cosa lo lasciò del tutto indifferente. Sulla parete di fronte, lo schermo trasmetteva immagini mute di videoclip degli anni ottanta e novanta mentre la macchina da caffè gorgogliava l’ennesima razione di pece schifosa. «Senti Ali», se ne uscì fuori dopo un po’ Luca, «io e Andrea avremmo una proposta da farti, così potresti risolverti un po’ di problemi». «E cioè?», fece Ali cauto. «Beh si tratta di una faccenda facile facile e ci serve uno con la tua faccia da bravo ragazzo». «Continua». «Beh c’è questa tipa che pare abbia perso un cagnolino, è disperata perché era un regalo del suo amore defunto. E’ strana la tipa, un po’ fuori di testa, lo capirai anche te, ma sembra sia disposta a sganciare un bel po’ di euro a chi lo ritrovasse». «A voi chi l’ha detto?». «Andrea esce con la sua parrucchiera, sai come va, le donne quando sono là parlano di tutto, e questa non fa altro che disperarsi per il suo 6 Fifì che s’è smarrito». «E di quant’è la ricompensa?». «Mille Euro, metà per te e metà per noi». «Che c’è sotto volle sapere Ali a quel punto». «Beh», tentennò un attimo Luca, «la questione è che il cane non c’è, è tutta una invenzione della sua mente malata». «Pare che la fuori di testa», intervenne Andrea che intanto s’era calmato, «si sia fissata con quest’idea del cane, di Fifì, che il suo amore morto le parli dall’aldilà chiedendole come stà Fifì, che ha fatto oggi Fifì, insomma cose di questo tipo. Ma il cane non c’è e allora lei s’è messa in testa che qualcuno glielo abbia portato via. E’ disperata perché non sa cosa fare e ha paura che il morto venendo a saperlo, non le voglia più parlare». «Azzo, quanto chiacchierano dalla parrucchiera le donne», sogghignò Luca con un mezzo sorriso tracannando l’ennesima Radler. Ali li osservò scambiarsi dei lunghi sguardi di intesa e si chiese, per l’ennesima volta, come fosse finito a stare con quei due. «Sono mille euro Ali, facili facili», continuò Luca, «ma se non ti interessa, ci arrangeremo in un altro modo». «Perché mi volete tirar dentro?». «Per via della tua faccia da bravo ragazzo e perché se no’!». «Le nostre, beh le vedi, non sono proprio da bravi ragazzi e la pazza, ma non cogliona a tal punto, non si fiderebbe di noi. E’ del vecchio tipo, di quelle che si fidano di quelli come te. Poi ci ha già visto bazzicare in salone e sospetterebbe subito». «E per il cane come pensate di fare? Ne avete uno sottomano già pronto», li provocò Ali. «Il cane c’è, e anche della razza giusta, un bel carlino piccolo piccolo, di quelli che stanno dentro a una borsetta». Alì se ne stette in silenzio, quasi volesse soppesare le cose. 7 Fuori il tempo s’era fatto più duro e oltre la pioggia aveva cominciato a soffiare un vento fastidioso che faceva perdere ogni voglia di uscire all’aperto. Luca e Andrea si scambiarono un cenno d’intesa. «Ok allora?», fece Luca, «il cane è qua dentro» e tirò fuori da sotto il tavolino una borsa di quelle da palestra, «e questo è l’indirizzo. Dai accetta, del resto per come sei messo a grana, non hai scelta, o no! E non te la prendere su, dopo tutto, si tratta solo di far del bene», e scoppiò in una risata sguaiata seguito a ruota da Andrea che aveva ripreso a tormentarsi il povero naso mimando un gesto che ormai gli veniva di riflesso. «Già», ammise Ali, «non posso farne a meno, ma non fino a questo punto». Espirò a fondo, lasciando andare i pensieri e con una smorfia amara stampata in viso disse: «più vi guardo e più mi do dello scemo per aver creduto di aver trovato degli amici. Di quelli veri, sinceri. Invece non siete altro che dei balordi. Vi atteggiate tanto a duri, ahahaha, buoni solo a fregare le povere vecchiette. Basta ho chiuso con voi». Andrea fece per alzarsi tutto rosso in viso e con uno sguardo che la diceva lunga sulle sue intenzioni, ma Luca lo prese per un braccio e lo bloccò. «Lascialo andare a sto poveraccio, sto morto di fame. Non ci sporchiamo con sta merda ingrata. E te», continuò rivolto ad Ali, «ti va bene che oggi sono di buon umore e sai chi me l’ha fatto venire? Non lo immagini? Giulia è proprio un bel bocconcino. E’ uno sfizio che mi voglio togliere, prima o poi». «Seeeee», fece Ali, sibilando nei loro confronti, «la vedremo!», e uscì, senza far caso agli strali di pioggia e vento che lo colpivano come frustate impietose. S’incamminò lungo il marciapiede badando a scansare il flusso 8 frettoloso di persone che non vedevano l’ora di togliersi da quel diluvio autunnale. Girò l’angolo della laterale che immetteva sul corso principale illuminato dalle mille luci di una città che non poteva fermarsi mai e in un androne nascosto, defilata in un angolo, la vide. Giulia lo fissava senza dire una parola. Era fradicia dalla testa ai piedi e batteva i denti, forse dal freddo, o forse per qualcos’altro. Non si mosse e lui, colto di sorpresa, se ne stette immobile senza saper cosa fare. Passò un autobus rombando asfittico nel traffico frenetico e impazzito ma ad Ali parve come se tutto scorresse al rallentatore, muovendosi senza meta in una scura melma gelatinosa. Giulia fece un passo verso di lui chiusa nel suo giaccone rosso lampone e con gli stivali anti pioggia gialli che sguazzavano nelle pozze d’acqua quasi senza far rumore. I grandi occhi nocciola, con una espressione da ragazzina spaurita, erano piantati sui suoi. La bocca piena e agitata pareva volesse dire qualcosa, ma nessun suono usciva da quelle labbra. Si guardarono per lunghi istanti, in silenzio, avvolti dal rumore della pioggia battente mescolato alla cacofonia di un allarme impazzito poi, senza esitazione, Giulia gli si lanciò tra le braccia piangendo disperata. Ali se la strinse al petto senza una parola, mentre la pioggia iniziava a scemare d’intensità fin quasi a smettere del tutto. «Che c’è piccola», disse Ali cercando di consolarla. Lei non rispose e continuò a fissarlo stravolta e col rimmel completamente dissolto in mille rivoli che le solcavano il viso. «Perché non mi rispondi quando ti chiamo al cellulare? Ero stata a cercarti da Ricky, ma non c’eri, poi ho visto Luca e Andrea. Hanno cominciato a fare gli stupidi e mi hanno messo paura, così mene sono andata. Mi chiedo come fai a frequentare tipi del genere? Oltre a essere due poco di buono sono anche decisamente stronzi». «Lo so piccola, anch’io mi sono chiesto la stessa cosa. Prima mi 9 hanno detto di averti vista e hanno aggiunto anche dell’altro. Ho detto loro quello che si meritavano e per poco non ci siamo messi le mani addosso. E’ vero, sono proprio due stronzi, con la esse maiuscola. Dai andiamo, accompagnami così parliamo». Ali cercò dentro di se la forza per dirle quello che lo rodeva dentro e soprattutto quello che provava davvero per lei. Non era facile, non era mai stato bravo ad aprirsi con gli altri, aveva come una sorta di blocco interiore che glielo impediva. Spesso, per questo, veniva frainteso o peggio considerato uno stronzo pure lui. «Senti», iniziò, «mi spiace per non averti risposto, sono proprio un deficiente». «Che ti succede Ali?», chiese lei prendendolo per mano. Così lui si aprì con lei come mai aveva fatto prima, le raccontò dei suoi che ancora credevano che studiasse, anche se fuori corso, e che fosse ormai giunto alla soglia di una laurea inesistente. Le raccontò de lavoro che non aveva e che non riusciva a trovare. Altro che autista per una ditta di corrieri come le aveva fatto credere. Raccontò delle bugie, degli espedienti, dello schifo che doveva fare per la padrona di casa per non essere sbattuto in strada e di come s’era incazzata da quando era venuta a sapere di lei. Raccontò tutto e di quanto l’amava. Giulia lo stette ad ascoltare senza dire una parola. Si sedettero su una panchina ancora bagnata dalla pioggia recente e ad Ali cadde da un buco della tasca dei pantaloni una moneta da due euro. Il suono che fece sul selciato diede corpo a qualcosa che s’era annidato dentro di lui per troppo tempo. Un senso di vergogna emerse alla luce lasciandolo svuotato e con l’amaro in bocca. E nel raccoglierla, arrivò il pianto potente, liberatorio. Giulia stette al suo fianco e lo strinse a sé cullandolo con dolcezza quasi fosse un bambino. Aliano la guardò negli occhi e vide il conflitto che la stava tormentando, accentuato da 10 piccole rughe che le si erano improvvisamente disegnate ai bordi delle palpebre. Poco a poco Giulia inizio a cambiare. Le spalle prima incurvate, assunsero una postura più eretta. Smise di tormentarsi le mani. Il respiro si fece più regolare e lo sguardo assunse una nuova luce a rivelare il profondo cambiamento che stava avvenendo dentro di lei. Lentamente si accarezzo il ventre. «Aliano, ti devo dire una cosa», disse con voce da donna. Quello che lui sentì, fu accompagnato dal fischio di un treno in partenza dalla stazione poco lontana. E non ne fu sorpreso. Era ormai pomeriggio inoltrato e il sole, finalmente libero da nubi, pareva non aver nessuna intenzione di lasciare il posto alla sera. Così, in quel momento di stasi della giornata, si preparò a recitare un’ultima gloriosa battuta, prima di chiudere l’interruttore della sua luce cosmica.

In copertina Ritratto sulla povertà, di Thomas Benjamin Kennington. Foto presa da wikipedia