Adriana Sabato, giornalista, risiede a Belvedere Marittimo. Dopo il liceo classico si è laureata in DAMS Musica all'Università degli Studi di Bologna. Dal 1995 al 2014 ha scritto su La Provincia cosentina e il Quotidiano della Calabria. Gestisce il blog Non solo Belvedere. Ha pubblicato nel mese di marzo 2015 il saggio La musicalità della Divina Commedia, nel 2016 Tre racconti e nel 2017 il saggio Nuove frontiere percettive nel pianoforte di Chopin.

L’ultima sonata per pianoforte di Ludwig van Beethoven

Di Adriana Sabato

È alquanto arduo rievocare in poche parole la straordinaria personalità o solo citare i tantissimi capolavori di Ludwig van Beethoven, uno dei più grandi geni della Musica, del quale ricorrono quest’anno i 250 anni dalla nascita.

Il grande compositore infatti ha creato e ci ha lasciato, pur tra mille sofferenze, una grande eredità grazie alla forza indomita del suo carattere e alla potenza della sua creatività.

Nella vastità della sua produzione, la Sonata n. 32 in do minore op. 111 ha tracciato un solco di profonda modernità e non solo riguardo alla sua scrittura. Lo spirito innovativo della sua vena creativa investì Beethoven tanto da essere universalmente riconosciuto come uno dei più grandi compositori della musica occidentale. Egli rimase aderente alle forme e ai modelli del classicismo. Tuttavia, il suo stile, molto variegato e complesso, ebbe grande influenza sulla musica romantica.

In due soli movimenti – ma non l’unica – la suddetta sonata è l’ultima composta da Beethoven, fra il 1821 e il 1822. Il primo movimento drammatico, in tonalità minore, è un Maestoso che sembra voler citare la sonata Patetica e dunque rivolgere uno sguardo al passato come a volersene allontanare dopo aver esplorato tutto lo scibile del processo formale attraverso l’uso di accordi fortemente dissonanti per l’epoca.

Il secondo tempo, invece sublime, è in tonalità maggiore: un’Arietta, ossia un tema cantabile con variazioni.

La sonata, al suo apparire, suscitò diverse perplessità proprio per il fatto di essere suddivisa in soli due movimenti – senza il solito rondò finale – ma anche per il fatto di essere concepita come una forma senza forma: il superamento, insomma, della tipica tripartizione classica alla quale si era abituati; il che evidenziò, con grande forza, il cambiamento di uno stile, ma anche di un’epoca, di un modo di costruire il presente, il pensiero, il sentimento. Incombeva il romanticismo.

 Le ultime opere di Beethoven abbandonavano dunque l’uso retorico del linguaggio e, così facendo, si rendevano comprensibili solo ad un pubblico preparato ad accogliere il nuovo.

Beethoven riusciva allo stesso tempo a chiudere con una determinata prassi compositiva e ad indicare una molteplicità di strade possibili per una ulteriore evoluzione del genere.

Non a caso la sonata in questione divenne poi oggetto di analisi in uno dei capitoli del Doctor Faustus di Thomas Mann (Lubecca 1875 – Kilchberg, Zurigo 1955).

Riferendosi particolarmente all’ultimo tempo della sonata, l’Arietta, ne parlò così il compositore Roman Vlad: Tutta la scrittura del romanzo in tedesco, è modellata su quest’aria.

Si tratta di un romanzo a chiave: dall’omaggio ad Adorno, che Mann effettua prendendo a prestito la sua analisi del brano di Beethoven, ad altri omaggi più nascosti, come a Nietzsche e a Schoenberg.

A chiave sono i nomi dei personaggi, in tedesco, e ognuno di loro, è modellato su qualcuno veramente esistente. Dietro a questo grandioso gioco costruttivo, dietro al tema del diabolico e dietro alla musica, ‘argomento ideale’ del libro, Mann scrive il romanzo della catastrofe tedesca, cominciata con la prima guerra mondiale e finita con la seconda”.

  La musica – scrive Thomas Mann – l’ho sempre amata con passione e la considero in un certo senso il paradigma di ogni arte. Ho sempre ritenuto il mio talento un talento musicale trasposto e sento la forma del romanzo come una specie di sinfonia, come un tessuto di idee e una costruzione musicale.

Parlando in questi termini, continua Roman Vlad, Thomas Mann si inserisce all’interno di quella foltissima schiera di artisti che, pur non essendo musicisti, considerano la musica l’arte massima e dichiarano di ispirarsi ad essa nel loro processo creativo.

Il romanziere tedesco lo definì dunque l’addio alla forma della sonata. L’opera entrò nel repertorio di importanti pianisti solo nella seconda metà dell’Ottocento. Ritmicamente visionaria e tecnicamente impegnativa, è una delle opere più discusse di Beethoven.

Gli accenti in levare delle variazioni dell’Arietta e il rapporto lunga-breve che viene accelerato sempre e continuamente, avevano sbalordito i contemporanei di Beethoven ma soprattutto i musicisti del 1920 che videro, in queste trasformazioni del tema iniziale, una sorta di premonizione dello stile jazz.

Per un orecchio moderno,scrive il pianista Mitsuko Uchida, ha una sorprendente somiglianza con l’allegro boogie-woogie, e la sua vicinanza al jazz e al ragtime, che all’epoca erano ancora ottant’anni nel futuro, è stata spesso sottolineata.

Il pianistaJeremy Denk, per esempio, descrive il secondo movimento usando termini come proto-jazz e boogie-woogie.

 È un’energia ritmica che sfocia nell’indeterminatezza della variazione conclusiva, nel ritorno al tema e al ritmo iniziale, investito da uno sguardo ancora nuovo e che evidenzia la grandezza del compositore.

Volgendosi verso la fine il pianoforte svuota l’animo da ogni pensiero. Quelle poche note si spengono solitarie in un addio che dice “Tutto è compiuto”. La sonata non ha così un terzo tempo e si chiude con la certezza che nulla dopo potrà essere uguale a prima.

Ascolto: Claudio Arrau, sonata op, 32 in do minore opera 111: cliccare QUI