Intriso da sempre di musica, avendo trascorso l’infanzia (ahimè, inutilmente!) al fianco del padre che accompagnava al piano la madre cantante, al pari d’un novello Ambroise Bierce, lo scrittore topografo della Guerra di secessione americana, come archeologo ha rilevato (tacheometro, “dritta quella dannata stadia!” e logaritmi vari) mezza Africa Orientale, il Medio Oriente e il Centro America. Tra una stagione concertistica e l’altra organizzata come impresario (essendo sempre stato cacciato dai cori in cui cercava ostinatamente d’intrufolarsi), infine è approdato alla traduzione letteraria dei classici anglo-americani... sembrerebbe con risultati migliori che come baritono. Pare. Quello che invece è sicuro è che è davvero Il Cappellaio Matto.

La musica in Joyce e per Joyce III puntata

De Il Cappellaio Matto

Dunque, nelle due puntate precedenti abbiamo visto quanto James Joyce amasse la musica, quanto la sua vita ne fosse intrisa, e come l’abbia praticata attivamente tutta la vita.

Joyce, quindi, possedeva una conoscenza musicale degna di un musicista più che ‘dilettante’, e fra tutti gli strumenti la voce umana era senz’altro quello che amava di più.

E fu così che, invece di tenere separati quello musicale e quello della scrittura, coltivò tutta la vita l’idea di coniugare in qualche modo tra loro i due linguaggi.

Si tenga inoltre conto che l’intera vita dublinese era in qualche modo dominata dalla musica, specialmente vocale e operistica.

Tra i grandi cantanti che si esibivano abitualmente a Dublino, basti ricordare i nomi del tenore Italo Campanini (1845-1896), di Joseph Maas (1847-1886), del soprano Marietta Piccolomini (1834-1899) che divenne famosa come prima interprete di Violetta della Traviata, il soprano Thérèse Tietjens (1831-1877), il tenore Antonio Giuglini (1825-1865), il soprano Zeli Trebelli-Bettini (1836-1892), ammirata addirittura da George Bernard Shaw, e molti altri.

Italo Campanini

Insomma, Dublino, per quanto riguarda il bel canto, era una delle prime città de mondo, e proprio leggendo l’Ulisse si coglie in modo chiaro l’immagine di una Dublino immersa nella musica.

Antonio Giuglini

D’altra parte, Molly Bloom è una cantante di professione e, fra gli altri personaggi, l’opera è piena di dilettanti di grande talento come Ben Dollard (basso) e i due Dedalus, padre e figlio.

Marietta Piccolomini

Ma oltre a questi personaggi inventati da Joyce, non mancano nel romanzo riferimenti a famosi cantati dell’epoca citati esplicitamente per nome, come John McCormack (1884-1945) (clicca QUI per ascoltare), il baritono J. C. Doyle e Walter Bapty (1850-1915).

L’Irlanda del tempo pullulava di cantanti, basti ricordare i nomi di Barton McGuckin (1852-1913), di Joseph O’Mara (1864-1927)

(clicca QUI per ascoltare) di Harry Plunket Greene (1865-1936) (clicca QUI per ascoltare) che qui possiamo ascoltare in una rarissima registrazione del 1935 dello struggente Lied D. 911, n. 24, «Der Leiermann, “Drüben hinterm Dorfe steht”» che conclude la Winterreise di Franz Schubert: (clicca QUI per ascoltare)

Quanto poi ai generi musicali particolarmente amati all’epoca a Dublino, non si può dire che esistessero netti confini di separazione fra canzoni popolari in voga e musica seria, per così dire, per cui, per esempio, l’opera italiana era amata e seguita quanto le ballate di strada. Non è un caso, quindi, che la prima opera mai pubblicata da James Joyce s’intitoli per l’appunto Chamber Music (Musica da camera), ovvero una raccolta di poesie, che l’autore compose in gioventù. (clicca QUI per ascoltare)

Insomma la musica è, per Joyce, una black art, un’arte il cui linguaggio specifico evoca immagini evanescenti, che provengono dal subconscio o dal semi-conscio. Immagini vaghe e inesprimibili mediante un linguaggio ordinario, ma parte essenziale di un’esperienza personalissima che solo la musica è in grado di evocare e di esprimere. Nell’Ulisse, forse tra i libri più realistici che siano mai stati scritti, Joyce utilizza un linguaggio che di primo acchito può sembrare oscuro e difficile per chi non è troppo aduso alla musica, perché lo scrittore pratica in corpore vili, diciamo, un’attenta manipolazione del linguaggio ordinario, ma non come farebbe uno scrittore, ma come lo utilizzerebbe un compositore… Come vedremo proseguendo questa odissea tra le pagine del damned monster-novel…