Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

Dante Alighieri

XI canto del Paradiso.

Dante nella sua modernissima intuizione della separazione dei poteri, in tanti luoghi della Commedia affronta il problema fondamentale dei rapporti tra papa ed imperatore che, in diversi modi, devono essere garanti della felicità del genere umano. Purtroppo però la Chiesa ha subito un processo di mondanizzazione perciò, per assolvere degnamente al suo compito di guida spirituale, necessita di un ritorno alla purezza originaria. Per questo il Poeta, nei canti XI e XII del Paradiso, ci parla di due figure di santi paladini della Chiesa, voluti dalla Provvidenza.

Dante fra gli spiriti sapienti (foto da Wikipedia

Il canto XI si apre con un’invettiva di Dante contro le insensate preoccupazioni degli esseri umani che con ragionamenti sbagliati si rivolgono ai vani beni terreni: chi si perde dietro studi giuridici (iura), chi si dedica a quelli di medicina (aforismi in riferimento alle massime di Ippocrate), chi vuole intraprendere una carriera ecclesiastica, chi ottenere una carriera politica con la violenza o con l’inganno (sofismi, cioè ragionamenti in apparenza corretti, ma ingannevoli), chi pensa a rubare, chi ad amministrare la cosa pubblica, chi è dedito a soddisfare piaceri carnali e chi se ne sta in ozio. Dante riflette la concezione tipicamente medievale del contemptus mundi (disprezzo del mondo) ed inoltre, usando un topos letterario classico, chiamato priamel, contrappone una serie di occupazioni altrui alla sua, rivendicandone la superiorità, egli infatti liberatosi e distaccatosi dai fallaci beni terreni è accolto gloriosamente in cielo con Beatrice.

O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!

Chi dietro a iura e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,

e chi rubare e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,

quando, da tutte queste cose sciolto,
con Beatrice m’era suso in cielo
cotanto glorïosamente accolto.

A questo punto Dante sente di nuovo la voce di San Tommaso, domenicano, incontrato tra gli spiriti sapienti nel canto precedente, il quale pronuncia, in merito all’ordine a cui appartiene, la frase “u ben s’impingua se non si vaneggia” (ci si arricchisce spiritualmente se non si devia dalla regola), di cui poi nel canto successivo, cioè in questo, da’ una spiegazione, parlando di due grandi santi, fondatori di due ordini monastici, voluti dalla Provvidenza per rafforzare la Chiesa: il primo è San Francesco, il secondo San Domenico. Perciò con una struttura chiastica, nel canto XI il domenicano San Tommaso espone l’agiografia di San Francesco e nel XII è invece il francescano San Bonaventura da Bagnoregio a tessere gli elogi di San Domenico. Entrambi gli ordini, fondati dai due illustri santi, pur nati da nobili propositi stanno subendo una degenerazione morale dovuta alla corruzione ed all’attaccamento al potere temporale.
La Provvidenza Divina, nel suo disegno impossibile da comprendere, che ha unito in un matrimonio mistico Gesù e la Chiesa, manda sulla terra i due ordini per due motivi: guidare la Chiesa in merito alla sicurezza e alla fedeltà. Dei due santi eletti, uno fu ardente di carità come un Serafino e l’altro splendente di sapienza come un cherubino, ma parlando dell’uno, si elogia anche l’altro perché le loro opere furono rivolte al medesimo scopo. Tradizionalmente i francescani erano dediti più alla predicazione ed alla carità, i domenicani invece curavano di più l’aspetto teologico e dottrinario, ma spesso queste prerogative furono causa di ostilità tra i due ordini.

La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogne aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,

però che andasse ver’ lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida
disposò lei col sangue benedetto,

in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.

L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapïenza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.

De l’un dirò, però che d’amendue
si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
perch’ ad un fine fur l’opere sue.

Inizia così l’agiografia di San Francesco: viene localizzata la città di Assisi attraverso i fiumi (Tupino e Chiascio), i monti che la circondano (in uno, il monte Iugino il beato Ubaldo fu eremita, l’altro è il Subasio) e le influenze climatiche sulle città di Nocera e Gualdo Tadino). Proprio dove il versante del monte è meno ripido, nacque il santo, definito “un sole”, così luminoso come quello dell’equinozio primaverile in estremo oriente ( denominato col fiume Gange considerato il punto più a est del mondo), perciò sarebbe più opportuno chiamare questo luogo Oriente piuttosto che Assisi.

Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,

onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.

Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.

Era passato poco tempo dalla sua nascita che la terra cominciò ad avvertire i benefici della presenza di Francesco, che subito, per amore di una donna, (ovvero la Povertà personificata a cui nessuno apre volentieri la porta), entrò in rotta col padre e davanti alla curia episcopale di Assisi rinunciò ai suoi beni e la sposò “coram patre”. La povertà, ormai da millecento anni era priva del suo primo sposo (Cristo), trascurata e disprezzata tanto che fu l’unica che salì con lui sulla croce quando perfino Maria ne rimase ai piedi. Dante cita un episodio della Farsalia di Lucano: un pescatore, Amiclate era così povero che teneva sempre aperta la porta del suo tugurio, incurante di Cesare, temuto da tutti, che si presentò a casa sua durante la guerra civile con Pompeo.

Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;

ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;

e dinanzi a la sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte.

Questa, privata del primo marito,
millecent’ anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;

né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;

né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.

Viene poi, nei versi successivi, chiarito il matrimonio mistico tra Francesco e la Povertà, che nei versi precedenti non era stata espressamente nominata. La serenità, la gioia e la pace che scaturiva da tale unione, fu tanta e tale che subito Francesco ebbe i primi adepti: Bernardo di Quintavalle, si scalzò per primo e, metaforicamente, corse dietro a lui, e pur correndo gli sembrò di essere giunto tardi a tanta pace, seguirono poi Egidio, Silvestro e tanti altri per seguire la sconosciuta ricchezza spirituale ed il bene fecondo di Francesco e Povertà. Così nacque l’ordine, i cui esponenti già cingevano i fianchi con l’umile corda. E così Francesco, con coraggio, senza vergogna per essere figlio di un mercante, ne per il suo miserando aspetto, con atteggiamento regale, manifestò al pontefice Innocenzo III la sua regola severa, improntata alla durezza, e ne ricevette oralmente la prima approvazione. Poiché i seguaci furono sempre più numerosi dietro a Francesco, la cui vita, sottolinea la voce narrante, sarebbe degna di essere cantata in cielo e non da lui, il suo santo proposito fu incoronato (viene usato un termine ricercato “redimita” dal latino redimire, incoronare) per una seconda approvazione dello Spirito Santo per mezzo del papa Onorio III tramite una bolla. Qui il santo viene chiamato “archimandrita”, grecismo che viene dapprima tradotto come “pastore di anime” ma più avanti, per allargamento semantico, diventa “superiore di un monastero”

Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.

La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;

tanto che ’l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.

Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì la sposa piace.

Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava l’umile capestro.

Né li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi’ di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;

ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religïone.

Poi che la gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
meglio in gloria del ciel si canterebbe,

di seconda corona redimita
fu per Onorio da l’Etterno Spiro
la santa voglia d’esto archimandrita.

Francesco, per la sete del martirio, inizia poi le predicazioni in Egitto ed in Terra Santa, ma trovo quelle popolazioni troppo restie alla conversione, perciò tornò in Italia dove la sua missione evangelizzatrice sarebbe stata più fruttuosa (redissi al frutto dell’Italica erba). Poi si ritirò sulla cima aspra e rocciosa della Verna tra la valle dell’Arno ed il Tevere e ricevette da Cristo, apparsogli sotto forma di Serafino, le sacre stimmate che le sue membra portarono per due anni.

E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che ’l seguiro,

e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l’italica erba,

nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.

Quando a Dio, che l’aveva scelto per compiere tanto bene, piacque di richiamarlo in cielo per dargli il premio che si era meritato nel rendersi così umile (pusillo è un termine usato dal santo stesso per definire la sua gente “pusillus grex”, piccolo gregge), raccomandò ai frati, suoi legittimi eredi, di amare la sua donna, la Povertà, fedelmente, e proprio dal suo grembo, la sua anima si dipartì tornando al cielo e non volle altra bara per il suo corpo. (Fu sepolto infatti nella nuda terra della Porziucola, oggi inglobata nella basilica di Santa Maria Maggiore.)

Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
ch’el meritò nel suo farsi pusillo,

a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede;

e del suo grembo l’anima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara.

Dopo l’esposizione agiografica, si ritorna al tema iniziale del canto: San Tommaso invita Dante a riflettere sull’importanza di Francesco, degno collega di San Domenico nel guidare verso la giusta rotta la barca di San Pietro, ovvero la Chiesa, per cui, chi si attiene ai suoi precetti ed alla sua regola carica “buona merce”, ovvero acquista meriti per la sua anima. A questo punto San Tommaso procede per metafore continuate (di natura biblica) e dice che i domenicani (il gregge), sono diventati desiderosi di nuovo cibo (i beni terreni), perciò necessariamente quanto più si allontanano dall’ovile e dalla retta via, tanto più vi tornano vuote di latte, cioè perdono la ricchezza spirituale che dovrebbero donare agli altri. Ce ne sono alcune, invero, che rimangono fedeli al pastore, ma sono talmente poche che è sufficiente poca stoffa per fare i loro mantelli, ovvero solo pochi frati seguono veramente la regola.

Pensa oramai qual fu colui che degno
collega fu a mantener la barca
di Pietro in alto mar per dritto segno;

e questo fu il nostro patrïarca;
per che qual segue lui, com’ el comanda,
discerner puoi che buone merce carca.

Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
che per diversi salti non si spanda;

e quanto le sue pecore remote
e vagabunde più da esso vanno,
più tornano a l’ovil di latte vòte.

Ben son di quelle che temono ’l danno
e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
che le cappe fornisce poco panno.

Infine San Tommaso dice a Dante che se le sue parole non sono state oscure, se è stato ben attento nell’ascoltarlo, se ben richiama alla mente quanto gli è stato detto, capirà per quale motivo l’ordine domenicano si stia corrompendo (la pianta onde si scheggia) e soprattutto che cosa significhi la frase “u ben s’impingua se non si vaneggia” ovvero “l’ordine domenicano è quel luogo dove ci si arricchisce spiritualmente se non si corre dietro a cose vane”.

Or, se le mie parole non son fioche,
se la tua audïenza è stata attenta,
se ciò ch’è detto a la mente revoche,

in parte fia la tua voglia contenta,
perché vedrai la pianta onde si scheggia,
e vedra’ il corrègger che argomenta

“U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”».

Dante in questo canto unisce l’intento celebrativo a quello polemico, (così pure farà in quello successivo): tesse le lodi dei due santi esaltandone la vita esemplare, edificante e concorde ai propositi della Provvidenza di Dio e, in una sorta di contrappunto, deplora la condotta di molti degeneri seguaci dei due ordini. Peraltro, facendo pronunciare ad un domenicano il panegirico di Francesco ed ad un Francescano quello di San Domenico, nella suddetta struttura chiastica, intende dimostrare che i due ordini dovrebbero abbandonare le contese e le rivalità tra loro e procedere uniti nella loro missione di riformatori illuminati di una Chiesa corrotta.

Anche l’immagine di copertina, ritratto di Dante Alighieri, è presa da Wikipedia