Jacopo Pignatiello si è laureato in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, con una tesi in Letterature comparate. È attualmente insegnante di ruolo di discipline storiche e letterarie presso gli istituti scolastici superiori. Ha contribuito al volume Le attese (Ad est dell’equatore, 2015) con un articolo su L’uomo dal fiore in bocca e La camera in attesa di L. Pirandello. Ha curato la scheda riguardante l’opera Mimesis di E. Auerbach, inclusa nella raccolta di studi sul tema della borghesia inseriti nel volume Borghesia. Approssimazioni (Diogene, 2017). Questi due contributi sono stati portati a termine sotto la guida del coordinamento scientifico del gruppo di ricerca di area umanistica Opificio (Università degli Studi di Napoli “Federico II”). Ha affrontato degli studi di interesse storico sulla città di Somma Vesuviana pubblicati sul periodico «Summae Civitas».

Alcune divaganti dissertazioni sul tema della memoria in Nievo, Leopardi e Foscolo

Di Jacopo Pignatiello

 Per me la memoria fu sempre un libro, e gli oggetti che la richiamano a certi tratti de’ suoi annali mi somigliano quei nastri che si mettono nel libro alle pagine più interessanti. Essi ti cascano sott’occhio di subito; e senza sfogliazzar le carte, per trovare quel punto del racconto o quella sentenza che ti ha meglio colpito, non hai che a fidarti di loro. Io mi portai sempre dietro per lunghissimi anni un museo di minutaglie, di capelli, di sassolini, di fiori secchi, di fronzoli, di anelli rotti, di pezzuoli di carta, di vasettini, e perfino d’abiti e di pezzuole da collo che corrispondevano ad altrettanti fatti o frivoli o gravi o soavi o dolorosi, ma per me sempre memorabili, della mia vita. Quel museo cresceva sempre, e lo conservava con tanta religione quanta ne dimostrerebbe un antiquario al suo medagliere. Se voi lettori foste vissuti coll’anima mia, io non avrei che a far incidere quella lunga serie di minutaglie e di vecchiumi, per tornarvi in mente tutta la storia della mia vita, a mo’ dei geroglifici egiziani. E per me io la leggo in essi tanto chiara, come Champollion lesse sulle Piramidi la storia dei Faraoni. Il male si è che l’anima mia non diede mai ricetto al pubblico, e così, per metterlo a parte de’ suoi segreti, come le ne è venuto il talento, la deve sfiatarsi in ragionamenti e in parole. Me lo perdonerete voi? Io spero di sì; almeno in grazia dell’intenzione la quale è di darvi qualche utilità della mia lunga esperienza; e se cotale opera mi è di alcun diletto o sollievo, vorreste ch’io me ne stogliessi per una pretta mortificazione di spirito? — Lo confesso, non son tanto ascetico. — Il fatto si è che quei simboli del passato sono nella memoria d’un uomo, quello che i monumenti cittadini e nazionali nella memoria dei posteri. Ricordano, celebrano, ricompensano, infiammano: sono i sepolcri di Foscolo che ci rimenano col pensiero a favellare coi cari estinti: giacché ogni giorno passato è un caro estinto per noi, un’urna piena di fiori e di cenere. Un popolo che ha grandi monumenti onde inspirarsi non morrà mai del tutto, e moribondo sorgerà a vita più colma e vigorosa che mai: come i Greci, che se ebbero in mente le statue d’Ercole e di Teseo nel resistere ai Persiani di Serse, ingigantirono poi nella guerra contro Mahmud alla vista del Partenone e delle Termopili. [1]

La prosa di Nievo è suntuosa quanto impetuosa, è ornata con molta eleganza e nello stesso tempo scorre con fluidità. Talvolta procede con fiera irruenza, dando l’impressione di poter scaraventare qualsiasi ostacolo le si ponga davanti, altre volte invece si rivolge al suo lettore miscelando la passione all’armoniosa dolcezza con la quale ci si rivolgerebbe a un’amata in una lettera d’amore. E di certo Nievo conosceva bene i modi per colpire una donna utilizzando inchiostro e calamaio: le sue lettere inviate a Matilde Ferrari compongono uno dei più belli esemplari di epistolario amoroso italiano.

    Per lasciarci avvolgere interamente dal senso della cultura del ricordo e carpire il cuore dell’importanza della poesia al servizio della memoria collettiva, come dei testimoni convocati in un’aula di tribunale, abbiamo chiamato a deporre dei passi di tre opere sorte in una fase storica del nostro Paese nella quale, per contribuire a galvanizzare le forze di supporto alla spinta risorgimentale, veniva potenziata al massimo la funzione celebrativa – in chiave civile – della letteratura. Dai passi citati si respira una determinata temperie, ahinoi svanita, storica-culturale della prima metà dell’Ottocento italiano: quando si spendevano energie affinché dalla storia, dalle rovine e dalle opere letterarie del passato, si traesse la speranza per un sognato futuro. Il poeta beneficiava ancora del credito per essere considerato un vate e poteva far sì che i suoi versi servissero il compito di esaltare il ricordo di passate grandezze, per contribuire a spronare le generazioni a intervenire nel presente. Che poi quel sogno tanto agognato, oltre all’ottenuta Unificazione, non sia mai divenuto del tutto realtà, non è certo una colpa da imputare a questi straordinari sognatori.

    Nievo stesso ha consacrato la sua vita alla realizzazione dei propri ideali preunitari, le sue parole possono giungere come una ventata che rechi con sé l’intenso profumo di quel milieu ideologico-culturale:

    Perché  con Alfieri con Foscolo  con Manzoni con Pellico era già cresciuta una diversa famiglia di letterati che onorava sì le rovine, ma chiamava i viventi a concilio sovr’esse: e sfidava o benediva il dolore presente pel bene futuro. Leopardi che insuperbì di quella ragione alla quale malediceva, Giusti che flagellò i contemporanei eccitandoli ad un rinnovamento morale, sono rampolli di quella famiglia sventurata ma viva, e vogliosa di vivere. Il disperato cantore della Ginestra e di Bruto sapeva meglio degli altri che soltanto la lunghezza della vita può sollevar l’anima a quella sublimità di scienza che comprende d’uno sguardo tutto il mondo metafisico e non s’arresta ai gemiti fanciulleschi d’un uomo che si spaura del buio.[2]

Le citazioni che abbiamo deciso affiggere in questo contributo sono delle epigrafi di eccelsa maestria artistica da vivere con passione onirica e sentimento elegiaco, in quanto, considerata la realtà che ci circonda, recarsi da coloro che con così grande forza speravano in un mondo migliore, potrebbe aiutare a lasciarsi un po’ contagiare da quella speranza, o quantomeno permettere di trovare un buon luogo di rifugio.

    I bellissimi passi che abbiamo letto nell’incipit di questo paragrafo sono tratti dalle Confessioni d’un italiano. Nievo si dimostra estremamente attratto dalle problematiche che ruotano intorno alla memoria e nel corso del suo capolavoro balza spesso dalla questione di un’immortalità terrena, colma di valori umani, alla speranza di un eternità ultraterrena. Questa questione è tra gli elementi che formano il magma di cui è composto il nucleo centrale della Commedia dantesca. Il poema di Dante è per l’appunto l’unico libro che Carlino Altoviti, il protagonista ottuagenario delle Confessioni, porti sempre con sé, ma le soluzioni di Nievo tra il valore umano dell’immortalità e la vita eterna confluiscono l’una nell’altra, e sono prive della drammaticità delle scelte dantesche.

Ci sono diversi aspetti della memoria che stanno a cuore a Nievo: l’importanza che essa ricopre nella vita di ognuno, le sue potenzialità di divenire una base su cui gettare le fondamenta per costruire una nazione, e la sua capacità di essere un giudice che tramandi ai posteri il giudizio su ciò che si è stati in vita. Nelle Confessioni d’un italiano la celebrazione di questi diversi aspetti della memoria è uno dei centri ermeneutici del romanzo (come quelli di cui parla Pamuk in Romanzieri ingenui e sentimentali3]), e l’esaltazione della memoria può raggiungere i toni di un inno:

    Memoria, memoria, che sei tu mai! Tormento, ristoro, e tirannia nostra, tu divori i nostri giorni ora per ora, minuto per minuto e ce li rendi poi rinchiusi in un punto, come in un simbolo dell’eternità! Tutto ci togli,    tutto ci ridoni; tutto distruggi, tutto conservi; parli di morte ai vivi e di vita ai sepolti! Oh la memoria dell’umanità è il sole della sapienza, è la  fede della giustizia, è lo spettro dell’immortalità, è l’immagine terrena e finita del Dio che non ha fine, e che è dappertutto. Ma la mia memoria frattanto mi servì assai male; essa mi legò giovane ed uomo ai capricci d’una passione fanciullesca. La perdono tuttavia; perché val meglio a mio giudizio il        ricordar troppo e dolersene, che il dimenticar tutto per godere.[4]

La prima citazione neviana che abbiamo esposto presenta una riflessione che parte da un’esperienza individuale e si estende in dimensioni collettive. Ora la climax è decrescente.

L’autore delle Confessioni si dedica inoltre anche alla devozione di un’altra missione delle Muse: abbellire la vita dell’uomo con la poesia. Nel brano che segue, che prende spunto dalla contemplazione dei tratti angelici stampati sul viso di Clara (uno dei tanti topoi danteschi di cui è tappezzato il romanzo)[5], l’elogio della poesia e della memoria appaiono mirabilmente intrecciati:

    —  Divina poesia ! – diss’egli togliendo gli occhi dal bel tramonto che omai si scolorava in un vago crepuscolo – chi primo si alzò con te nelle speranze infinite fu il vero consolatore dell’umanità. Per insegnare agli uomini la felicità bisognerebbe educarli poeti, non scienziati o anatomici.

La Clara sorrise pietosamente; e gli chiese:

— Ella dunque, signor Lucilio, non è gran fatto felice? — Oh sì, lo sono ora come forse non potrò mai esserlo! – sclamò il giovine stringendole improvvisamente una mano. A quella stretta scomparve dal volto della fanciulla lo splendore immortale della fede, e la luce tremula e soave del sentimento vi si diffuse come un bel chiaro di luna dopo l’oscurarsi vespertino del sole. — Sì, sono felice come forse non lo sarò mai più! –proseguì Lucilio – felice nei desiderii, perché i desiderii miei sono pieni di speranza, e la speranza mi invita da lunge come un bel giardino fiorito. Ahimè non cogliete quei fiori! non dispiccateli dal loro gracile stelo! Per cure che ne abbiate poi, dopo tre giorni intristiranno; dopo cinque non sarà più

in loro il bel colore il soave profumo! Alla fine cadranno senza remissione nel sepolcro della memoria!

— No, non chiami la memoria un sepolcro! – soggiunse con forza la Clara. — La memoria è un tempio, un altare! Le ossa dei santi che veneriamo sono sotterra, ma le loro virtù splendono in cielo. Il fiore perde la freschezza e il profumo; ma la memoria del fiore ci rimane nell’anima incorruttibile ed odorosa per sempre![6]

Il rilievo dato da Nievo a Dante non sarà stato dettato unicamente da predilezioni estetiche. La critica romantica scolpì l’effige di un Dante raffigurato come il primo dei grandi intellettuali che, con la forza della parola e l’impegno attivo sul piano civile, si fosse reso sostenitore di molti dei principi ispiratori del liberalismo nazionale.

 A dare voce più di tutti a questa concezione è De Sanctis, che nella sua Storia della letteratura italiana indica in Dante l’inizio di un secolare – ma discontinuo – succedersi di poeti che sarebbero stati promotori del sorgere degli ideali patriottici e che, secolo dopo secolo, avrebbero destato le coscienze civili degli Italiani contribuendo alla lotta di liberazione dagli oppressori, coronata con l’ottenuta indipendenza[7]. La storia letteraria di De Sanctis ha l’andamento e il fascino narrativo di un grande romanzo storico, e ciò permetterà sempre di giustificare l’eccessiva drasticità delle sue posizioni. Quello che per noi è importante è che questo tipo di visione nel periodo romantico era molto sentita, onde prepararci a leggere Sopra il monumento di Dante, seconda delle due canzoni che aprono i Canti di Leopardi[8],  magistrale esempio delle tendenze del tempo che stiamo inseguendo: il voler trarre dagli alti esempi del passato una spinta per il presente. Inoltre, quello che accomuna questa lirica alle tematiche delle tre opere della prima metà dell’Ottocento italiano che abbiamo deciso di selezionare9] è la compresenza del motivo del dono (nell’accezione esiodea che abbiamo provato a mettere a fuoco) consolatorio della poesia con quello della memoria.

L’allora ventenne Leopardi, animato da temi cari alla cultura classica, fu ispirato da un manifesto propagato da dei cittadini fiorentini che esortava a partecipare alla costruzione di un monumento dedicato a Dante in Santa Croce. La sua canzone, che ha sullo sfondo il dramma dei soldati italiani caduti nella disastrosa campagna napoleonica in Russia, esordisce con l’invito a non guardare la triste realtà presente, la quale, oltre a versare nella condizione che vede schiava la nazione, è anche priva dei grandi esempi che nel corso del tempo hanno portato alto lo scudo dell’orgoglio nazionale. Il poeta si rivolge alla sua stessa patria e la esorta a volgere lo sguardo a quegli esempi in grado di destare nei cuori la voglia di riscatto:

    Perchè le nostre genti

Pace sotto le bianche ali raccolga,

Non fien da’ lacci sciolte

Dell’antico sopor l’itale menti

S’ai patrii esempi della prisca etade

Questa terra fatal non si rivolga.

O Italia, a cor ti stia

Far ai passati onor; che d’altrettali

Oggi vedove son le tue contrade,

Nè v’è chi d’onorar ti si convegna.

Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,

Quella schiera infinita d’immortali,

E piangi e di te stessa ti disdegna;

Che senza sdegno omai la doglia è stolta:

Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti,

E ti punga una volta

Pensier degli avi nostri e de’ nepoti.[10]

In seguito a questa prima stanza, dopo aver esternato la sua indignazione per il fatto che nelle mura di Firenze non si erga nemmeno un «sasso» in ricordo dell’esule le cui ossa sono sepolte fuori dalla sua città natale, la quale, grazie a lui («per la cui virtude») è onorata in tutto il mondo, il poeta passa al messaggio centrale dei suoi versi, che, oltre agli ideali patriottici, l’inneggio alla libertà e alla ribellione dai soprusi, riguarda l’importanza dei monumenti commemorativi e declama il ruolo giocato dalle arti nel distogliere gli uomini dai loro mali. Sugli elementi della cultura del passato bisogna erigere le fondamenta per un nuovo futuro, e le arti, per i livelli raggiunti, a causa delle condizioni in cui imperversa la nazione, sono tra le poche cose che danno ancora consolazione e lustro alla patria di Dante:

    Voi, di ch’il nostro mal si disacerba,

Sempre vivete, o care arti divine,

Conforto a nostra sventurata gente,

Fra l’itale ruine

Gl’itali pregi a celebrare intente.[11]

Ma il patrimonio storico e culturale del Paese, oltre a concedere il diritto all’orgoglio, reca anche il dovere dell’azione. I cittadini che ammirino la bellezza della loro patria, se hanno preso coscienza della terra che calpestano («pensa qual terra premi»), non possono non sentire il loro animo infiammato dalla voglia di riscatto:

    Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio;

Mira queste ruine

E le carte e le tele e i marmi e i templi;

Pensa qual terra premi; e se destarti

Non può la luce di cotanti esempli,

Che stai? levati e parti.

Non si conviene a sì corrotta usanza

Questa d’animi eccelsi altrice e scola:

Se di codardi è stanza,

Meglio l’è rimaner vedova e sola.[12] La memoria allora, oltre a essere il fondamento dell’identità culturale di un popolo, porta con sé anche delle responsabilità. Prima tra tutte, come abbiamo visto a partire da Omero, c’è il dovere della sua salvaguardia. Un’altra di esse, non meno importante, è l’impegno di mantenere viva la memoria storica e culturale del Paese, affinché quanto sia stato tramandato dal passato non sia solo un cimitero che rammenti il trascorrere del tempo, ma prenda parte attiva alla vita presente contribuendo a orientare le scelte che potrebbero determinare il futuro.  

Il tema dell’importanza della commemorazione raggiunge la sua apoteosi celebrativa nei Sepolcri di Foscolo, che affrontano il tema del rapporto con la morte in un’ottica completamente laica, e formano una forma di fede retta da principi materialistici e fondata sul senso civile. Questo carme ci rimette sulla carreggiata dalla quale ci siamo allontanati, in quanto batte l’accento su diversi motivi che abbiamo affrontato nella nostra trattazione, e ci sembra un’ottima compagnia con cui concluderla. Come spiegato da Foscolo stesso nella lettera di risposta alle critiche lette sul «Giornale italiano» di Milano del 22 giugno 1807, rivoltegli dall’abate francese Aimé Guillon, i Sepolcri sono divisi in quattro parti[13]. La prima parte (vv.1-91) si interroga sul valore dei sepolcri e sulla loro importanza. La seconda parte (vv. 91-150) si dedica alle tradizioni e agli usi sepolcrali. Nella terza parte (vv. 151-212), come nella prima, si discute di nuovo del valore civile dei sepolcri, ma ora il riferimento è ai gradi uomini del passato, e si parla in particolare del cimitero di Santacroce a Firenze: Foscolo elogia alcuni uomini illustri che con le loro opere hanno reso grande il nome dell’Italia. La quarta parte (vv. 213-295) evoca la distruzione di Troia, e affianca la funzione dei sepolcri di serbare memoria con quella analoga della poesia. Dopo i primi quindici endecasillabi compare una riflessione sull’oblio, che avvolge tutto ciò che è soggetto all’azione del tempo, il quale plasma tutte le cose, mortali e non, con la sua forza disgregatrice:

     Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,

Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve

Tutte cose l’obblio nella sua notte;

E una forza operosa le affatica

Di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe

E l’estreme sembianze e le reliquie

Della terra e del ciel traveste il tempo.[14]

Sperare di fuggire dal tetro volto dell’oblio e di continuare a vivere un giorno nella memoria dei propri cari è un conforto che allevia dalla consapevolezza della morte, e quindi ai monumenti funebri non deve essere negata la giusta considerazione:

    Ma perchè pria del tempo a sè il mortale

Invidierà l’illusïon che spento

Pur lo sofferma al limitar di Dite?

Non vive ei forse anche sotterra, quando

Gli sarà muta l’armonia del giorno,

Se può destarla con soavi cure

Nella mente de’ suoi? Celeste è questa

Corrispondenza d’amorosi sensi,

Celeste dote è negli umani; e spesso

Per lei si vive con l’amico estinto

E l’estinto con noi, se pia la terra

Che lo raccolse infante e lo nutriva,

Nel suo grembo materno ultimo asilo

Porgendo, sacre le reliquie renda

Dall’insultar de’ nembi e dal profano

Piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,

E di fiori odorata arbore amica

Le ceneri di molli ombre consoli.[15] La corrispondenza «d’amorosi sensi» tra chi è in vita e coloro che hanno perduto «l’armonia del giorno»  è uno dei primi argini che possono contenere gli effetti dell’oblio[16]. Tornate nel grembo della terra su cui sono cresciute e protette da essa dagli agenti atmosferici e dalle profanazioni, le spoglie del defunto acquisiscono un’importanza sacra. Riposare sotto una pietra tombale che rammenti il nome consente inoltre di ritardare l’inesorabile dimenticanza[17], e il profumo delle piante intorno ai sepolcri diventa un elemento di conforto. Leopardi auspicava che i monumenti destassero la voglia di riscatto, a meno che la patria non fosse «stanza» di «codardi». Foscolo elabora in più punti questa considerazione, e contrappone la situazione italiana all’esempio inglese, dove i sepolcri sono anche un luogo per pregare gli eroi della patria:

    Pietosa insania che fa cari gli orti

De’ suburbani avelli alle britanne

Vergini dove le conduce amore

Della perduta madre, ove clementi

Pregaro i Genj del ritorno al prode

Che tronca fe’ la trïonfata nave

Del maggior pino, e si scavò la bara.

Ma ove dorme il furor d’inclite geste

E sien ministri al vivere civile

L’opulenza e il tremore, inutil pompa

E inaugurate immagini dell’Orco

Sorgon cippi e marmorei monumenti.

Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,

Decoro e mente al bello Italo regno,

Nelle adulate reggie ha sepoltura

Già vivo, e i stemmi unica lande. A noi

Morte apparecchi riposato albergo

Ove una volta la fortuna cessi

Dalle vendette, e l’amistà raccolga

Non di tesori eredità, ma caldi

Sensi e di liberal carme l’esempio.[18]

Con una lunga perifrasi è indicato l’ammiraglio Nelson, che fece costruire la sua bara con il legno ricavato dall’albero maestro della nave ammiraglia francese sconfitta nella battaglia di Abukir (1798). Nei paesi dove è spento un simile ardore patriottico, come nel regno italico, le costruzioni funebri sono al contrario soltanto un inutile sfoggio di opulenza e di malaugurate immagini dell’oltretomba (Orco, come l’Ade, è sinonimo del regno degli inferi pagano), e gli intellettuali, i ricchi e il ceto nobiliare vivono senza spirito di rivalsa, come se fossero già morti.

Foscolo si augura che la sua tomba, a differenza degli inutili monumenti funebri dei suoi compatrioti, trasmetta in eredità l’esempio dei suoi fervidi sentimenti e il messaggio della sua poesia libera. Le tombe dei grandi del passato possono infatti spronare ad azioni eccelse, e far apparire allo straniero bella e sacra la terra che lo accoglie:

    A egregie cose il forte animo accendono

L’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella

E santa fanno al peregrin la terra

Che le ricetta. […] [19]

Dopo questa massima,  il poeta inizia una rassegna di alcune «itale glorie», le cui tombe si trovano nel cimitero di Santa Croce. Ad essere oggetto di memorazione è Machiavelli, che insegnando l’arte di governare ha svelato quali sofferenze e atrocità reggono il potere; Michelangelo, che a Roma ha innalzato un nuovo Olimpo «a’Celesti»; Galileo, che ha capito che intorno al sole immobile ruotano più mondi. L’inno all’Italia è anche un inno a Firenze, che ha dato i natali pure a Dante e a Petrarca.  Oltre alla bellezza del paesaggio, la memoria di tali grandezze è forse l’unico motivo di vanto per l’Italia da quando subisce i soprusi degli stranieri. Queste tombe sono state spesso il luogo di rifugio di Vittorio Alfieri, perché la loro vista era l’unica cosa che riuscisse ad alleviare il suo animo inquieto per le delusioni

politiche e a infondergli sentimenti di speranza. Ed ora, anche lui abita in eterno con questi grandi, e le sue ossa «fremono amor di patria»[20].

Foscolo estende il suo sguardo anche oltre la storia italiana: l’amore per la patria effuso dai sepolcri alimentò il valore e l’ira dei Greci contro i Persiani a Maratona: si racconta che i naviganti che di notte solcano le acque lungo l’isola di Eubea, scorgano nell’oscurità i bagliori e gli echi di quelle antiche battaglie[21].

    I successivi versi del carme chiamano direttamente il gioco il potere memorativo della poesia.

Come sulla Costa Eubea, anche le rive dell’Ellesponto – lo stretto di Dardanelli nei pressi del luogo in cui sorgeva Troia – con il loro suono emaneranno il ricordo di antica gesta eroiche[22]. Il poeta si augura che le Muse possano invitarlo a celebrare gli eroi, alle quali viene conferito il ruolo a loro riconosciuto fin dall’antichità, e che ha contribuito a far sì che la mitologia le riconoscesse come figlie di Mnemosyne: l’essere le protettrici della memoria dalla forza disgregatrice del tempo.

    E me che i tempi ed il desio d’onore

Fan per diversa gente ir fuggitivo,

Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse

Del mortale pensiero animatrici.

Siedon custodi de’ sepolcri, e quando

Il tempo con sue fredde ale vi spazza

Fin le rovine, le Pimplée fan lieti

Di lor canto i deserti, e l’armonia

Vince di mille secoli il silenzio.[23] Quando la distruzione della storia non lascia spazio nemmeno alle rovine, l’armonia del canto poetico (le Muse sono dette anche Pimplèe: la mitologia racconta che sul monte Pimpla vi fosse una fonte a loro sacra) può vincere la dimenticanza a distanza di migliaia di anni, lenendo il desertico abbandono del tempo[24]. Grazie all’opera delle Muse, vive ancora il ricordo di Troia e della sua stirpe:

    Ed oggi nella Tróade inseminata

Eterno splende a’ peregrini un loco

Eterno per la Ninfa a cui fu sposo

Giove, ed a Giove die’ Dàrdano figlio

Onde fur Troja e Assáraco e i cinquanta

Talami e il regno della Giulia gente.

Però che quando Elettra udì la Parca

Che lei dalle vitali aure del giorno

Chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove

Mandò il voto supremo: E se, diceva,

A te fur care le mie chiome e il viso

E le dolci vigilie, e non mi assente

Premio miglior la volontà de’ fati,

La morta amica almen guarda dal cielo

Onde d’Elettra tua resti la fama.

Così orando moriva. E ne gemea

L’Olimpio; e l’immortal capo accennando

Piovea dai crini ambrosia su la Ninfa

E fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.

Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto

Cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne

Sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando

Da’ lor mariti l’imminente fato;

Ivi Cassandra, allor che il Nume in petto

Le fea parlar di Troja il dì mortale,

Venne; e all’ombre cantò carme amoroso,

E guidava i nepoti, e l’amoroso

Apprendeva lamento a’ giovinetti.

E dicea sospirando: Oh se mai d’Argo,

Ove al Tidíde e di Laérte al figlio

Pascerete i cavalli, a voi permetta

Ritorno il cielo, invan la patria vostra

Cercherete! Le mura opra di Febo

Sotto le lor reliquie fumeranno.[25]

La poesia ha custodito la memoria della dinastia che ha preso inizio dal connubio tra Giove e la ninfa Elettra, resa stella dal re dell’Olimpo prima della morte. Dalla loro unione nasce Dardano, capostipite dei Troiani, padre di Erittonio e di Ilo, e quindi anche primo seme dalle stirpe da cui si è generata la discendenza romana.

Di fronte all’incombente guerra, sulla tomba di Elettra versavano le loro lacrime le donne troiane, cercando inutilmente di scongiurare con le loro preghiere la morte dei loro mariti.

Sul luogo di sepoltura dei suoi progenitori Cassandra – a conoscenza del destino di distruzione della sua città per le doti profetiche conferitegli da Apollo – cantava versi colmi di pietà, insegnandoli ai suoi nipoti che portava con sé; e sospirando meste parole annunciava a costoro la distruzione della città dalle mura costruite da Apollo, e il loro futuro di morte e schiavitù.

Saper di giacere sepolti nella terra dei padri è ricordato da Cassandra, che prevede il futuro come se fosse già un tempo passato, come uno dei pochi ultimi motivi di conforto:

    Ma i Penati  di Troja avranno stanza

In queste tombe; chè de’ Numi è dono

Servar nelle miserie altero nome.

E voi palme e cipressi che le nuore

Piantan di Priamo, e crescerete ahi presto

Di vedovili lagrime innaffiati,

Proteggete i miei padri: e chi la scure

Asterrà pio dalle devote frondi

Men si dorrà di consanguinei lutti

E santamente toccherà l’altare.

Proteggete i miei padri. […] [26] Conservare l’alto nome nonostante le disgrazie è un dono degli dei. Le palme e i cipressi piantati dalle nuore di Priamo, innaffiati dalle lacrime delle vedove, crescendo

proteggeranno con la loro ombra le tombe dei troiani. Una maledizione  che tocca i familiari e la dignità di accostarsi agli altari degli dei è lanciata ai Greci vincitori che non avranno la pietà di astenere dalla distruzione i sacri luoghi sepolcrali.

    I Sepolcri si chiudono con un’immagine di Omero tramandata spesso dall’antichità e che abbiamo già incontrato: il vate appare nelle vesti del sacerdote delle Muse («sacro vate») che tutela il ricordo dei popoli minacciati dal completo oblio.

[…] Un dì vedrete

Mendico un cieco errar sotto le vostre

Antichissime ombre, e brancolando

Penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,

E interrogarle. Gemeranno gli antri

Secreti, e tutta narrerà la tomba

Ilio raso due volte e due risorto

Splendidamente su le mute vie

Per far più bello l’ultimo trofeo

Ai fatati Pelidi. Il sacro vate,

Placando quelle afflitte alme col canto,

I Prenci Argivi eternerà per quante

Abbraccia terre il gran padre Oceáno.

E tu onore di pianti, Ettore, avrai

Ove fia santo e lagrimato il sangue

Per la patria versato, e finchè il Sole

Risplenderà su le sciagure umane.27] Quando le civiltà del passato sono scomparse per via delle catastrofi che si sono abbattute su di esse, il canto poetico si è a volte rilevato l’unica ancora di salvezza della loro memoria. Rivolgendosi alle palme e ai cipressi, ultima protezione delle tombe dei suoi familiari, Cassandra profetizza che un giorno un viandante cieco (la figura di Omero è tramandata dalla tradizione come quella di un cieco) si recherà sotto le ombre di quelle piante, ormai «antichissime», e interrogherà le urne dei sepolcri. E allora gli antri del cimitero risuoneranno di voci e sospiri, e racconteranno la storia della terra di Ilio rasa al suolo due volte (una volta da Ercole, l’altra dalle Amazzoni), e per due volte risorta più splendente di prima, ma col risultato di rendere più allettante la preda della

vittoria ai suoi conquistatori (i Pelidi sono Achille e suo figlio Pirro, rispettivamente figlio e nipote di Peleo).

Il sacro vate con il suo canto, rendendo memoria della storia di Troia e delle gesta compiute dai Troiani nel tentativo di salvarla, lenirà la disperazione di quelle  anime di cui ode i gemiti, recando entrambi i doni che, da quanto abbiamo già letto nel secondo capitolo (§ 2.5), Esiodo racconta essere dispensati dalle figlie di Mnemosyne: consacrare la memoria e alleviare le sofferenze umane.

    Tale è il dono sacrosanto delle Muse agli uomini! Difatti proprio dalle Muse e da Apollo lungisaettante  vengon sulla terra gli uomini cantori e suonatori di cetra […]; felice colui, che le Muse hanno caro, ché dalla sua bocca, soave, scorre la voce! Ed infatti, se taluno avendo angoscia nell’animo trafitto da recente affanno si rattrista con il cuore in ambascia, allora l’aedo ministro delle Muse prende a celebrare le gloriose gesta degli uomini d’un tempo, ed innalza un inno agli dèi beati che abitano l’Olimpo; ed ecco che a un tratto costui si dimentica delle sue ambasce, né conserva più ricordo delle sue pene, dacché i doni delle dèe lo hanno subito allontanato dagli affanni.[28]

    Quando anche gli ultimi resti delle tombe troiane spariranno inghiottite dal tempo, resteranno i versi di Omero. I principi greci vittoriosi saranno eternati nella loro fama diffusa in tutte le terre racchiuse dal mare, ma il canto dell’aedo darà il giusto merito ai vinti non meno che ai vincitori, e il sangue versato per la patria, come quello di Ettore, grazie al dono della poesia, finché ci sarà vita, non verrà avvolto dall’oscura nube dell’oblio.

[1] I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, a cura di M. Gorra, “Oscar grandi classici”, Milano, Mondadori, 1981, pp. 137-138.

[2] Ivi, p. 990.

[3] «Il centro di un romanzo è un’opinione o un’intuizione intensa sulla vita, un elemento misterioso incastonato in profondità, reale o immaginario. I romanzieri scrivono per esplorare tale luogo, per scoprirne le implicazioni, sapendo che i loro libri vengono letti con lo stesso spirito». Cfr. O. Pamuk, Lezione sesta. Il centro, in Romanzieri ingenui e sentimentali, trad. it. a cura di A. Nadotti,  Torino, Einaudi, 2012, pp. 107-123 (il brano citato è a p. 107).

[4] I. Nievo, Le Confessioni d’un Italiano, cit., p. 358.

[5] «Se mai vi fu argomento che valesse a persuadere un incredulo d’alcuna verità religiosa, fu certo l’aria divina che si diffuse in quel momento sulle sembianze di Clara. L’immortalità si stampò a caratteri di luce su quella fronte confidente e serena; nessuno certo avrebbe osato dire che in tanto prodigio d’intelligenza di sentimento e di bellezza, la natura avesse provveduto soltanto ad ammannir un pascolo ai vermi». I. Nievo, Le Confessioni d’un italiano, cit., p 214.

[6] Ivi, pp 215-216.

[7] «Il concetto della nuova civiltà, di cui avevi qua e là oscuri e sparsi vestigi, è qui compreso in una immensa unità, che rinchiude nel suo seno tutto lo scibile, tutta la coltura e tutta la storia. E chi costruisce così vasta mole, ci mette la serietà dell’artista, del poeta, del filosofo e del cristiano. Consapevole della sua elevatezza morale e della sua potenza intellettuale, gli stanno innanzi, acuti stimoli all’opera, la patria, la posterità, l’adempimento di quella sacra missione che Dio affida all’ingegno, acuti stimoli, ne’ quali sono purificati altri motivi meno nobili, l’amor della parte, la vendetta, le passioni dell’esule: ci è là dentro nella sua sincerità tutto l’uomo, ci è quel d’Adamo e ci è quel di Dio». F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, VII, 46 (http://www.bibliotecaitaliana.it/testo/bibit000949) Cfr. anche ivi III e VI, 7-8-9, passim.

La storia della letteratura italiana di De Sanctis è fatta di grandi contrapposizioni, come quella tra modelli e anti-modelli. Per De Sanctis, con la sua grande tendenza a estremizzare che lo caratterizza, il modello di «poeta» è appunto Dante, dal fatto che è un intellettuale che interviene civilmente sulla realtà che lo circonda. L’anti-modello desanctisiano del poeta è invece l’«artista», l’esteta chiuso ermeticamente nel suo mondo, disinteressato da quanto lo circonda e preso unicamente dalla contemplazione del bello. Il corrispettivo trecentesco di artista che De Sanctis contrappone al poeta Dante è Petrarca.

[8] La prima è All’Italia. Entrambe sono canzoni patriottiche e anche All’Italia sprona a guardare l’esempio degli antichi.

[9] La prima è Le Confessioni d’un italiano che da poco abbiamo lasciato, la terza viene a seguire. NB: la loro disposizione non segue criteri diacronici, ma di gradazione ascendente di attinenza e rilevanza contenutistica alle nostre argomentazioni.

[10] G. Leopardi, Sopra il monumento di Dante che si preparava a Firenze, vv. 1-17, in Id., Canti, a cura di U. Dotti, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 215-216.

[11] Ivi, vv. 64-68, pp. 218-219.

[12] Ivi, vv. 191-200, pp. 225-226.

[13] Cfr. U. Foscolo, Lettera a Monsieur Guill<on>, in Id. Poesie, a cura di M. Palumbo, Milano, Rizzoli, 2010, pp. 149-165.

[14] U. Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 16-22, in cit., pp. 109-110.

[15] Ivi, vv. 23-40, pp. 110-112.

[16] «L’armonia del giorno, cioè la vita, può ridestarsi, per chi è morto, nella mente dei vivi. Una specie particolare di vita continua, perciò, anche sottoterra. È il primo passo per mettere in discussione la legge dell’oblio, che sembrava assolutamente ineluttabile». M. Palumbo, nota 31, in ivi, p. 110.

[17] Il «nome inciso sul sasso umanizza la pietra sepolcrale e rende la tomba parte delle relazioni affettive tra i vivi e i morti. Proprio il permanere del nome individuale consente di sfuggire all’obblio (v. 18) e, perciò, costituisce un insostituibile mezzo di difesa contro il trionfo del Tempo e della Morte». Ivi, nota 41, p.112.

[18] Ivi, vv.130-150, pp. 120-122.

[19] Ivi, vv. 151-154, p. 122.

[20] Cfr., ivi, vv. 154-197.

[21] Cfr., ivi, vv. 197-212.

[22] Cfr., ivi, vv. 213-225.

[23] Ivi, vv. 226-234, pp. 131-132.

[24] Il «canto delle Muse, che si prolunga al di là delle rovine disperse dalle ali del tempo, si contrappone ai deserti, così come l’armonia vince di mille secoli il silenzio. L’opposizione tra i lemmi riproduce il conflitto principale su cui ruota il carme: la lotta della vita contro la morte, qui ripresentata nel contrasto tra canto e armonia con deserti e silenzio. Le forme e la voce della Poesia diventano il mezzo più duraturo per sfuggire alla legge mortale delle cose». Ivi, nota 191, p. 132.

[25] Ivi, vv. 235-268, pp. 132-136.

[26] Ivi, vv. 269-279, pp. 136-137.

[27] Ivi, vv. 279-295, pp. 137-138.

[28] Esiodo, Teogonia, vv. 226-232, in Opere, a cura di A. Colonna, Torino, UTET, 1977, pp.72-75.

In copertina Ippolito Nievo, immagine da wikipedia