Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

Karen Blixen, forma e ideale

Scrive di sé Karen Blixen quando narra le sue storie?
Certo: lo fa più scopertamente ne La mia Africa (ma non del tutto) e lo fa anche nelle Sette storie gotiche, in maniera molto diversa ma non meno autentica. Ama il travestimento, la grande narratrice, ama collocarsi in altri spazi e in altri tempi, trasfigurandosi; ma non venendo mai meno ai principi che regolano il funzionamento della maschera di wildiana memoria. Ecco allora che tornata dall’Africa, esausta per quell’avventura fallimentare, si rifugia nello studio che fu del poeta Ewald e riprende le storie che si raccontava, e raccontava agli amici, nelle serate africane, già conscia dello stile che l’avrebbe caratterizzata in seguito: quello preso a prestito dai racconti orali che con la loro struttura a cornice garantiscono al raconteur l’agio di aprirsi a infinite digressioni. Adora Le Mille e una Notte, Karen Blixen, l’astuzia di Sheherazade che avvince il re di Persia con le tante storie che le fanno salva la vita, appunto per mille e una notte; e le piacciono i racconti dei suoi kikuyu. Dunque scrive Sette storie gotiche, che licenzia nel 1934, e le firma con un nome maschile, Isak Dinesen. Le ambienta in un tempo non troppo vicino, circa cent’anni prima, per permettere all’immaginazione di scatenarsi libera dalle pastoie del realismo. “Per quanto mi riguarda“, risponde a chi la taccia di essere decadente, “ho un’unica ambizione, quella di inventare storie, storie stupende“.
E lo fa guardando a un mondo che vede declinare: quello della nobiltà, della cultura aristocratica; un mondo fatto di formule, come di formule è tessuta la tela di una storia che, attraverso le costrizioni formali, ritrova il bandolo di un’ispirazione sotterranea simile al mito e al sogno, che resistono al tempo in quanto archetipi di un vivere, mai ordinario, ma scelto e pagato con la moneta della sofferenza. Questo le ha lasciato in eredità il padre, ed è questo il compito della sua vita fatta di semplicità e di eccessi, di furia d’amore; un amore negatole da quella malattia- la sifilide- che il marito le ha passato insieme al titolo di baronessa e che da allora le impedisce di amare i corpi inducendola ad amare le forme, gli ideali, i principi appunto. È attraverso quelle regole e quelle maschere che la sua vita si anima, o si fa anima da narrare, nelle sue declinazioni, nella metamorfosi continua dei personaggi in cui la sua storia si fa allo stesso tempo carne e incorporea eternità: l’eternità ha mai corpo? Ce l’ha nei tempi confinati, limitati, tra le cellule dell’oggi destinato a sfaldarsi e a divenire polvere; ma la sua sostanza è quella della similitudine e della differenza perché è mito e saga.
Anche in questo racconto, Diluvio a Norderney, che apre le Sette storie gotiche, la Blixen prende le identità dei suoi personaggi e le rimescola, le mette in dubbio, ne approfondisce il mistero. È così anche per Kasparson, il valletto del cardinale, che decide, da ex attore, di recitare il ruolo più importante della sua vita e fingersi un altro.
Siamo sul finire dell’estate del 1835, sulle spiagge di Norderney che le dame e i gentiluomini alla moda hanno romanticamente eletto a dimora estiva, molto più esaltante delle rassicuranti ombre dei loro parchi, dai cui lidi possono farsi rimescolare il sangue contemplando “la furia sfrenata dei marosi”. Proveranno, nobili e contadini, la furia del mare che rompe le dighe e invade tutto!
Così il cardinale Amilcare von Sehestedt, considerato da tutti un sant’uomo; l’anziana Madamigella Nat-og-Dag, una virtuosissima zitella che per l’avanzare dell’età si crede una peccatrice impenitente, “per non dire addirittura la gran puttana dell’Apocalisse“; la contessina Calypso, nipote di un poeta; e il giovane e borghese Jonathan Maersk si ritrovano al piano superiore di un fienile nell’attesa che la notte passi e una barca li vada a recuperare. Non possono far altro che parlare e raccontarsi la loro storia all’interno della storia più grande che sta devastando le terre dell’Holstein intorno a loro. È Madamigella Nat-og-Dag, sotto i cui tratti si intravedono sornioni quelli della Blixen, a dirigere la conversazione di quel suo improvvisato salotto. D’altra parte chi se non un mezzo foul può assumersi il compito di intrattenere la corte? Libertà e verità sono i suoi tratti caratteristici, esposti con parole bizzarre, ambigue, piene di licenze. C’è chi si chiede se Madamigella sia un poco fuor di senno per scelta o per capriccio; così risponde la Blixen: “Se ora le fosse stata offerta la scelta di ritornare alla ragione, e se ella avesse avuto la capacità di rendersi conto del significato di una simile offerta, forse l’avrebbe respinta, con il pretesto che, in realtà, la vita è assai più divertente quando si ha il cervello un tantino fuori di posto”.
Prodigalità e sacrificio: questi gli emblemi dell’aristocrazia al tramonto che Isak Dinesen non smette di far rivivere anche quale storia di scheletri- le ossa che restano, gotiche-, il monito di una classe sociale che va sparendo con tutti i suoi valori e le sue idiosincrasie; ma non solo perché, quelle ossa, sono pure l’essenza della scrittrice, che le riveste di qualche grammo appena di pelle, trasparente com’è, aerea, incapace di nutrirsi, in ultimo, se non di uva, ostriche e champagne- cosa di cui si preoccupa anche Arthur Miller quando la incontra in America con Marilyn Monroe-; “uno scheletro dagli stinchi fasciati di calze blu trasparenti, con occhi come due succhielli, e un volto così scarso di carne, da somigliare a uno dei teschi animati di Félicien Rops“, la descrive così Mario Praz dopo averla incontrata nel salotto romano di Anna Laetitia Pecci-Blunt, ironica e sibillina come i suoi grandi occhi neri.
Lei era così, tutta forma e ideale.

Karen Blixen, forma e ideale Book Cover Karen Blixen, forma e ideale
Rossella Pretto
2018