Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

La grazia delle perle. Su Karen Blixen

Di Rossella Pretto

«NORA: Tu non pensi e non parli come l’uomo di cui possa essere la compagna. Svanita la minaccia, placata l’angoscia per la tua sorte, non per la mia, hai dimenticato tutto. Ed io sono tornata ad essere per te la lodoletta, la bambola da portare in braccio. Forse da portare in braccio con più attenzione perché t’eri accorto che sono più fragile di quanto pensassi. Ascolta, Torvald; ho capito in quell’attimo di essere vissuta per otto anni con un estraneo. Un estraneo che mi ha fatto fare tre figli… Vorrei stritolarmi! Farmi a pezzi! Non riesco a sopportarne nemmeno il pensiero!
TORVALD: Capisco. Siamo divisi da un abisso. Ma non potremmo, insieme…
NORA: Guardami come sono: non posso essere tua moglie.
TORVALD: Ma io ho la forza di diventare un altro.
NORA: Forse, quando non avrai più la tua bambola.»

(H. Ibsen, Casa di bambola)

Vi è sempre, nei libri di Karen Blixen, un interrogativo e un rovello sulla qualità, eroica e miserevole, dell’esistenza; sulla stoffa e sulla consistenza dei rapporti amorosi, delle corrispondenze. La scrittrice imbastisce le sue narrazioni con un filo spesso che buca la tela e la sutura. E quel foro, che è vuoto passibile di riempimento, abisso e passaggio, lo fa attraversare dalle coppie dicotomiche che declina incessantemente: matrimonio e differenza di classe; desiderio di grandezza in antitesi a senso di totale inutilità; libertà versus moralità: Così ne Le perle, racconto contenuto in Racconti d’inverno.

Qui una giovane e ricca borghese sposa un ufficiale aristocratico decaduto. I loro valori sono differenti: la praticità imbolsita dai turbamenti contrapposta al nobile sprezzo del pericolo. Jensine se ne rende conto in Norvegia, durante il viaggio di nozze, malgrado la zia Mauren l’avesse messa in guardia prima del matrimonio. “Ora aveva l’orrenda sensazione di essere là, in un mondo di vette e di abissi inauditi, nelle mani di una persona che ignorava totalmente la legge della gravitazione”. Solo il suo gingillarsi con il vezzo di perle che le ha donato impensierisce il marito Alexander – cinquantadue perle appartenute alla nonna, una per ogni anno di matrimonio. Quando Jensine la rompe ha la possibilità di ottenere, anche se a distanza del tempo, la visione che le apre le porte della grazia. È il ciabattino da cui porta a riparare la collana a compiere il gesto o lo scarto che la rende possibile: poeta mancato, quell’uomo le aggiunge una perla. È un’azione da interpretare, al cui enigma Jensine deve piegarsi. Che cosa conta nella vita, nella sua? Nulla. Eppure qualcosa rimarrà: le perle, che passeranno di mano in mano, di collo in collo, da una giovane donna all’altra… il desiderio, l’amore.

Il conflitto esiste sempre, non può essere aggirato né risolto. Il polo del desiderio, quella tensione spasmodica, è pure strumento indispensabile per la scrittura di Karen Blixen, che sente esperienza e desiderio come inconciliabili. Da lì nasce la sua potente vena ironica, qui modulata grazie all’intervento dei vecchi: la zia Mauren e il ciabattino. Liberi, loro, di parlare, di agire, di elargire e di sprecare nel senso più pieno del termine: quella gratuità che innalza l’uomo di genio. Non sembra che la zia della Blixen se ne avesse a male riconoscendosi nel ritratto di Mauren; era sempre stata, nel bene e nel male, un punto di riferimento e di confronto intellettuale per la scrittrice che, in questo binomio micidiale, si riconosceva, e per questo alternava periodi di grande energia, un eccesso di energia lavorativa e amorosa, a momenti di depressione e tormento.

La protagonista del racconto viene abbagliata e stordita dalla Norvegia – una terra ubriacante (“Non aveva mai raggiunto tali altitudini, e l’aria le dava alla testa come un vino”) – e si sente allo stesso tempo un pesce d’alto mare che sostiene i metri d’acqua sopra le sue spalle come fossero il gravame dell’esistenza. Ma nello scrosciare che subito dopo la investe è contenuta la prefigurazione della libertà, della fluidità che accompagna il dono di sé: “E c’era acqua dappertutto, acqua che avventandosi giù dalle montagne alte sino al cielo, si acquietava in laghi sereni o si sbizzarriva in argentei ruscelli o in ruggenti cascate adorne dei colori dell’iride”. È il vino, qui, la chiave di volta che consente alla verità, o meglio, alla rivelazione di accadere e manifestarsi. L’aveva detto il Barone von Brackel, in “L’antico cavaliere”: “Un vescovo disse una volta che ci sono molte vie per giungere alla verità, e che il Borgogna è una delle tante”. Quella verità stordente che consiste nell’accettare la massa liquida sopra di sé, sentirne il peso, e correre il rischio di farsi uscire gli occhi dalle orbite pur di vedere lo spettacolo di quei laghi, dei ruscelli, delle cascate ruggenti.

È ciò che accetta di fare Nora, l’eroina di Casa di bambola, di Ibsen. Non è un caso che una delle figure incontrate da Jensine, l’ultimo giorno del suo viaggio, sia proprio quella del drammaturgo, un trentenne dal viso volitivo, gli occhi chiari e penetranti, che la interroga sul senso del fallimento. Anche Jensine si accorge della prigione, del torpore, e chiede di essere visitata dalla grazia – la chiederà a piena voce – malgrado decida di rimanere a guardare dall’alto della sua finestra l’arrivo della zia Mauren, venuta a portarle i fiori raccolti nel giardino del padre.

Rossella Pretto