Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

L’insanabile contrasto tra arte e vita in Antonia Pozzi

Di Graziella Enna

Le radici dell’inquietudine e del tedio esistenziale di Antonia Pozzi nascono da varie motivazioni inerenti all’indole, all’educazione, alla spiritualità di un’anima dotata di una sensibilità fuori dal comune. Il suo ricco e fecondo mondo interiore si scontra con una realtà  incompatibile, ma sarebbe riduttivo e improprio attribuire il suicidio di Antonia Pozzi ad una crisi esistenziale momentanea o a avvenimenti contingenti come storie d’amore fallimentari. Come è ben noto, l’immagine corrente della sua vita potrebbe trarre in inganno, vista la sua apparente perfezione. Dietro  all’appartenenza ad una famiglia dell’alta borghesia milanese, all’educazione raffinata, agli studi liceali e universitari, ad una vita piena di stimoli, passioni, viaggi, si celano turbamenti profondi e spinte disgregatrici. Fin dalla prima giovinezza è evidente il contrasto tra l’Antonia che scrive lettere  spensierate ai suoi familiari e quella che nel contempo ha già elaborato una sua poetica matura che esplora gli abissi del suo animo lacerato. Probabilmente, data la sua precoce maturità intellettuale, è consapevole della difficoltà di essere poetessa e soprattutto di conciliare questa passione con la sua vita di donna in un periodo storico di cui avverte il disagio espresso non palesemente e pur vivendo in un’apparente condizione di serenità. Negli ultimi anni della sua vita si intensifica il conflitto tra l’essere una creatura destinata a creare arte e una donna a cui forse, per un atavico retaggio di pregiudizi acuiti dalle ideologie del periodo, non si addice lo stato di grazia legato all’attività poetica. La profonda dicotomia tra arte e vita si rinvigorisce negli anni universitari, a contatto con una vita più variegata e reale grazie all’amicizia con altri allievi del filosofo Antonio Banfi[1]. Le lezioni di estetica giocano un ruolo fondamentale nel delineare ancor più marcatamente il suddetto contrasto, in particolare con lo studio del personaggio di Mann, Tonio Kröger che la porta più volte e in diverse lettere a identificarsi nel personaggio e a definirsi Tonia Kröger. Del resto l’epiteto le fu attribuito da Gianluigi Manzi[2], Antonia ne capì a fondo il motivo perché veramente si rispecchiava nel tonio manniano, perché come lui, si sente esclusa dalla possibilità di godere intensamente le gioie della vita a causa della dicotomia tra vivere e creare, eterno dilemma dell’artista. Basta leggere questo passo del testo manniano (scritto nel 1903), per comprendere lo stato d’animo di Antonia. Si tratta del dialogo tra Tonio e l’amica Lisaveta:

 «Non dica “mestiere”, Lisaveta Ivanovna! La letteratura non è affatto un mestiere, ma una maledizione, perché lei lo sappia. Quando prende a pesare questa maledizione? Presto, tremendamente presto. In un periodo in cui dovrebbe essere ancora facile vivere in pace con Dio e con il mondo. Si comincia a sentirsi segnati, a sentirsi in un dissidio enigmatico verso gli altri, i comuni, i normali, la voragine di ironia, miscredenza, opposizione, sapere, sentimento, che separa se stessi dagli uomini si spalanca sempre più profonda, si è soli, da quell’istante non c’è più comprensione. Che destino! Ammesso che il cuore abbia ancora tanta vita e tanto amore per sentirne l’atrocità. L’autocoscienza si infiamma perché si avverte, tra migliaia di persone, il segno sulla propria fronte e si sente che non sfugge a nessuno.

 Non è illecito affermare che in questa disposizione d’animo di Antonia sia insita in nuce una sorta di rinuncia alla vita, che affiora in lei già molto tempo prima del suo estremo gesto. Questo pensiero, come già detto, non è scevro degli insegnamenti banfiani nel campo dell’estetica che costituiscono non solo la base ideologica della tesi su Flaubert che Antonia stende a partire dal 1935, ma anche di un modo di vivere e di pensare che la caratterizzerà fino alla morte. Quando stringe legami di amicizia con altri giovani come ad esempio Remo Cantoni[3], Alberto Mondadori[4] Enzo Paci[5], Paolo Treves[6], Vittorio Sereni[7], tutti antifascisti e in parte anche ebrei, comprende di dover uscire dai suoi schemi, da quella che tempo prima aveva definito “vita sognata”, tanto vagheggiata e nel contempo avulsa dalla situazione politica del ventennio. Per Remo Cantoni prova un coinvolgimento sentimentale, (dopo la fine, alcuni anni prima, dell’amore per il suo professore di latino e greco Antonio Maria Cervi), ma il giovane non ha le stesse aspettative di Antonia: mentre lei aspira ad un rapporto in cui le anime si fondano in un destino comune, un donarsi completo ed assoluto all’altro, lui invece vuole che in un rapporto nessuno abdichi a se stesso ma ognuno preservi la propria libertà. Due modi opposti di concepire un’unione che fanno capire ad Antonia il divario insanabile e l’impossibilità di coltivare il rapporto e di viverlo nella sua pienezza. Lo scriverà infatti a Vittorio Sereni il 20 giugno del 35 dopo la visita nell’amata Pasturo di Remo Cantoni e di Paolo Treves:

Sono qui, in questa pausa di silenzio, come un velo d’acqua sospeso su di un masso in mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora. È come se avessi tagliato tutti i legami col mondo di fuori, a beneficio di un mondo che ha già la sua data di morte, che forse non esiste neppure come mondo a sé, ma è solo il morire di tutto un lungo spazio di vita. Non sai che cosa spietata è la convivenza quotidiana: quell’essere giorno per giorno di fronte, a misurare le proprie diversità sul metro delle piccole realtà materiali, come sminuzza i sentimenti, come seppellisce i concetti idealizza …. Quanti spaventosi abissi, fra Remo e me. Di gusti, di sensibilità; di moralità, soprattutto. E questo soprattutto è terribile: la mia assoluta inadattabilità alla vita pratica, il frantumarsi di tutta la mia unità di vita quando mi si porti fuori dell’atmosfera irreale in cui m’ha cresciuta la solitudine. Emerge in queste parole la consapevolezza della sua solitudine interiore, di quel rovello che la tormenta nel sentirsi inadatta alla vita reale ma di esistere in un’atmosfera rarefatta, sospesa e lontana dalla prosaicità quotidiana e, purtroppo, destinata a precipitare in un baratro. Nella prosecuzione della lettera scrive di sentirsi più che mai Tonio Kröger. Nello stesso giorno scrive una lettera all’amica Alba Bindi con le stesse parole:

Mia cara cara Alba, io mi sento più che mai Tonia Kröger, come diceva il povero Manzi, e queste mie montagne sono le uniche cose mute e fedeli con le quali so intessere delle misteriose trame di affetto.

E qui Antonia tocca anche un altro aspetto importante della sua esistenza. L’amata Pasturo e la montagna in generale sono i luoghi d’elezione e il rifugio in cui riesce a placare ansie e tormenti. La sua ricerca di pace e solitudine, l’esigenza di perdersi nell’infinito nei massi della Grigna o tra bianche guglie dolomitiche, cime svettanti e candidi paesaggi nivali, la rendono una provetta alpinista e sciatrice. Solo nel rapporto intimo e profondo con quelle che chiama “mamme montagne”, riesce a svincolarsi dalle convenzioni borghesi e a librarsi in una dimensione consona alla sua spiritualità di cui le montagne rappresentano un’estensione. Si ravvisa nelle sue parole anche un processo di umanizzazione delle montagne, come si evince chiaramente da questa lirica, in cui emerge anche il presagio del dolore esistenziale e della morte, si avverte un’eco del “supremo scolorar del sembiante” di leopardiana memoria.

Vedi le grandi cime

come si sbiancano:

gli immensi volti

come distendono

sul dolore degli occhi

le palpebre

e giacciono puri,

protesi

a una carezza stellare.

O non attendi anche tu

per la tua vita

che si scolora

il bagliore supremo?

S. Martino di Castrozza, gennaio 1933 Altra eccelsa prova dell’intimo connubio con i paesaggi montani sono le fotografie artistiche che Antonia scatta, in cui le montagne sono protagoniste assolute e le figure umane, quando presenti, sono poste in una posizione marginale. Non confortata da un credo religioso, si immerge totalmente nelle atmosfere incantate delle vette in una fusione panica. Esprimerà infatti come sua ultima volontà quella di farsi seppellire ai piedi della sua Grigna tra le rocce e cespi di rododendri. Nel gennaio del 1933, Antonia, in una lettera all’amico poeta Tullio Gadenz[8], considerata una dichiarazione di poetica, affronta proprio il tema del divino e del suo rapporto con la creazione poetica. Identifica Dio con un infinito che si concretizza in forme determinate che si spezzano e si riplasmano in un continuo fluire per esprimere la vita che è in noi, un Dio che non si può pregare né adorare al di fuori di se stessi perché si crea nel proprio cuore. Ed è proprio quest’entità divina che sente vivere dentro sé come elemento propulsore di tutte le passioni e da essa nasce la creazione poetica che ritiene sacra.

 “Perché non per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia attraverso tutta la mia vita, per una adesione innata, irrevocabile, del più profondo essere, io credo, Tullio, alla poesia E vivo della poesia come le vene vivono del sangue. Io so che cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore.”

E ancora:

Io credo che il nostro compito, mentre attendiamo di tornare a Dio, sia proprio questo: di scoprire quanto più possiamo Dio in questa vita, di crearLo, di farLo balzare lucendo dall’urto delle nostre anime con le cose (poesia e dolore), dal contatto delle nostre anime fra di loro (carità e fraternità). Per questo, Tullio, a me è sacra la poesia; per questo mi sono sacre le rinunce che mi hanno tolto tanta parte di giovinezza, per questo mi sono sacre le anime ch’io sento, di là dalla veste terrena, in comunione con la mia anima. Io ho tanto sofferto, Tullio; e se oggi non soffro più come un giorno, è forse perché – già gliel’ho detto – la mia anima si sbianca tutta e crede che sia giunto il crepuscolo estremo. Dentro me è tutto un giardino di fiori morti, d’alberi uccisi: e i fiori morti mi fanno vigile e triste come una vecchia mamma presso la tomba del suo unico bimbo.

Partendo da questi presupposti si comprende bene l’evoluzione del pensiero della poetessa e le convinzioni radicate in lei sia di non poter scindere il suo essere dalla poesia, sia dell’incombere sinistro della morte. È chiaro pertanto, come recepisca gli insegnamenti banfiani, avendo già alle sue spalle la contezza di essere inadatta al mondo. L’analisi dell’opera di Mann, (di cui si occupavano lei e gli altri allievi di Banfi),  in merito al contrasto tra geist e leben, arte e vita, a causa della quale Tonio si sente escluso come artista, dalla spontaneità e dalla concretezza della vita quotidiana, accresce in lei questo disagio esistenziale. Scrive ancora Antonia nella sopraccitata missiva ad Alba Bindi:

Tuffarmi nella realtà sarebbe un perdere il meglio di me stessa e smarrire completamente il senso della mia vita. Quando Antonia prepara la sua tesi su Flaubert[9], discute preliminarmente con Banfi, che era anche il suo relatore, rivelandogli la sua attività poetica e quasi provandone vergogna. Il tutto nasce da un’affermazione del professore secondo cui la poesia ha solo il carattere di un’evasione e di un rifugio interiore, mentre la prosa aderisce a innumerevoli aspetti del reale ed ha pertanto un ruolo etico nella società. Antonia non vuole dunque ignorare il pensiero del maestro e dopo un po’ di tempo scriverà alla nonna, (Maria Gramignola, detta “Nena”, che da tempo raccoglieva del materiale sulla storia familiare), la sua intenzione di scrivere un romanzo storico ispirato alle vicende dei suoi antenati che avesse il suo fulcro proprio nella figura dell’anziana donna. Dal 1937 Antonia inizierà a concepirne il progetto credendo così di conciliare l’opposizione dialettica che la tormentava, convinta che il romanzo per lei avrebbe rappresentato una sorta di rinascita. La stessa faticosa conversione, scrive nella sua tesi, apparteneva anche a Flaubert, che si dedica al romanzo ma fondamentalmente resta un lirico. Con molta probabilità lo stesso Banfi, ha un intento pedagogico nell’attribuirle l’argomento della tesi per convertirla ed educarla alla presunta concretezza della scrittura prosastica. Questo ci fa capire come anche nella sua tesi Antonia ci riveli molto del suo mondo interiore. Banfi lesse anche alcune sue liriche e rimase fermo nelle sue posizioni, considerando l’attività lirica in declino nella società contemporanea, cosa che la gettò nello sconforto. Del resto la cultura universitaria del periodo risentiva del retaggio culturale che assegnava alle donne le cosiddette “arti minori”, a ciò si aggiunge la retorica fascista sul ruolo della donna che non certo la vedeva destinata a una carriera letteraria o accademica. Poco dopo la sua brillante laurea scrive nel suo diario:

17 ottobre 1935

 Adesso tornerai a scrivere poesie. Dici, parli, ma ha ragione Tonio Kröger. Impara a vivere sola – dentro di te. Costruisciti. – Qui, o si muore o si comincia una tremenda vita. Io non devo morire, perché la mamma, sentendo il tonfo del mio corpo sulla terrazza del piano terreno, griderebbe «cosa c’è», si affaccerebbe e la porterebbero morta anche lei nel suo letto. Io sono una donna, ma devo essere più forte del povero Manzi che si è ammazzato per una ragione uguale alla mia. Io lavorerò, Flaubert m’insegni. Ho il dovere di essere più forte che il dolore, perché il dolore nasce sempre da uno sbaglio. Io ho sbagliato. Faccio ammenda. Pago del mio. – Orgoglio aiutami –

Il suo dilemma, come si evince da queste parole, si acutizza ogni giorno di più, tuttavia nel periodo post laurea altri eventi contingenti cambiano la sua esistenza e accrescono la frattura ormai insanabile del suo spirito, nonostante una vita piena in cui realizza alcuni dei suoi desideri, per esempio un soggiorno in Germania in cui apprende il tedesco. Tuttavia la sua conoscenza del mondo ha sempre come scopo, tradurlo e raffigurarlo in poesia e, ancora una volta, Antonia si deve scontrare con la difficile realtà che la circonda. L’amicizia con Paolo Treves le fa comprendere probabilmente come le scelte politiche del ventennio stiano profondamente minando le sue certezze. Differenti le frequentazioni dei Treves e dell’avvocato Pozzi, gli uni vicini alle idee di Turati e della compagna Anna Kuliscioff,  l’altro sempre più vicino al regime, poiché era divenuto personaggio eminente del fascismo milanese e addirittura podestà di Pasturo. Antonia non si esprime mai politicamente nelle sue lettere, al contrario, interpreta il ruolo della figlia modello per compiacere i genitori, probabilmente per evitare un aperto conflitto con il padre e con il conformismo borghese di matrice fascista. Risulta evidente che che con il suo acume critico avesse compreso le dinamiche del regime, tanto più se consideriamo che l’amicizia con i fratelli Treves era di vecchia data al momento dell’uscita delle leggi razziali. Con alcune parole abbastanza perentorie e una malcelata disapprovazione, in una lettera, l’avvocato Pozzi sconsiglia alla figlia la frequentazione dei Treves, il cui padre Claudio era un fuoriuscito antifascista che a Parigi redigeva un giornale socialista. Antonia, poco tempo dopo, stranamente si mostrò stupita della fuga dei Treves che per anni furono perseguitati dal fascismo prima per le idee politiche e poi  dalle leggi razziali che li aveva etichettati come ebrei. In realtà voleva nascondere di aver violato il divieto paterno perché di fatto conosceva benissimo l’identità politica dei Treves. Come emerge in una lettera, il 23 ottobre del 38, lei e l’amica del cuore Lucia Bozzi hanno nostalgia di un’amicizia decennale con Paolo e Piero Treves e addirittura si recano al cimitero a portare i fiori alla “povera signora Anna”, (Kuliscioff), cosa che Paolo faceva ogni settimana prima dell’esilio. Un altro episodio significativo che l’aveva messa di fronte all’oppressione ideologica era avvenuto un anno prima quando Antonia era stata invitata a tenere una relazione all’università sul libro “Eyeless in Gaza”di Aldous Huxley[10] di cui possedeva l’edizione francese inviatale da Parigi da Paolo Treves. Non è un caso. Il testo, narra una vicenda  intrecciata a riferimenti filosofici, storico-politici  con un chiaro messaggio pacifista, elementi sicuramente letti da Treves in chiave antifascista. Vittorio Sereni, quando Antonia gli chiede dei consigli, le suggerisce di presentarlo nei suoi temi generali e lasciare in ombra le questioni storico-politiche che avrebbero potuto attirare l’attenzione della censura fascista. Proprio in questo periodo entra nella sua vita Dino Formaggio11], antifascista e socialista, allievo di Banfi di due anni più giovane di Antonia, non proveniente dall’alta borghesia a cui lei è abituata, bensì dalla periferia delle case di ringhiera abitate da operai. Per Antonia quello di Dino è un mondo totalmente sconosciuto che lei vede e esplora anche tramite un’altra delle passioni che la caratterizza, la fotografia. Questo è sicuramente il momento della sua vita in cui comprende la distanza abissale tra quel mondo e la sua vita lussuosa, fatta dei privilegi di cui forse non si era mai resa conto se non nel confronto con la povera gente di Pasturo.

Via dei Cinquecento

Pesano fra noi due troppe parole non dette

e la fame non appagata, gli urli dei bimbi non placati, il

petto delle mamme tisiche e l’odore – odor di cenci,

d’escrementi, di morti – serpeggiante per tetri corridoi

sono una siepe che geme nel vento fra me e te.

Ma fuori,

due grandi lumi fermi sotto stelle nebbiose dicono larghi

sbocchi ed acqua

che va alla campagna;

e ogni lama di luce, ogni chiesa nera sul cielo, ogni passo di

povere scarpe sfasciate

porta per strade d’aria religiosamente

me a te. Quelle “parole non dette” sono probabilmente i contrasti tra Dino che odia i privilegi della classe borghese, e lei, scissa tra due mondi, il suo e quello descritto in questa lirica ma anche in alcune pagine del diario in cui espone il mondo fatto di miseria e degrado degli abitanti della periferia con strade sterrate, pozzanghere, abitazioni modestissime. Per questo nuovo amore, tuttavia, è disposta a rinunciare a tutti gli agi di cui dice di non aver nessun merito e inizia a fantasticare di condurre una vita anche grama e con il suo Dino in due stanze sguarnite sul Ticino o una piccola baita montana. Subisce una forte attrazione verso l’alterità e la diversità di quel mondo così lontano dalle sue abitudini, cosa che diviene l’opportunità per creare un’altra se stessa in grado di dedicarsi alla prosa, non più all’arte poetica ed effettuare quel passaggio, come le aveva suggerito Banfi, dall’evasione della poesia, basata su un’interpretazione soggettiva della realtà,  alla concretezza della prosa che invece ne era comprensione. Antonia cambia luoghi e soggetti poetici e anche il linguaggio, come è evidente nella poesia sopraccitata. Anche questa volta vorrebbe donarsi totalmente in questa storia d’amore. Dino è sicuramente contento delle attenzioni della ragazza, della profonda amicizia intellettuale che li unisce, ma ha ben altri progetti che accasarsi in due stanzette, sente la legittima esigenza di un riscatto sociale tramite la cultura. Antonia, nel suo entusiasmo e nel suo enorme desiderio, per una volta, di buttarsi a capofitto nella vita vera, non vede ostacoli ma sa benissimo, in cuor suo, di non essere mai riuscita a superare il divario tra arte e vita, tra libertà di pensiero e oppressione ideologica politica e familiare. Quell’angelo, che  diverse volte dice di aver  incontrato nel suo cammino negli ultimi tempi della sua esistenza, la prende definitivamente per mano il 3 dicembre 1938 in un fossato di Chiaravalle.

[1] Filosofo italiano (Vimercate 1886 – Milano 1957). Nel 1922, Antonio Banfi pubblicò un saggio di adesione non dogmatica al marxismo dal titolo Gli intellettuali e la crisi contemporanea. Tre anni dopo fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Passato dalla cattedra universitaria di Genova a quella di Milano, Banfi finì per formare una “scuola filosofica” che, conosciuta con il suo nome, influenzò non poco il crearsi di una coscienza antifascista tra gli studenti e gli intellettuali milanesi. È del 1941 l’adesione del filosofo al Partito comunista clandestino.

[2] Gianluigi Manzi, nato nel 1914,  era un appassionato lettore di Thomas Mann, tanto da dedicargli la propria tesi di laurea, con la supervisione di Banfi. Il 17 maggio del 1935 Manzi ingerì una quantità notevole di barbiturici e si gettò nel vuoto.

[3] Remo Cantoni (Milano, 14 ottobre 1914 – Milano, 3 febbraio 1978), filosofo e accademico italiano. Insegnò filosofia morale in alcune università italiane. Allievo del maestro Antonio Banfi, fu uno dei maggiori esponenti della “Scuola di Milano”.

[4]Alberto Mondadori (Ostiglia8 dicembre 1914 – Venezia14 febbraio 1976), Figlio primogenito di Arnoldo Mondadori, fondatore dell’omonima casa editrice è stato un editoregiornalista e scrittore italiano.

[5] Enzo Paci (Monterado18 settembre 1911 – Milano21 luglio 1976), filosofo italiano, tra i più espressivi rappresentanti della fenomenologia e dell’esistenzialismo in Italia.

[6] Paolo Treves ( Milano il 27 luglio 1908 – Fregene (Roma) 4 agosto 1958), docente universitario, uomo politico, giornalista, scrittore. Nato da Claudio, esponente di spicco del socialismo riformista italiano, e da Olga Levi, donna colta proveniente dalla comunità ebraica di Venezia. Fu profondamente legato al fratello minore, Piero, nato nel 1911, che sarebbe divenuto un autorevole studioso di storia antica. Crebbe a stretto contatto con figure di primo piano per il socialismo e per l’antifascismo, come Filippo Turati e Anna Kuliscioff. Insieme con la famiglia fu perseguitato dal regime e costretto all’esilio.

[7] Vittorio Sereni (Luino (Varese), 27 luglio 1913- Milano, 10 febbraio 1983), poeta, scrittore, allievo di Antonio Banfi con cui si laureò in estetica. La sua poesia che prende le mosse dall’ermetismo è considerata la più alta del secondo Novecento.

[8] Tullio Gadenz (Fiera di Primiero, 1910-1945), poeta di area mitteleuropea, amico e importante confidente di Antonia Pozzi. 

[9]Flaubert – La formazione letteraria (1830-1865), è la tesi di laurea in letteratura francese che Antonia Pozzi discusse nel 1935 alla Statale di Milano .

[10] Aldous Huxley (1894 – 1963) scrisse romanzi visionari, appartenenti al genere della narrativa distopica di fantascienza. Huxley era un umanista e pacifista, ma si è anche interessato a temi spirituali come la parapsicologia e il misticismo filosofico. Scrisse Eyeless in Gaza nel 1936.

[11] Filosofo italiano (Milano 1914 – Illasi, Verona, 2008). Allievo di A. Banfi, si laureò in filosofia all’Università Statale di Milano. Professore di estetica all’Università di Pavia, e in seguito all’Università di Padova, della quale divenne in seguito prorettore e preside della facoltà di magistero. Successivamente passò all’Università di Milano, dove ricoprì l’incarico di professore di estetica e dove, nel 1990, divenne professore emerito. Studioso di filosofia dell’arte, ha saputo allargare gli orizzonti della ricerca operando una convergenza tra le scienze umane e le teorie estetiche contemporanee.

Bibliografia

  • A cura di  Onorina Dino e Graziella Bernabò “Ti scrivo dal mio vecchio tavolo… Lettere 1919-1938 di Antonia Pozzi”, Milano, Ancora, 2014
  • L’Antonia. Poesie, lettere e fotografie di Antonia Pozzi scelte e raccontate da Paolo Cognetti Milano, Adriano Salani Editore, 2021
  • Antonia Pozzi, “Parole”, tutte le poesie, a cura di Onorina Dino e Graziella Bernabò, Milano, Ancora, 2015.
  • Fulvio Papi, “L’infinita speranza di un ritorno”, sentieri di Antonia Pozzi, Milano, Mimesis 2013
  • Thomas Mann, “Tonio Kröger”, Milano, Bur, 2022.
  • Eugenio Brogna, “Le intermittenze del cuore”, Milano, Feltrinelli, 2003.

L’immagine di copertina è una foto di Antonia Pozzi presa da wikipedia