Marco Candida è autore di 17 romanzi e due raccolte di racconti. Il suo esordio è del 2007 con La mania per l'alfabeto, Sironi Editore. Nel 2010 è stato incluso nell'antologia americana Best European Fiction. Suoi racconti sono apparsi su importanti riviste americane e alcuni suoi scritti sono stati oggetto di tesi e corsi universitari. Per ulteriori informazioni consultare il suo profilo facebook

La cena dei notabili

di Marco Candida

Sebbene nel corso della cena nulla di tremendo vi accadde, ancora oggi al solo pensiero mi vengono i brividi. Fui invitato al banchetto dall’avvocato A. F. mentre mi trovavo nel circolo F. P. a L. Correva l’anno 20… Essendo considerato anch’io notabile della città, per via della mia fama, non certo per il censo, quantunque la mia fama mi garantisse un reddito consistente, non potei rifiutare, anzitutto per gratitudine, l’invito.

La cena si svolgeva nella sala principale di un castello. Il castello era un’eredità del notaio R.Z. e si trovava su un colle piuttosto isolato a circa una mezz’ora di macchina da L. La tavolata di persone invitate da R.Z. era composta interamente da notabili. Io ero lì, come detto, in qualità di scrittore. E c’erano altri sette invitati, pertanto arrivandosi a otto. Ancorché all’interno di un castello antico, di pianta ottagonale, come venne da R.Z. meticolosamente spiegato, la sala da pranzo non aveva nulla di ermetico né tantomeno sinistro. Lampadari d’aspetto moderno pendevano dal soffitto e lampade a muro si notavano qua e là agli angoli della stanza o accanto a poltrone e divani. La carta da parati era elegante, ma non vecchio stile. Sedie e divani erano moderni e pulitissimi, dai cuscini di colore vivace. Anche il tavolo da pranzo non era antico, ma in linea con il resto del mobilio. Un tavolo moderno di colore verde acqua. Antico, almeno in quella stanza, era solo l’involucro, il castello. La temperatura era gradevole grazie a termosifoni coperti da drappi e panni ricamati. I quadri alle pareti rappresentavano scene dal sapore esoterico (queste sì) tratte da antichi miti d’età grecolatina. Era tutto pulito, nuovo e colorato; e più che in un castello medievale risalente al 1300 (come ebbe a informarci R.Z.) pareva ci trovassimo in un negozio di arredamenti della catena Poltronesofà.

Una volta preso posto a tavola subito un paio di camerieri vennero a versarci acqua nei bicchieri grandi e vino bianco (eccetto B.S., che preferiva rosso) nei piccoli. Anche qui, riguardo i camerieri, non bisogna immaginare chissà che. Due ragazzi giovani, un ragazzo e una ragazza. Vestiti con camicie bianche e pantaloni neri. Eleganti, belli, presi dalle migliori scuole alberghiere, ma non chissà che. Il clima era rilassato. Ognuno sembrava trovarsi a suo agio nei frac e nei vestiti di taglio sartoriale decorati con stemmi, sfoggiando alle dita anelli dai simboli misteriosi. Eppure, tra gli invitati aleggiava anche una certa serietà. Non dirò gravosità, ma serietà certamente sì. Nondimeno, si chiacchierava, cercando di nascondere la seriosità, facendo commenti sui quadri appesi alle pareti o più genericamente sul castello. Ciascuno conosceva l’altro di nome o per averci avuto in passato a che fare. Anch’io conoscevo ed ero conosciuto, e un medico chirurgo attaccò con la più classica tiritera su quanto pure lui avrebbe voluto pubblicare un libro (non un romanzo, bensì un saggio), ma di non sapere come fare per ottenere questo risultato. Più avanti (quando gli arrivò il secondo fumante sotto il naso) mi confessò di aver ricevuta una proposta di pubblicazione in cambio, però, dell’esborso di una enorme quantità di denaro. Classica tiritera.

Prima che la cena iniziasse, R.Z. si prese qualche minuto per ringraziare i convenuti e per ringraziare me in particolare di aver accettato l’invito (R.Z., però, utilizzò il verbo “aderire”) alla cena, essendo io nuovo a quella iniziativa. R.Z. chiese a ogni membro della tavolata di pronunciare a voce alta a quale società appartenesse, cosa che feci anch’io senza alcun problema. R.Z. terminò il suo discorso fingendo di rivolgersi a me, il nuovo venuto, e anche tra i membri più giovani della tavolata, per spiegare lo scopo di quelle periodiche cene al castello. In poche parole, maggiore iterazione tra società differenti.

Al termine di queste poche parole, in effetti, mi ritrovai sconvolto e pieno di terrore. Infatti, alcuni membri della tavolata non avevano dichiarate appartenenze all’acqua di rosa come le mie o come quelle dell’avvocato A.F., il quale mi aveva, con massimo candore, tirato dentro la serata. Aver udite quelle fratellanze rappresentava per me quasi una sentenza di morte. Cominciai pertanto a sudare freddo, senza capacitarmi di quanto fossi stato stupido ad accettare quell’invito. Il mio ruolo, in quel contesto, mi fu improvvisamente anche fin troppo chiaro. Sarei finito squartato e fatto arrosto. Chi lo sa? Magari, non solo il medico chirurgo, ma anche B.Q. e A.F. (e perché non L.G. e S.N.) e ciascun membro dell’esimia tavolata aveva un qualche libro inedito nel cassetto e bramava pubblicarlo. Ritenevano forse mangiarmi la via maestra per assumere in sé stessi la mia capacità. Tremante di angoscia e fremente di rabbia, cercando comunque di trattenermi e far buon viso a un gioco alquanto indecifrabile, comunicai sottovoce ad A.F., seduto al tavolo accanto a me, il mio chiamiamolo così sgomento. A.F. sorrise con fare affabile e paternalista esortandomi a non preoccuparmi. Nulla mi sarebbe accaduto.

“Basta mantenere il massimo riserbo, ma questo non c’è nemmeno bisogno di dirlo” aggiunse con sorriso sordido e beffardo.

Inghiottii il rospo senza battere ciglio. Mi venne in mente una serata tra amici, svoltasi a casa mia, nella quale per gioco ci mettemmo lì fingendo di essere sullo yacht Britannia ancorato nelle acque del Porto di Civitavecchia e di configurare l’agenda setting dei prossimi anni riguardante però non il futuro dell’Europa e dell’Italia, bensì il destino della città di L. Fu tutto soltanto un gioco, ma per qualche giorno alcuni amici lo portarono avanti facendo riferimento all’agenda setting stilata nel corso di quel rendez-vous irrorato, va detto, da flussi torrenziali di gin e limoncello. Poteva darsi, pertanto, quell’iniziativa avesse lo stesso spirito; e se non lo stesso, uno spirito simile. Ciascun membro della tavolata fingeva di essere membro di una società segreta: fingeva e basta. Per gioco.

Una cosa è sicura: mi fu molto difficile sostenere conversazioni con i commensali seduti attorno a quel tavolo, malgrado su un argomento così facile per me come i miei libri. Emettevo le parole come se sputassi sassolini. Uno alla volta. Uno alla volta. Altra cosa difficile da mandar giù fu di sentire il notabile seduto davanti a me (architetto M.C.) storpiar nomi di alcuni dei miei miti musicali di sempre. Anche lì. Forse, l’architetto ci faceva; ma poteva darsi di no. Così, cercavo di non badare all’esimio arch. M.C. mentre pronunciava profanazioni del peso di “Paul Lennon” e “John McCartney” o quando lo udii pronunciare distintamente “Jack Michaelson” al posto di “Michael Jackson”. Gettavo occhiate qua e là notando l’indifferenza generale degli invitati a quelle storpiature. Mi misi a prestare orecchio ad altri conversari per cercare di capire se anche altri commensali storpiassero nomi a quel modo e sì, in effetti, udii l’endocrinologo S.P. dire “Michael Lemmon” e “Jack Douglas” al posto di “Jack Lemmon” e “Michael Douglas” mentre magnificava con fervore il film “Sindrome Cinese” individuando in quella pellicola il canovaccio occulto di molte cose a venire della nostra società.

Mi rintanai nel mio piatto, mangiandomi sommessamente la mia minestra salata e sentendomi adesso accerchiato. Borghesotti provinciali riccastri e annoiati capaci solo di storpiare nomi. Anche il giudice T.M. storpiò un nome. Ma lì forse per burla. Diceva “Maria Maddalena” riferendosi chiaramente a “Madonna”. P.F., invece, continuava a ripetere e ripetere “Vittorio Tognazzi” e “Ugo Gassman”. Prese a girarmi il capo. Volevo solo uscire da lì. Non mi alzai. Avevo timore che alzandomi per andare in bagno avrei fatto notare il mio disappunto, lo sconcerto per quella situazione da weird tale buona per un sito Internet di serie B. Resistetti anche quando mi parve di sentire chi era in dialogo con P.F. (quello di “Vittorio Tognazzi” e “Ugo Gassman”) rispondere con “Renato Sordi” e “Christian Abatantuono”. Stavo sognando. Era un incubo. Un incubo kafkiano scritto da Maupassant e letto ad alta voce da Shirley Jackson. Ma quando l’arch. M.C. (quello di “Paul Lennon” e “John McCartney”) tornò alla carica sollecitandomi direttamente un’opinione su Le notti di Cabiria di “Luchino Fellini” non ci vidi più dalla rabbia e dallo sconcerto e partii all’attacco:

“Lei non sa nemmeno di che cosa sta parlando!”

“Oh, in questo si sbaglia! Si sbaglia! Conosco Le notti di Cabiria, per aver letto Salammbò di August Flaubert”

Ebbi sulla punta della lingua la parola per correggerlo, ma preferii limitarmi a pronunciare correttamente il nome sperando M.C. si accorgesse da solo dell’errore e seguisse il mio esempio. “Ah, su Gustave Flaubert, architetto, mi trova in palla. Magari non tutto tutto Flaubert. Ma riguardo Salammbò sì”

“Il miglior libro di August Flaubert. Senza dubbio”

“Sono d’accordo. Assolutamente. Prova ne sia nessuno, o quasi nessuno, ne fa mai, o quasi mai, menzione – dissi io ignorando le questioni relative alle storpiature dei nomi e concentrandomi adesso su un argomento di mio interesse – Spazza via qualsiasi Trono di Spade o Romulus in termini di bellezza onirica delle ambientazioni esotiche”. Il vinello a tavola picchiava un poco, e io non badavo troppo al modo di esprimermi. “Spazza via qualsiasi libro, anzi, a ben pensarci. Quasi un dizionario delle immagini più belle, luccicanti e di fantasia uomo (donna non so) possa mai inventare. Una collezione. Una puntigliosa opera di patchwork. Ed è così aurea, la prosa! Così immaginifica e cinematografica, poi. Mi chiedo come abbia potuto, Flaubert, nei cinque anni di stesura del romanzo, tra il 1857 e il 1862, immaginarsi cose come quelle. Da dove venga quella vivezza”

“Un ispirato. Senza dubbio in forte connessione”

“Senza dubbio, sì. Ma parte del mio mestiere è capire anche come uno scrittore riesca a essere migliore di altri scrittori; e ancora mi chiedo a quale registro akashico possa Gustave Flaubert aver avuto accesso”

“Magari è stato l’antico dio fenicio di cui si parla in Salammbò a invaderlo. Deve aver tratto forza e ispirazione dal soggetto stesso della sua opera”

“Baal-Moloch”

“Meglio non pronunciare quel nome a voce troppo alta”

Quell’osservazione arrivò alquanto inaspettata e servì a giustificare, almeno in parte, le storpiature di nomi di personaggi famosi da me udite fin lì. Ma nel mettere a posto questo elemento discordante all’interno di quel lussuoso quadretto non privo di elementi angoscianti, ecco subito arrivarne un altro a sparigliare le carte e a mettermi a disagio. Sommamente a disagio. Mentre a me, infatti, i camerieri servirono gli antipasti, a M.C. la ragazza portò una tazzina di caffè con cioccolatino su un lato del piattino e un paio di bustine di zucchero di canna. Sicché, mentre io infilzavo una fetta di salame con la forchetta, M.C. apriva una bustina di zucchero e la versava nel caffè girandolo poi con un cucchiaino. Stetti per chiedergli il perché di quella bizzarria, ma dovetti stopparmi quando mi resi conto che la persona seduta accanto a M.C. ossia S.P. aveva sotto il naso un arrosto con patate bello fumante e lo stava pure mangiando alacremente con coltello e forchetta mentre parlava con A.F. storpiando ogni tanto nomi di personaggi famosi. Anche l’avvocato A.F. aveva davanti una portata diversa dalla mia. Non era partito dagli antipasti, ma stava gustandosi un piatto di pastasciutta al pomodoro molto rossa e invitante. Notai queste cose nel giro di pochi attimi e sentii il disagio sbocciarmi dentro come una pianta infestante; pertanto, cercai di soffocarlo, quel disagio, evitando domande sulla stranezza relativa alle portate diverse servite a ogni commensale (ogni notabile seduto intorno a quel tavolo, infatti, era partito da un piatto differente: R.Z. dalla zuppa inglese, T.M. dal sorbetto, B.Q. dall’ammazzacaffè…) rituffandomi nell’argomento di mio interesse. 

Salammbò. Gustave Flaubert.

“Nell’edizione Mammuth in mio possesso si parla di Salammbò in termini di divertissement satirico – ripresi – Ma quel libro è il più serio e importante di Flaubert. Altro che divertissement! Oltre a essere una delle novelle più alte, in termini di bellezza, mai scritte. Sa, architetto, se ne parlo in termini così entusiastici è perché Salammbò ha aggiunto il tassello definitivo, ritengo, concernente la mia personale comprensione circa l’importanza avuta dall’Avvento di Cristo nella storia umana”

“Anche quell’altra parola andrei cauto a pronunciarla così a voce alta, specialmente tra queste mura”

“Oh, andiamo. Mi segua e basta. Stia a sentire, architetto. Stia a sentire. Matho nell’impazzare della battaglia, mentre affetta guerrieri e guerrieri, squarta elefanti, urla e squarcia carni a spada tratta, si rivolge a Baal-Moloch per trarre energia, forza, coraggio per le sue imprese. Capisce quello che fa Matho? Si rivolge a un Dio. A Baal-Moloch. Ora, supponiamo di sostituire a Matho un guerriero dotato di fede nella parola di Cristo. Davvero potremmo accettare un cristiano invocare Cristo per avere energie necessarie a compiere una strage nel corso di una battaglia? Io, da narratore, dico suonerebbe alquanto stridente. Probabilmente, un simile cristiano invocherebbe San Michele Arcangelo. Di sicuro, non Cristo. Ma perché Flaubert ha voluto dedicare un intero romanzo a questa divinità? Una divinità così distante. Una divinità così esotica. Perché appuntarvi in modo così fulgido la propria attenzione?”

“Il perché mi sembra chiaro. L’appartenenza da parte di August Flaubert a fratellanze nere. Un pegno da pagare”

Arrivò il cameriere a portar via la tazzina di caffè e dopo poco arrivò la ragazza con un vassoio di frutta. Lanciai un’occhiata a chi avevo visto partire dall’ammazzacaffè e lo notai ora con una tazzina di caffè fumante sotto il naso. Chi invece era partito dal secondo si trovava adesso alle prese o con la pastasciutta al pomodoro oppure con la zuppa inglese. Provai una punta di nausea nel veder consumare il dolce mentre il mio palato assaporava pietanze salate. Rimasi in stato ancor più confusionale e più forte si fece in me l’impressione si stare solo sognando. In più, il vino bianco picchiava e dovevo perciò stare all’occhio nel non mettermi a sghignazzare come mi capitava da piccino a contatto con la seriosità un po’ comica ai miei occhi ancora giovani delle liturgie della Santa Messa. Mi rifugiai pertanto, ancora una volta, nella conversazione con il mio interlocutore. M.C.

“Mmm, sì. Certo. Possibile possibile – dissi in tono pensoso – Ma forse Flaubert si dedicò alle vicende cartaginesi per farci rendere conto quale fosse la funzione originaria delle divinità demoniche da essi adorate. Un intero popolo venerava un dio satanico edificando per esso templi costruiti seguendo regole di geometria sacra. Non è cosa da poco. Come mai? La mia risposta è: perché era un popolo di guerrieri. Se vai in guerra, hai bisogno di un dio gramo e spietato, al quale votarti. Perché il lavoro della guerra è un lavoro sporco. La guerra è sporcizia e ci vuole un dio di merda per quella roba. Dunque, “Salammbò” esattamente questo mostra. Dei buoni servono a opere buone e dei cattivi a opere cattive. Un poco come succede con il fenomeno mafioso. La mafia si occupa di attività illegali e poco pulite. Se vuoi un grammo di coca è alle organizzazioni mafiose che devi rivolgerti. Se vuoi intrallazzarti con una bella donna a pagamento, c’è la mafia lì per soddisfarti. Moloch è il dio terribile al quale rivolgersi per disfarsi delle maternità indesiderate, anche se mi dà la nausea il solo pensarci. Ancora oggi Moloch è simbolo di Male Assoluto e Indicibile. Ciò è talmente vero che se si dà uno sguardo alle pagine Wikipedia dedicate a Salammbò, architetto, nulla si trova relativo a Moloch. Non viene menzionato. Ignorato del tutto. Invece, in Salammbò di Flaubert quella è la parte più incandescente. Straccia qualsiasi romanzo dell’orrore.

Sì, lasci le dica, architetto.

Lasci le dica” dissi.

“Salammbò – attaccai – è ambientato a Cartagine ai tempi della cosiddetta guerra dei mercenari dopo la fine della prima guerra punica tra il 240 e il 238 a.C. Si raccontano nientemeno le battaglie tra eserciti cartaginesi e mercenari contrapposti. Almicare Barca (padre di Annibale; chissà che Hannibal Lecter del Silenzio degli Innocenti non si chiami così in omaggio a un condottiero adoratore di Moloch) per riuscire a vincere la guerra fece questa mossa: donò in sposa la sua terzogenita Salammbò a Narr’Havas. Narr’Havas infatti era un condottiero la cui alleanza era per Almicare Barca fondamentale; ma questi decise di schierarsi con gli eserciti mercenari capeggiati dai quarantottisti Matho e Spendio. Per rovesciare le sorti della guerra Almicare si giocò la carta della figlia e Narr’Havas accettò. Il problema è che Salammbò non era una semplice fanciulla. Era sacerdotessa del tempio di una delle dee più importanti del pantheon cartaginese ovvero Tanit. Sì, e nel romanzo abbiamo due templi: quello di Tanit e quello di Baal-Moloch.  Matho e Spendio sottraggono dal tempio di Tanit lo zaimph, ovvero il velo sacro, un oggetto magico il cui potere è in grado di far vincere la guerra ai mercenari, Salammbò viene inviata a recuperarlo e concedendosi a Matho riesce effettivamente a portare a buon fine la missione.

Poi, al termine del romanzo, accade qualcosa di misterioso.

Per avere la meglio sui mercenari, i Cartaginesi fanno qualcosa di terrificante: tirano fuori dal tempio la statua bronzea del Moloch e in un rito di massa assolutamente folle e delirante sacrificano a Baal-Moloch tutti i bambini del loro stesso popolo. Gli eserciti avversari rimangono sconvolti. I Cartaginesi vincono la guerra. Matho viene catturato, torturato a morte e ucciso. Salammbò è sul punto di sposare Narr’Havas secondo gli accordi presi con Almicare Barca, ma avviene qualcosa di estremamente misterioso. Nell’assistere alla tortura efferatissima inflitta a Matho, a Salammbò prende il crepacuore e schiatta. Il finale è piuttosto misterioso perché tra Matho e Salammbò non sembra esserci un legame così forte da giustificare una reazione emotiva tanto radicale da parte della fanciulla. E tuttavia, proprio questo può far riflettere sul significato intrinseco della vicenda. Come detto, nel corso della battaglia Matho si sente come posseduto da Baal-Moloch, e per questo si comporta in modo efferato. Ma c’è un dettaglio: Salammbò si chiama, in realtà, Shalambaal. Shalambaal è uno dei nomi della dea Astarte e significa “Immagine di Baal”. Perciò abbiamo Shalambaal e Baal-Moloch. Salammbò è un’immagine di Baal. Un’emanazione del Moloch. Un’emanazione di Male e Crudeltà. Dunque, Matho è invaso sì da Baal-Moloch, ma anche da Shalam-Baal; e nel morire Matho si porta via con sé questa “Immagine di Baal”. Dunque, un lieto fine c’è, in fondo, in questo romanzo infernale di Gustave Flaubert: un trionfo, sia pure in extremis, del Bene sul Male. Grazie alla forza dell’amore Matho vince sul Baal-Moloch, portandosi via Shalambaal”

“Ma questo Moloch, questo cazzo di Moloch, era così malvagio?”

“Vuole scherzare, architetto! Certo che è malvagio! Moloch è dio d’origine cananea. Risiedeva nella Geenna (ossia una fornace). Moloch e la Geenna diventeranno, nella tradizione giudaica, Satana e l’Inferno. Venivano sacrificati bambini (dai Re di Giuda Acaz e Manasse) a questo demone terrificante al fine di pacificarlo. In quei bei tempi andati si perpetravano gesti a dir poco orribili. Fino a quando non arrivò YHWH (e il re Giosia) a far cessare quello schifo. Ma Moloch si reincarnò in Grecia nella figura del Minotauro. Moloch e il Minotuaro sono la stessa entità.

E questo ci porta, con un bel salto, architetto, a Shining di Stanley Kubrik. In un’inquadratura di Shining, alle spalle di Jack Torrance (Jack Nicholson) appare un poster con la scritta “Monarch” e dietro l’icona di un “Moloch” e più tardi Jack rincorrerà il figlioletto nel labirinto come il Minotauro faceva con i sette ragazzi e le sette ragazze offertigli da Atene in sacrificio per placarlo. Jack Torrance è Moloch e Minotauro: in quanto due figure mitologiche speculari. Non solo, ma c’è da considerarsi “Monarch”. Come noto, in Shining, “Monarch” farebbe riferimento alla prosecuzione del progetto di mind-control MKultra, e quel nome deriva, secondo quanto comunemente sostenuto, dall’immagine della farfalla monarca. Ma il termine “Monarch” non assomiglia dannatamente anche a “Moloch”? Io dico che quelli dei reparti deviati della Cia chiamarono “Monarch” lo spin-off del progetto MKUltra non in ossequio a una simpatica farfalla, ma perché in codice “Monarch” significa “Moloch”. Da sempre. Da sempre, architetto”

“Lei ha bevuto troppo”

“Ho bevuto troppo, architetto? Ho bevuto troppo? Io non credo. Io non credo proprio. Il Potere è una merda. Il Potere è una merda. Questo le sto dicendo. Come la parola “democrazia” contiene al suo interno “demos”, che vorrà anche dire “popolo”, ma assomiglia maledettamente alla parola “daimon”, demone, e pertanto “democrazia” significa, in codice, “potere nelle mani del demone”; allo stesso modo “monarchia” non ha mai realmente significato “potere nelle mani del singolo”, ma nasconde un’idea di piramide oscura, fitta di segreti arcani, al vertice della quale sta il Monarca ossia il rappresentante di Moloch sulla Terra”

“Non mi ci raccapezzo. Tutto questo lo direbbe Kubrick? O lo direbbe Flaubert? Perché se lo direbb…”

“Tutto questo, architetto, lo sto dicendo io, partendo, e va bene, lo ammetto, da una superba analisi eseguita da Giorgio Di Salvo in un suo sparuto video su Youtube. Ma ciò che nel video Di Salvo non dice è che Shining è anche, e soprattutto, il contenitore di segreti inconfessabili: dall’allunaggio mai avvenuto, a un’oscura, tragica vicenda che scosse il mondo di Hollywood in quel periodo e che diventò ossessione per Kubrik al punto di farne oggetto anche di un altro suo lavoro… Arancia Meccanica, la scena dell’invasione dei “drughi” a casa dello scrittore)…”

“Lei delira. Non mi ci raccapezzo…”

“Ma, per tornare al romanzo di Flaubert, ed eccoci al punto, poi è arrivato Gesù Cristo”

“Meglio non pronunciare trop…”

“Mi lasci terminare, architetto. Mi lasci dire – feci io ormai partito per la tangente – L’annuncio di Gesù Cristo è la “buona notizia”. E questa “buona notizia” di Gesù è che Dio è amore e ci vuole bene. Ci perdona i peccati ed è sempre dentro noi portandoci ad agire per il bene e per l’amore. Ecco cosa vuol dire l’espressione “L’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. Cristo non toglie effettivamente i peccati dal mondo. Dopo la morte e la resurrezione di Cristo e la discesa dello Spirito Santo l’uomo ha ancora la possibilità di peccare esattamente come prima. Ma Gesù ha affermato come unica e vera una religione d’amore e di bene verso il prossimo e seguendola non è più possibile peccare. L’agnello di Dio toglie i peccati dal mondo. Ora capiamo quanto il significato di questa espressione sia letterale. Se segui Gesù, non puoi peccare. Non ne hai più alcuna possibilità. L’Avvento di Gesù e del Monoteismo giudaico-cristiano ha spazzato definitivamente via tutti i falsi idoli come Moloch. Non è un dio un dio che ti assiste nel compiere il male. Un dio contrario alla vita. Se non esistono più dei ricolmi d’odio per l’uomo, allora vuol dire che è l’Io dell’uomo a essere responsabile di ogni azione malvagia. Non c’è più nessun Moloch a possederlo e al cospetto del quale giustificarsi e sentirsi addirittura valorosi. Se esiste un Dio solo e questo Dio è Verità e Amore, allora le uniche azioni possibili per l’uomo saranno quelle compiute secondo Verità e Amore al cospetto di Dio”

“Belle parole. Ma le Guerre Sante…”

“Non sono mai state Sante. Lo stesso Flaubert ci viene in soccorso a proposito. Infatti, Gustave Flaubert non si limitò a scrivere un solo romanzo d’ambientazione esotica, ma scrisse anche altri racconti simili. Alternava romanzi d’ambientazione realistica a romanzi esotici e di forte valenza esoterica. Gli permettevano massima libertà espressiva, senza dover rispondere troppo a etichetta e moralità. Il romanzo Madame Bovary fu messo sotto processo a causa degli atteggiamenti assolutamente gratuiti di Emma Bovary nei confronti del suo povero marito. Oggi in pornografia, per Madame Bovary, parleremmo di genere cuckold, se non peggio – mi scuso, ma da quando una mia ex mi ha beccato con le mani nel sacco, non mi sono più azzardato a prendere quel barattolo di marmellata dalla credenza, e così non sono un esperto di generi di film a luci rosse. D’altra parte, va riconosciuto, a parziale difesa di Flaubert, quanto la pornografia sia fondamento assoluto della narrativa, con buona pace di Pablo Neruda, Daniel Pennac, Italo Calvino e ben poche altre brave persone – benché non esenti, specie nel caso di Calvino, dall’appartenere a fratellanze.

Prendiamo William Faulkner. Senza nemmeno soffermarci su “Requiem per una monaca”, nella quale opera teatrale-romanzo una povera donna nera viene presa a male parole e trattata come una merda per tutto il romanzo dai suoi padroni bianchi, i quali la vogliono incolpare senza troppi ah o bah dell’omicidio di un neonato (eseguito anche qui per ragioni oscure dagli stessi familiari del bimbo), un romanzo apparentemente impegnato e nella norma come “La paga del soldato” raggiunge l’apice drammaturgico allorché la signora del gruppo dà appuntamento ad entrambi i suoi corteggiatori – classica trama da film a luci rosse.

Ma vogliamo parlare di Igmar Bergman? Specializzato in drammi domestici incentrati su famiglie disfuzionali, “Il Posto Delle Fragole” non parla affatto di un burbero professore, ma di un anziano professore di talento, e di fama, odiato e disprezzato, più o meno per nessuna ragione al mondo, dalla sua eterea famiglia: e viene costretto ad assistere, nel posto delle fragole, a incontri scandalosi. Eppure, la mente di noi fruitori non accetta questo stato di cose: fino al punto di non vederlo. Non vede il succedersi dei fatti nudi, così come sono, e provvede ad aggiustare la storia mediante l’utilizzo di più comprensibili luoghi comuni.

Pornografia, invece.

Atrocità.

Vede, architetto, per parafrasare Leonardo Sciascia, la pornografia non è tanto la pornografia. Quanto, piuttosto, le relazioni sussistenti tra i personaggi. Gradi di parentela. Promiscuità assortite. Spregiudicatezza. Una volta, architetto, mi chiesero di fare un’intervista al nostro più importante attore a luci rosse. Preparai una lista di quesiti tra i quali: “Come concilia l’essere padre di famiglia e il fare film dove figliastre e sorellastre e matrigne e patrigni se la spassano tutti insieme, chiamandosi nel corso dell’atto mammina, papino, zietto e zietta? Accetterebbe dai suoi familiari gli stessi comportamenti?”. Forse fu per quella domanda (ma io, in realtà, stavo parlando a nuora; non mi interessava colpire l’attore) che mi sostituirono con altri. Dunque, la pornografia è parte integrante della letteratura. Intesa come trasgressione da ogni regola. E parlando di Flaubert, solo così sono in grado di spiegarmi Celine. Libertà. Perché seguire le convenzioni è difficile. Libertà”

“Che c’entra questo con le Guerre Sante?”

“Flaubert scrisse un racconto su San Giuliano Ospitaliere. Ambientato nel Medio-Evo San Giuliano prima di diventare Santo era uomo sadico e malvagio: memorabile la scena del massacro dei cervi assiepati in enorme quantità in una vallata – e di forte valenza simbolico-esoterica. Cosa voleva dirci Flaubert raccontandoci questo episodio nella vita di un Santo? Tante cose. Prima dell’incontro con Dio un uomo può essere barbaro e primitivo, lasciarsi andare agli istinti più animaleschi e primevi. Quando Dio t’invade, quella stessa persona può purificarsi al punto di diventare Santa. Non c’è spazio per sentimenti d’odio e di conflitto. Non in nome di Cristo, almeno. Responsabile di gesti d’odio altri non è se non l’uomo. Dell’uomo la responsabilità di questi gesti. Non di un dio o di uno spirito malvagio. Anche perché c’è lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo va coltivato. Esercitato. Risvegliato. Lo Spirito Santo è inclinazione all’Amore. Lo Spirito Santo dentro noi. Lo Spirito Santo che Gesù ci ha donato e che ci protegge dalle malattie dell’anima – secondo Rudolph Steiner nel saggio “Buddha e Cristo” Gesù guariva l’anima dei malati e non le malattie. Lo Spirito Santo tiene lontani i demoni. Lo Spirito Santo è insomma una sorta di esorcismo permanente. Uno scudo contro i demoni. Quello Spirito abbiamo messo a dormire, nella nostra società arimanica e materialistica. Quello Spirito elementi luciferici tengono sotto scacco. Quello Spirito dentro ognuno di noi. Il risveglio della Coscienza è il risveglio della Coscienza del Bene all’interno della Parola di Nostro Signore Gesù Cristo. La Coscienza del Bene deve risvegliarsi e mettere a dormire la Coscienza del Male”

“Capisco” disse M.C. ormai accettando i miei messaggi.

Dovevo aver alzata la voce di parecchi decibel. Terminato di sproloquiare, mi accorsi degli sguardi degli altri commensali su di me e del silenzio aleggiante nella sala da pranzo all’interno del castello. C’era spazio per la Parola di Dio all’interno di una riunione di membri facenti parte di società segrete, alcune delle quali immensamente oscure? Terminammo la cena, per me svoltasi, per fortuna, dall’antipasto al caffè senza sovvertire l’ordine delle portate a casaccio o secondo schemi incomprensibili, e almeno un risultato con il mio dire lo ottenni: nessuno per quella sera storpiò più i nomi di John Lennon, Paul McCartney, Michael Jackson, Madonna, Jack Lemmon e Michael Douglas. Né degli attori italiani. Né, grazie al Cielo, di nessun altro. 

Non mi invitarono più.