Laureato in Storia Contemporanea con 110 e Lode all’Università di Pisa (1994), dottore di Ricerca e insegnante di Storia Contemporanea presso l’Universidad Autónoma de Madrid (1999-2010) e Visiting Teacher presso la New York University (2003). Autore di vari saggi storici sulla storia economica del franchismo e della transizione democratica, tutti pubblicati in Spagna. In campo letterario, l’autore tiene, dal 2013, un diario che è risultato finalista, nel 2016, del premio Saverio Tutino, indetto dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Ha pubblicato nel 2018, per i tipi di Catartica Edizioni, il romanzo Il corso dei destini incrociati; una prima versione del manoscritto è stata finalista, nel 2017, del premio Guido Morselli, organizzato con il patrocinio e la collaborazione del Comune di Varese e del Comune di Gavirate. Il suo ultimo libro è Un male urbano, Felici Editori

FORTUNA E FORTUNE

Di Marcello Caprarella

“…Ora sentite, che questa voglio dirvela! Alla fin fine la mia roba ce l’ho…”

G. Verga, I Malavoglia

L’8839 è il numero di lotteria spagnola al quale sono abbonato da dieci anni. Lo compro nella ricevitoria della calle Reina Victoria, qui a Madrid, dalle parti di casa mia. Non vince mai. Gli stessi rivenditori dicono che non è una cosa normale. Nemmeno ieri, 6 gennaio, giorno della lotteria del Niño, che è la seconda per importanza, dopo quella di Natale. La formula è la stessa: centomila numeri, dallo 0 al 99.999, venduti in diverse serie e frazioni. Ogni serie, composta da dieci biglietti, costa duecento euro. La frazione, detta anche décimo, costa 20 euro, ed è quella che gioco io. Rispetto alla lotteria di Natale, la vincita è teoricamente più probabile, visto che, oltre al primo, secondo e terzo premio, che oscillano tra i duecentomila e i settantacinquemila euro, si assegnano premi di consolazione ai décimos il cui ultimo numero coincide con quello del numero del primo premio e anche a quelli il cui ultimo numero coincide con due unità estratte. Per esempio, ieri ha vinto l’8354, per cui tutti i biglietti la cui ultima cifra era il 4 hanno vinto 20 euro. E, per estrazione, hanno ottenuto il reintegro, cioè il rimborso, anche quelli che finivano con il 2 e il 5. Alla mancata uscita dell’8839 completo bisognerà rassegnarsi. Il problema è che non esce mai, o quasi, nemmeno il 9 finale. Solo una volta, a mia memoria. Tre anni fa. Giocavo in società con mio cugino Andrea, che era venuto a trascorrere le feste da noi. Avevamo comprato una serie intera da dieci décimos. Tra le unità finali rimborsate ci fu anche il 9. Vincita di 200 euro. Mio cugino comprò con la parte che gli spettava un orologio scadente, un Festina. Appena uscimmo dal negozio, che non era quello del mio orologiaio solito, il meccanismo iniziò a fare le bizze e a incepparsi. Tornammo indietro e il proprietario del negozio ci disse che era una cosa normale, fisiologica, che il meccanismo si doveva assestare e che bisognava avare un po’ di pazienza, eccheccazzo, no!? È la stessa cosa che dicono i responsabili della ditta che ci ha installato le valvole sui termosifoni quando ci lamentiamo della rumorosità del riscaldamento. Comunque, dopo un paio di giorni, il Festina di mio cugino smise definitivamente di battere, come il cuore di uno che ha subito un trapianto scadente, e ne certificammo la defunzione ufficiale. Io fui più oculato e mi spesi i cento euro in aperitivi al bar Sotoverde. Voglio dire che l’8839 porta sfiga. Però, con la testardaggine e la coerenza dei falliti, continuerò ad acquistarlo. Edurne, mia moglie, mi rimprovera, come se la sfortuna fosse una cosa che dipende da uno, un lavoro. “Giochi da anni e non hai mai portato un soldo a casa”, mi diceva ieri, mentre guardavamo il telegiornale spagnolo, la cui apertura era riservata ai vincitori del primo premio. L’8354 vincente era stato venduto dal proprietario di un bar. Qui usa molto. Il bar acquista la serie (o più di una) e la rivende ai clienti sotto forma di décimos, senza maggiorazione di prezzo. Lo fa pure il mio bar, il Sotoverde. Mai vinto, nemmeno con il loro numero, che pure compro, prima di Natale e alla Befana. Quest’anno, in entrambe le occasioni, era uno splendido 20518, nel quale, sobillato da Cristóbal, cameriere del turno mattutino e sognatore implacabile lui pure, avevo molte speranze. Niente.  Né il 22 dicembre, né ieri.
L’estrazione del Niño ha luogo alle 13. I principali telegiornali dei vari canali nazionali iniziano alle 15, che qui in Spagna è ora di pranzo. La conseguenza è che nei servizi di apertura si vedono delle scene pazzesche, con gente ubriaca a stappare bottiglie di spumante e a baciare il barista benefattore. Si tratta quasi sempre di poveri diavoli, barista compreso. I ricchi non si farebbero mai riprendere in quella gioia scomposta. Ieri, in particolare, mi ha colpito una signora alla quale mancavano diversi denti. Aveva vinto 50.000 euro, dato che il décimo lo divideva con delle amiche. I figli, moltissimi, la circondavano festanti e la obbligavano a bere da una bottiglia. Ha detto una frase geniale: “Non ci aggiusta la vita, ma la bocca sì!”. Riferendosi alla vincita, non allo spumante, credo. Per stuzzicare un po’ mia moglie e restituirle la punzecchiatura sulla sfortuna, le dicevo: “Ma ci pensi se vincesse un numero venduto nel “nostro” bar di Lasarte? Per me sarebbe l’unica possibilità, grazie alla televisione, di vedere come è il locale. In fondo, mi sento come i veri ricchi, che nemmeno conoscono di persona tutti i propri beni…”. Volevo strapparle una risata, ma ho ottenuto l’effetto contrario. Quando batto su questo tasto, mia moglie si intristisce. Io, però, da uomo pratico, i miei conti me li sono fatti. Dunque, ricapitoliamo. Il bar di Lasarte, provincia di San Sebastián, nei Paesi Baschi, è un disastro. Mia suocera si chiama Maialen, giuro. È una contrazione di María Elena. Sono nomi baschi. Nella famiglia di mia moglie ci tengono molto a queste cose.  Il bar, dicevo. Mia suocera l’ha dato in gestione a degli sballati del posto. Un mese pagano l’affitto, tre mesi no. Poi, magari, pagano due mesi di colpo, ma i successivi quattro accampano scuse, ché c’è la crisi. La crisi, a Lasarte, c’è sempre, se è per quello. È un paese della campagna basca deindustrializzata e terziarizzata a capocchia e a tappe forzate. Un deserto postmetallurgico. Ci sono rimasti solo gli anziani, la Guardia Civil e gli impiegati statali o della regione autonoma basca. Ci credo che non si incassa molto, col bar. Quando ancora vedevo mia suocera, avevo proposto la soluzione. E ancora la propongo, ciclicamente, a mia moglie: “Ci vado io a gestire il bar. Duro dieci giorni, ma di gloria assoluta, fino ad esaurimento di scorte alcoliche. Offro da bere a tutto il paese, e poi liquido il locale. È una fine dignitosa, no?”. Mia moglie piange, quando espongo questi piani. Ma andiamo avanti. I garage. Sono sei in tutto, a San Sebastián città. Si affittano in modo discontinuo, per qualche mese, per quattro soldi, quando il proprietario del veicolo paga. Anche lì bisognerebbe liquidare, vendere ed accorciare l’agonia. E veniamo alla casa di San Sebastián. Per risparmiare, mia suocera l’ha affittata a un medico, che paga puntualmente, e se ne è andata a vivere in campagna, in Galizia, dove ha un’altra casa, senza riscaldamento, persa tra i campi. Può anche darsi che mia suocera sia a Madrid, che abbia affittato un appartamento nella zona di Plaza Castilla, come ha fatto altre volte, avvisando solo mia cognata. Non lo escludo. E poi, di tutta ‘sta robetta, bisognerà fare tre parti, per i tre fratelli: mia moglie, suo fratello Aitor e sua sorella Estíbaliz. Io do solo consigli sensati, ma non c’entro. Saranno loro tre a spartirsi questa miseria, un giorno. O solo due, forse. La mia intuizione è che mia suocera abbia diseredato mia moglie. Altro che bar di Lasarte, garage e casa di San Sebastián! E vado anche un po’ più in là. Credo che mia suocera sia finita in mano a una setta. E anche mia cognata. Quest’ ultima circostanza, in termini pratici, è meno grave.
“Perché sei ossessionato da questa cosa dei beni da ereditare?”, mi ha rimproverato mia moglie.
“Perché vorrei lasciare qualcosa a Pietro e a Simone, i nostri due figli, oltre a qualche cattivo esempio e diversi milioni di parole”, le ho risposto, e la conversazione, un vicolo cieco, non è proseguita.
Questa cosa delle eredità è un casino. Lo so di persona, pur avendo ereditato una miseria, cioè un appartamento a Foggia, al 50% con mia sorella Adelina. Il problema delle spese che l’immobile comporta sono riuscito a risolverlo io, da Madrid: le copriamo affittando la casa al mio amico Giovanni, che la adibisce a studio legale. Avevamo ricevuto anche la proposta del circolo di bridge di Foggia, che a me piaceva. Come idea, però, la migliore, anche dal punto di vista socio-letterario, era quella di mio cugino Andrea: “Metteteci le nigeriane!”, consigliava. E poi il rebus della dichiarazione dei redditi per un bene all’estero, l’incomprensione ingrata di mia sorella, che avrebbe voluto vedermi cedere la mia parte per un tozzo di pane e che ci è rimasta male quando io ho trovato la soluzione dell’affitto a Giovanni, e che non mi manda nemmeno gli estratti bancari, e che dice che sono solo spese e riparazioni condominiali, e che insiste perché aumentiamo il canone mensile al povero Giovanni, che ha già i suoi guai di salute. In definitiva, miserie. Non ne viene fuori nemmeno un raccontino dell’orrore naturalistico, alla Maupassant.
E poi io non volevo litigare con mia moglie per delle cose così sordide. Volo alto, io. Le ho proposto una passeggiata riconciliatrice, ma era ancora troppo arrabbiata per la mia impertinenza. E allora sono uscito da solo, e ho rifatto un itinerario che non facevo da tre o quattro anni. È un percorso lunghissimo, che costeggia tre parchi, partendo da casa mia: quello di Ciudad Universitaria, quello della Moncloa e il Parque del Oeste. Data l’ora, le quattro di pomeriggio, e la giornata, che ieri era festiva, la sensazione di quiete agreste era amplificata. I rumori della città non arrivavano, o giungevano attutiti e remoti, almeno fino alla parte finale del Parque del Oeste, che sbocca sul Paseo de Rosales, che a sua volta conduce a Plaza de España e che è la strada più elegante di Madrid. Quando sono lì mi stupisco sempre ammirando i portoni di marmo, i pomi di ottone lucidissimo, le porte dei garage in legno intarsiato, che prima erano quelle dalle quali entravano le carrozze. E i grandi uffici delle professioni liberali, di quelle che si ereditano di generazione in generazione, impenetrabile numerus clausus. Avvocati, economisti, notai. Il più bello tra quegli uffici non l’avevo mai notato. Il vero chic sta nella discrezione. Era a piano terra: dava sulla strada, ma si dovevano scendere degli scalini. Ieri, ovviamente, era chiuso, ma mi aveva attirato l’insegna: Herencias internacionales, Eredità internazionali. Dalla vetrina si vedeva un lusso sobrio, ma sfrenato. So che è una contraddizione, ma non saprei definirlo altrimenti: tappeti persiani, poltrone in cuoio, marmo dappertutto, nature morte, bodegones del Seicento alle pareti. Mica i crostoni astratti dei cafoni arricchiti e comprati a peso… Si vedeva che era roba trasmessa dai secoli, con la patina della tradizione. Dentro c’era un custode, che mi ha lanciato un’occhiataccia. I custodi, i vigilantes e i portieri hanno l’occhio clinico. Pesano a vista lo spiantato. Sono stato spesso vittima della crudele intuizione di queste categorie. È fisiognomica classista, infallibile. Sono cani da guardia, di razza, addestrati bene. Fiutano l’intruso a un miglio di distanza, lo calibrano. Non abbaiano nemmeno, per cui l’intruso, animato o meno che sia da cattive intenzioni, non sempre sa cosa lo attende. Poi, quando incrocia un certo sguardo, l’intruso capisce e gira al largo della proprietà, prima di venire azzannato alla gola. Una volta, sei o sette anni fa, quando cercavamo una casa più grande, vidi un annuncio di Vendesi in un portone della calle Modesto Lafuente, vicino al Consolato italiano, cioè dalle mie parti di sempre, a due passi dalla calle Maudes in cui abitavamo. Ma il mio quartiere di Ríos Rosas-Cuatro Caminos (Distrito de Chamberì, confinante con quello di Tetuán) è un quartiere variegato, con delle enclaves, discretissime, per ricchi, incastonate in un contesto urbanistico piccolo borghese (come quello della calle Maudes) o addirittura schiettamente popolare, man mano che ci si avvicina a Cuatro Caminos, dove abitiamo noi adesso, o che si sconfina nel Distrito de Tetuán. Tornavo dalla palestra, ero in tuta. Così mi consolai e me ne feci una ragione, quando il portiere, alla mia richiesta di informazioni, mi rispose, con un sorrisetto di sufficienza: “Lascia perdere. Non è roba per te!”. Mi ripresentai il giorno dopo, in giacca e cravatta, per una improbabile rivincita. Il portiere mi squadrò con un disprezzo molto maggiore di quello del giorno prima: “Non lo vuoi proprio capire, eh?”, mi disse, la voce dura. Lo capii. Per sempre.
A queste cose pensavo, ieri, vedendo lo sguardo truce del custode e l’insegna di Herencias internacionales. “Se lunedì entrassi io in questo studio legale, e dicessi che ho ereditato al 50% un appartamento a Foggia, e che ho problemi con mia sorella Adelina, chiamerebbero la polizia o mi farebbero sbattere fuori a calci nel culo dal custode, come un appestato…”, ragionavo, tra me e me. Io so che gli avvocati hanno una propria deontologia, che gli proibisce di parlare dei casi dei clienti. Gli avvocati seri, almeno, ce l’hanno. Il mio amico Giovanni, quello che ha affittato la mia casa di Foggia, ce l’ha, per esempio. Invece gli avvocati cialtroni, che sono la maggioranza tra quelli che ho incrociato nella vita, non ce l’hanno, questa etica. Gli avvocati di Herencias Internacionales ce l’hanno di sicuro. Saranno come le banche svizzere, custodi di segreti. È un peccato, perché il romanzo buono è lì, non a Foggia.
A fantasticare come i bambini poveri davanti ai negozi di giocattoli si fa poca strada nella vita, ma molta nelle passeggiate solitarie. Sono tornato a casa risalendo la calle San Bernardo, la Glorieta de Quevedo e la calle Bravo Murillo. All’arrivo era ormai notte fonda. Mio figlio Pietro era uscito per andare al cinema con Angelo, un suo compagno di scuola. Sono rientrati insieme, verso le 20 e 30. Angelo si è fermato a cena. Questo Angelo sembra il fratello maggiore di mio figlio. È come Garrone: grande, grosso e di animo nobile. Mio figlio Pietro è più tipo De Rossi, tanto per rimanere nell’ambito di Cuore. È tutto pepe e verve, il mio Pietro. Con Angelo, così diverso da lui e molto meno smaliziato, va molto d’accordo, come poli opposti che si attraggono. Sarà uno e settanta al massimo, il mio Pietro, ma io spero che cresca un po’ di più. Ha appena compiuto quindici anni, in fondo. Angelo, invece,è alto quasi due metri, ma è ancora un bambino. Su questo io ho l’occhio clinico dei custodi, queste cose le capisco. C’è un’altra cosa che unisce il mio Pietro e Angelo: l’affinità geografica e genetica. Anche Angelo è figlio di una basca e di un pugliese. Sua madre è di Bilbao. Il padre, di Lecce. Non sono ricchi nemmeno loro, ma il ragazzo è figlio unico.