Roberto Cocchis, classe 1964, nato a Bari, cresciuto a Napoli, oggi residente nel Casertano dopo aver trascorso molti anni nel Nord Italia. Diversi lavori svolti nella vita, attualmente insegnante di ruolo nel licei. Redattore di Redattore di Vanilla Magazine e di Cronache Letterarie, estensore del blog L'angolo giallo, autore di diverse opere narrative, uscite in gran parte con la Placebook Publishing".

Operazione Chastise

Di Roberto Cocchis

Durante il XX secolo, l’introduzione e lo sviluppo dell’arma aerea ha cambiato completamente il modo di affrontare i conflitti bellici, per lo meno quelli su vasta scala. L’aviazione militare fece il suo esordio nella guerra italo-turca per il dominio sulla Libia nel 1912, ma i mezzi impiegati erano troppo rudimentali per essere realmente incisivi. Durante la Grande Guerra, la qualità dei velivoli permise di ottenere risultati di un certo livello nel contrasto alle truppe di terra, tramite mitragliamenti e bombardamenti, e di portare a termine imprese simboliche come quelle di D’Annunzio, ma il grosso dell’attività consistette nei duelli aerei tra piloti di fazioni opposte per il dominio dei cieli, che non furono mai decisivi per l’esito delle battaglie.

Solo a partire dagli anni ’20 si cominciò a teorizzare precisamente il ruolo dell’aviazione nelle guerre. Fu un ufficiale italiano, Giulio Dohuet, il primo a concepire i bombardamenti sistematici non più sulle linee del fronte ma nell’interno dei Paesi nemici, allo scopo di contrastare la produzione di armi e mezzi e di fiaccare la resistenza delle popolazioni civili. L’uso dei bombardamenti delle città, inizialmente sempre giustificato con la necessità di colpire fabbriche o altre installazioni, sfruttava l’assenza di una regolamentazione all’interno delle convenzioni belliche internazionali, che erano state stilate e sottoscritte quando l’aeronautica non era considerata un pericolo per i civili. I primi a servirsene furono i tedeschi, durante la Guerra Civile Spagnola, con bombardamenti indiscriminati di civili come quello di Guernica il 26 aprile 1937, anche se tecniche del genere erano state già sperimentate dagli italiani sui villaggi etiopi durante la Guerra d’Etiopia del 1935-36.

I tedeschi riproposero lo stesso modello nel 1940, quando si preparavano a uno sbarco in Inghilterra che poi non sarebbe mai avvenuto. Alcune città inglesi furono danneggiate molto duramente, in particolare Coventry dall’incursione del 14 novembre 1940, da cui il termine “coventrizzare” con cui si intende, nel gergo tecnico, la distruzione di un centro cittadino.

Gli inglesi, dal canto loro, non se ne rimasero con le mani in mano e presto crearono un comando speciale, il “Bomber Command”, che pianificò e realizzò i più devastanti bombardamenti aerei mai visti in Europa, sotto la guida del Maresciallo dell’Aria Arthur Harris, passato alla Storia con il vari soprannomi, di cui il più noto è “Butcher Harris” (Harris il macellaio), dopo aver avallato incursioni di dubbio valore bellico e di terrificante violenza sui civili, come quella su Dresda del 13-14 febbraio 1945. Si racconta che il pensiero dei civili tedeschi uccisi non lo turbasse più di tanto, al punto che, una volta, fermato da un poliziotto per la sua guida troppo spericolata in auto e redarguito con la frase “Continuando così, lei finirà per ammazzare qualcuno”, avrebbe risposto: “Giovanotto, io ammazzo centinaia di persone ogni notte”.

Ma le cose non erano state sempre così. All’inizio, nonostante la ferocia del conflitto in corso e la già ben evidente malvagità dei nazisti, al Bomber Command si erano preoccupati di infliggere i maggiori danni possibili all’industria bellica tedesca evitando di provocare troppi “danni collaterali” ai civili. Precauzione che, però, nel tempo, si sarebbe rivelata sprecata, perché è impossibile bombardare una qualsiasi località senza uccidere gran parte dei civili che vi risiedono e gli insediamenti industriali si trovano sempre in zone piuttosto densamente popolate.

Nel 1942, il Bomber Command organizzò un’operazione difficilissima ma fondamentale per bloccare la produzione di armi e mezzi in Germania. L’idea era quella di lasciare l’industria tedesca senza approvvigionamenti di una materia prima fondamentale per il periodo più lungo possibile. I settori chiave individuati furono tre: i pozzi di petrolio, le miniere di carbone e le dighe del distretto industriale della Ruhr, quello in cui si produceva gran parte dell’acciaio tedesco.

I pozzi di petrolio si trovavano molto a Est, in Romania, al di fuori del raggio d’azione dei bombardieri, e furono quindi scartati. Le miniere di carbone erano profonde e non erano ancora state sviluppate le bombe capaci di penetrare nel terreno ed esplodere solo a una certa profondità, che furono poi impiegate per bombardare le basi da cui i tedeschi facevano partire i loro missili V1 e V2. Quindi anche questa opzione fu scartata. Restavano le dighe della Ruhr, specificamente quelle di Eder, Möhne e Sorpe, che formavano tre vasti laghi artificiali lungo il corso del fiume Eder e di due suoi affluenti. Ogni lago artificiale conteneva centinaia di milioni di tonnellate di acqua. La diga principale, quella dell’Eder, regolava il livello del Mittelland Canal, un importante sistema di canali artificiali navigabili che rappresentava una importante via di comunicazione interna della Germania. Tutte e tre le dighe erano talmente spesse e robuste che le normali bombe in dotazione agli aerei inglesi non le avrebbero nemmeno scalfite.

Ma c’era un ingegnere inglese, Barnes Wallis, che aveva studiato accuratamente i progetti delle tre dighe. E in più era un esperto di un fatto che aveva turbato molto gli inglesi qualche anno prima, nel 1920, quando era stato necessario demolire e poi ricostruire il famoso Waterloo Bridge di Londra, troppo fragile e insicuro nonostante fosse stato ripetutamente rafforzato. Un lungo studio, pubblicato nel 1935, aveva evidenziato che i blocchi di cemento alla base dei piloni erano sempre stati difettosi perché danneggiati, già in fase di costruzione, dalle onde d’urto generate nell’acqua dai magli meccanici che li lavoravano. Il problema non era dovuto tanto alla compressione del cemento da parte dei magli, ma dalla sua successiva dilatazione, in seguito al rimbalzo delle onde d’urto, dopo che si era staccato dal maglio. Il cemento, notoriamente, è fatto per reggere bene la compressione, ma non la dilatazione.

Wallis pensò dunque che, provocando delle onde d’urto particolarmente violente nell’acqua dei laghi artificiali, queste avrebbero raggiunto le dighe provocando una brusca dilatazione del cemento che le costituiva, fino a spaccarlo. I suoi calcoli gli dimostrarono che una bomba da 10 tonnellate esplosa alla profondità giusta avrebbe potuto determinare l’apertura di una breccia di 30 metri di diamentro, sufficiente a far crollare la diga.

Nonostante l’appoggio del fisico Henry Tizard, il consigliere scientifico per il quale passavano tutti i progetti areonautici inglesi, Wallis dovette faticare parecchio per convincere i vertici del Bomber Command a prendere sul serio la sua idea. Il problema stava soprattutto nel fatto che nessun bombardiere era in grado di portare anche solo una singola bomba da 10 tonnellate. Wallis lavorò a lungo su un nuovo tipo di esplosivo, denominato RDX, che la RAF non impiegava ancora, e riuscì a ridurre il peso della carica esplosiva a 3 tonnellate, con un involucro esterno di 1,5 tonnellate. La somma era di 4,5 tonnellate, ossia un peso che i quadrimotori Lancaster potevano portare fino alla Ruhr.

Tizard procurò a Wallis la possibilità di testare le potenzialità dell’esplosivo su una diga vera, quella di Radnor in Galles, che era stata appena dismessa da una compagnia che ne aveva costruita una più grande a valle. La diga di Radnor era in ottime condizioni, ma le onde d’urto provocate dall’esplosione della carica fatta detonare sott’acqua da Wallis la danneggiarono molto seriamente, determinando lo svuotamento del bacino che racchiudeva.

Wallis testò poi gli involucri delle bombe, rendendosi conto che la punta andava rinforzata per evitarne lo schiacciamento al momento dell’impatto. Quando testò la bomba definitiva, si portò dietro un operatore cinematografico per avere le prove del suo perfetto funzionamento da sottoporre a Harris.

Harris era molto scettico sulla fattibilità dell’operazione e, in generale, diffidava di quelli che chiamava gli “inventori”. Grazie alla mediazione del capo collaudatore della Vickers, Mutt Summers, amico di entrambi, Wallis riuscì a mostrargli i filmati e, sorprendentemente, Harris si convinse e autorizzò l’operazione. Più tardi si scoprì che Harris aveva consultato Winston Churchill e che questo se ne era dichiarato entusiasta. Fu così che ebbe inizio l’operazione, denominata “Chastise” (castigo).

Un’altra scoperta successiva molto importante è che il ragionamento di Wallis sull’importanza delle dighe e sui modi di distruggerle veniva portato avanti, contemporaneamente a lui, da un tedesco. Un certo Dillgart, borgomastro di un piccolo paese della Ruhr, dal 1939 scrisse continuamente lettere ai vertici militari nazisti evidenziando le stesse cose che Wallis stava evidenziando in Inghilterra e sollecitando l’invio di difese antiaeree molto più potenti. Finché da Berlino gli risposero seccamente di non disturbarli più.

Dillgart era sicuro che l’attacco non solo sarebbe avvenuto, ma anche nel mese di maggio, quando le dighe erano al massimo livello di riempimento.

A organizzare il Gruppo che avrebbe materialmente compiuto il bombardamento, fu chiamato un giovane (25 anni) ma già più volte decorato comandante di brigata aerea, Guy Gibson, nato in India, che aveva alle spalle già 173 missioni operative. Gibson scelse 21 equipaggi di 7 uomini ciascuno, per un totale di 147 uomini. Benché l’età media fosse di 22 anni, erano tutti veterani. Tre degli equipaggi venivano dal Gruppo che Gibson aveva comandato fino ad allora e gli altri da Gruppi diversi. Non pochi erano australiani. Non a caso, la loro storia sarebbe stata poi raccontata da un giornalista australiano, ex pilota da caccia, Paul Brickhill, nel libro “The Dam Busters”, uscito nel 1951. Questo libro non è stato mai tradotto integralmente in Italiano ma si può leggere in edizione “condensata” in uno dei primi libri di “Selezione dal Reader’s Digest” (il numero 3 del 1955) con il titolo “I gustatori delle dighe”.

Wallis, Summers e Gibson si trovarono, durante la preparazione dei piloti alla missione, ad affrontare quello che sembrava un problema insormontabile. Gli aerei dovevano sganciare le bombe dalla quota di 18 metri esatti, perché l’eplosione doveva avvenire a pelo d’acqua in modo da produrre le onde d’urto necessarie. Un metro più su o uno più giù avrebbe rischiato di vanificare tutto. Valutare la quota dell’aereo sullo specchio d’acqua del lago, filando a 390 Km/h, non era affatto facile. Nè si poteva fare molto affidamento sugli altimetri, che sono molto influenzati dalla pressione barometrica e che quindi necessitavano di essere tarati sul posto e al momento preciso, operazione evidentemente impossibile.

Gli equipaggi non erano abituati a bombardare di notte, volando a quote bassissime, quindi dovettero addestrarsi, per circa 6 settimane, volando con degli schermi nella carlinga e degli occhiali azzurrati per simulare le condizioni di luce del plenilunio. Solo quando i piloti sembrarono davvero sicuri si passò ai veri voli di addestramento notturni. Due degli equipaggi non si rivelarono all’altezza e furono esclusi dalla missione, che proseguì con 19 aerei.

La missione fu preparata in gran segreto, in un’area che pullulava di agenti del controspionaggio.

Fu realizzato un nuovo tipo di puntatore, rudimentale ma efficiente, per sganciare la bomba al momento giusto, facendo riferimento alle torri che si trovavano ai lati delle dighe.

C’era sempre il problema della quota di 18 metri, ma questo fu risolto da un geniale, sconosciuto tecnico, che consigliò di montare due riflettori, uno sotto il muso e inclinato all’indietro, l’altro sotto  la coda e inclinato in avanti, in modo tale che i due fasci di luce si incrociassero solo quando l’aereo era a 18 metri dalla superficie.

Intanto, nelle officine, si modificavano i Lancaster in modo che potessero portare la bomba, che era stretta e lunga come un siluro.

Si decise di far svolgere l’attacco in tre ondate diverse. La terza era di riserva: se le tre dighe principali fossero cadute sotto i colpi delle prime due, sarebbero andate ad attaccare altre quattro dighe più piccole.

Quando si cominciò a montare le bombe sotto gli aerei (che non avevano spazio per portarle all’interno), uno degli ordigni fu fissato male e si staccò, sfondando il pavimento della pista sotto il suo peso. Ci fu un fuggi fuggi generale, ma la bomba non era innescata e non esplose.

La sera del 16 maggio 1943, alle 21,10, i primi Lancaster partirono dalla base di Scampton, una quarantina di km a Est di Sheffield. Era la formazione di 5 aerei comandata dal neozelandese Les Munro, diretta alla diga del Sorpe attraverso una rotta settentrionale più lunga. Un quarto d’ora dopo partì la formazione principale, che avrebbe attaccato prima la diga del Möhne e poi quella dell’Eder, 9 apparecchi al comando di Gibson ma divisa in tre ondate, una affidata sempre a Gibson e le altre due al londinese Melvin Young e a Henry Maudslay, che veniva dal Warwickshire. La terza formazione, quella delle riserve, 5 aerei, sarebbe partita più tardi.

Il volo di avvicinamento all’obiettivo fu tutt’altro che facile, soprattutto per la formazione diretta alla diga del Sorpe. A un apparecchio, i fari per regolare la quota non funzionavano bene e perciò finì per abbassarsi troppo e per perdere la bomba, appena raggiunta la costa olandese, per cui non gli restò altro da fare che tornare indietro. Quello del comandante Munro fu colpito dalla contraerea e danneggiato al punto da costringere anche lui a tornare indietro. Altri due aerei furono direttamente abbattuti. Dei cinque partiti, proseguì la missione solo quello che chiudeva la formazione, comandato dall’americano Joe McCarthy.

Anche la formazione di Gibson incontrò lo sbarramento della contraerea e perse uno dei velivoli prima di raggiungere l’obiettivo.

L’avvicinamento agli obiettivi era reso ancora più difficile dalla presenza di banchi di nebbia.

Finalmente giunsero alla diga del Möhne, difesa solo da alcune batterie leggere di cannoni da 20 mm, che peraltro erano molto pericolosi da una distanza così breve. Gibson scese per primo e sganciò la sua bomba. L’aereo fu investito dall’onda d’urto dell’esplosione mentre riprendeva quota, ma il pilota ne mantenne il controllo. Tuttavia, la diga non sembrava gravemente danneggiata. Il secondo aereo della formazione fu abbattuto prima di raggiungere la quota di sgancio, finì per abbattersi al suolo ed esplodere, insieme alla bomba, vicino alla centrale elettrica della diga.

Gibson si mise a compiere passaggi ravvicinati a bassa quota per attirare l’attenzione della contraerea mentre il terzo aereo della formazione sganciava la sua bomba. Stavolta la diga fu vistosamente danneggiata, ma non in modo irreparabile. Anche il quarto aereo colpì la diga, ma questa resistette ancora.

Gli aerei che avevano già sganciato le bombe continuavano a passare intorno al lago, sparando con le mitragliatrici di bordo contro le postazioni antiaeree. Il quinto aereo della formazione sganciò finalmente la sua bomba e, stavolta, la diga cedette. L’enorme massa di cemento compatto si sbriciolò sotto il peso dell’acqua e 134 milioni di tonnellate di acqua si riversarono sulla valle sottostante.

Gibson ordinò agli altri aerei rimasti senza bomba di rientrare alla base e guidò il resto della formazione, costituito da 4 aerei, verso la diga dell’Eder. Tra i 4 aerei c’era anche quello di Young, che pure aveva già sganciato la bomba, perché Young era incaricato di prendere il comando se Gibson fosse stato abbattuto. Gli aerei armati di bomba erano dunque solo 3.

Al comando furono segnalati, tramite codice, le esplosioni delle bombe e il crollo della diga. “Goner” (spacciato) indicava l’esplosione, “Nigger” (negro) indicava il crollo. Nigger era il nome del cane di Gibson, un grosso Labrador nero che era stato investito accidentamente da un’auto il giorno prima della missione.

La diga dell’Eder non aveva alcuna difesa contraerea, perché i tedeschi pensavano che la sua posizione, in una valle stretta tra i monti, fosse sufficiente a scoraggiare qualsiasi attacco aereo. Infatti i Lancaster ebbero molta difficoltà e un aereo si abbatté al suolo cercando di raggiungere la quota giusta prima di effettuare lo sgancio della bomba. Un altro apparecchio, dopo 6 tentativi falliti, riuscì a sganciare la bomba e a colpire la diga, che però resistette. La terza e ultima bomba fu quella decisiva: come era avvenuto al Möhne, si aprì una grossa breccia attraverso la quale si riversarono oltre 200 milioni di tonnellate d’acqua. Prima di allontanarsi, gli aviatori videro i fari di un’automobile che stava percorrendo la valle e cercava di allontanarsi a tutta velocità dalla massa d’acqua, ma non ce la fece e venne travolta.

L’unico apparecchio che raggiunse la diga del Sorpe, anche questa senza alcuna difesa, la colpì e aprì una vasta breccia, ma sopra il livello dell’acqua.

Gli apparecchi di riserva puntarono sul Sorpe, ma trovarono una nebbia fittissima e, anche facendosi luce con bombe incendiarie, non riuscirono a seguire bene i lanci. Sicuramente, la diga fu colpita una seconda volta. Così come fu colpita la diga di Ennerpe, un obiettivo secondario. Uno degli aerei, diretto alla diga del Lister, non diede più notizie.

Gli apparecchi superstiti si avviarono verso casa, sperando di mettersi in salvo prima dell’alba, quando i caccia nemici si sarebbero messi sulle loro tracce.  L’apparecchio di Melvin Young, il vicecomandante, fu colpito dalla contraerea e comunicò che tentava un ammaraggio, ma poi se ne persero le notizie.

Gli inglesi persero complessivamente 56 dei 133 aviatori che avevano partecipato alla missione. Anche se la gran parte risultava ufficialmente dispersa anziché morta, dopo la guerra si sarebbe scoperto che solo 3 di essi si erano lanciati con il paracadute ed erano sopravvissuti.

I danni al sistema industriale tedesco furono enormi, soprattutto per quanto riguarda le acciaierie. Ma non solo: un importante aeroporto e molte importanti vie di comunicazione erano completamente fuori uso. Per ripristinare una situazione accettabile, sarebbero serviti dei mesi.

Poiché le aree delle valli sotto le dighe non ospitavano città ma solo piccoli paesi, il numero di morti da parte tedesca non fu altissimo: 1294 civili annegati. Di questi, però, meno di metà erano tedeschi. 749 di essi erano prigionieri di guerra, soprattutto russi, che lavoravano nelle acciaierie. Una triste situazione che si sarebbe ripetuta su scala ancora più vasta in occasione delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, quando morino almeno 22.000 deportati coreani e 8.000 cittadini americani di origine giapponese che erano stati sorpresi in Giappone dallo scoppio della guerra e non erano riusciti più a tornare a casa.

Neanche Guy Gibson vide la fine della guerra. Dopo l’operazione Chastise era diventato una specie di divo, ospitato anche alla radio, ma non aveva smesso di partecipare a missioni operative. Durante l’ultima di queste, un bombardamento di Brema, precipitò sulle coste olandesi con un Mosquito, un apparecchio di cui era poco pratico. Era il 19 settembre 1944. 

L’immagine di copertina è presa da wikipedia