Nata a Napoli nel 1990, Carolina Montuori si è laureata in Filosofia presso l’Università degli Studi “Federico II”. Educatrice e insegnante, è autrice di recensioni ed articoli culturali su riviste nazionali che mettono in risalto l’impegno delle donne nel campo della cultura. È recentissima la sua prima raccolta di poesie, Dalia di Mare (Terebinto Edizioni, 2020) e la partecipazione alla raccolta antologica Maelstrom, negli abissi dell’anima, a cura di Emilia Dente (Terebinto Edizioni, 2020).

Il “poetico agire” e ogni sua possibile risposta. Recensione a La sete di Sergio Bertolino

Di Carolina Montuori

«Non v’è altra origine, per la bellezza, che la ferita, individuale, irripetibile, celata o visibile, che ogni uomo custodisce in sé e difende – dove si rifugia quando vuole abbandonare il mondo per una solitudine temporanea ma profonda» (da Jean Genet, L’atelier di Alberto Giacometti).

La sete non è forse – per dirla con Simone Weil – una ferita al ventre? Qualcosa da curare, colmare (almeno per poco), sì, ma anche da “difendere”: premessa e condizione imprescindibile perché ci possa essere piacere, appagamento, perché si compia «l’istante deflagrante dell’assenso, / la gioia di perdersi, di credersi».

La raccolta di Sergio Bertolino (Reggio Calabria, 1984), appena pubblicata per i tipi di Marco Saya, sembra invitarci a una riflessione sul fondamentale rapporto tra piacere e dolore, grazia e disgrazia – come quando, nel Gorgia di Platone, Socrate esclama: «Ti accorgi che quando dici “bere quando si ha sete”, tu dici “provare piacere provando, contemporaneamente, dolore”? O non è vero che questo accade, contemporaneamente, nello stesso tempo e nello stesso luogo, vuoi dell’anima vuoi del corpo? Io non credo, infatti, che ci sia alcuna differenza».

Il libro si compone di ben cinque sezioni (In profondo, Elementi, La sete, Prima Clavis e La bella morte), e neanche questo pare un caso. La struttura si articola, armonicamente, giocando sempre sui multipli di cinque (numero che rimanda alla figura simbolica del “cercatore”), con la sezione omonima posta al centro, quasi a legare il tutto.

Un invito (alla ricerca?), abbiamo detto; e ciò si mostra evidente sin da subito, dalla lirica proemiale: «Credi a me, qualunque strada s’imbocchi / basta un abbaglio: quel rito – sempre lo stesso – / che tolga la cera fredda da sotto gli occhi. / Un po’ come resistere, prepararsi / un letto piano tra le ortiche / perché frani l’inverno e trasfiguri, / e soffino i vetri dai colli accesi / per la tristezza musicale dei barconi».

La «complicità dei poli», la «malia che fa denso il vuoto», la tensione, il patto «tra le voci che muoiono distanti», raccontano di un’esperienza tagliata di netto, di una frattura che ha radici profonde, nella memoria e nella carne («Quando torni notte / a trovarci dal basso, / la metà che sola vedi / non fa di sé / che una parola già lontana»). E ne La sete anche la voce del poeta suona “infranta”, e la sensazione è che in effetti non sia sempre la stessa persona a parlare, come se le lingue fossero molte, ben definite, stilisticamente compatte, e tuttavia diverse: «da te che dal principio rendi fresca / la mia stanza; ancora qui / ché “non mi trovo” e “lasciami dormire” / e un’altra parola  / parli più di questa / quando mi taccio indietro nei quaderni».

Viene in mente John Keats, per cui il poeta «è la più impoetica delle cose che esistono; perché non ha identità, è continuamente intento a riempire qualche altro corpo – il sole, la luna, il mare e gli uomini e le donne, che sono creature d’impulso, sono poetiche e c’è in loro qualcosa d’immutabile – ma il poeta no; non ha identità». Ecco, dunque, una delle possibili chiavi di lettura del testo: l’io lirico che, per diventare realmente sé stesso, deve abbracciare l’esistenza altrui, essere gli altri. E perciò si rende necessario l’utilizzo della “maschera letteraria”, così come di un canto eclettico, proteiforme, mosso al punto da farsi straniero, perché la poesia è sopra ogni cosa “incontro” («Verrà il tempo, / il cerchio esatto in cui ti attendo; / e con le voci delle cose incompiute / attorno, t’accorgerai / che l’invisibile è già nostro, / ch’è giusto un attimo più avanti»).

«Io resto muto col basilico e la grata, / respirando ciò che la domenica soffre / a farsi spirito». Ci si chiede, allora, chi l’autore voglia incontrare («Che cerchi in quelle pagine? / Dio?»).

Sono tanti i riferimenti al divino ne La sete, a partire dall’epigrafe biblica. Dopo l’arsura, la pena, l’erranza, è un dio ad attendere di là dalla porta? «Tu / che per farne collane / afferri e leghi / voci emerse da un altro tempo, // benché senza dio, sei il più religioso di tutti; / benché senza dio, il tuo orizzonte è il Sacro».

Se così è, il poeta può fintanto sperimentarlo attraverso l’amore: ma si tratta pur sempre di un amore figurato, intangibile, che non ricuce, non disseta. Una «parvenza» presto disciolta come una medusa al sole. Ancora una volta – una maschera: «Ora che t’ho visto fiorita in sogno col sambuco, / pago volentieri la mia quota d’indifferenza; / […] / Ma ora che so di appartenerti, pure quest’alba / si fa santa nell’immagine di te».

Il dubbio rimane irrisolto, la ferita aperta, la distanza (apparentemente) incolmata («Tra me e te / la parola giusta si fa muro»). Un senso di suggestiva vaghezza, di ineffabile mistero, pervade questo «appassionato inseguimento del reale». Ma in fin dei conti non è qui – nell’incerto, nell’opaco, nella fiduciosa sospensione di ogni giudizio – che dimora il poetico?

Nota biografica

Sergio Bertolino (1984) è nato a Reggio Calabria. Laureato in Filologia moderna presso l’Università degli Studi di Torino, è insegnante, comparatista, cantautore, fondatore e direttore della rivista web di poesia Avamposto (www.avampostopoesia.com). Nel 2018 ha pubblicato il primo libro di versi Chiave di volta (Edizioni Nulla Die). Suoi testi sono apparsi in antologie, riviste e blog letterari. La sete è la sua seconda raccolta.