Nata in Sardegna ma da tempo vive a Firenze. Insegna italiano L2

A vuoto

Di Michela Silla

Il respiro di Amalia, il viso illuminato dal PC, era irregolare e affannoso. La notte nascondeva la stanza come una coperta sugli occhi. La prima volta che aveva visto Nicola, era comparso su Tinder in mezzo a una marea di facce. Dalla foto il colore degli occhi non si capiva un granché. L’aveva zoomata più volte e li aveva esaminati con i suoi, di occhi, affilatissimi. La mattina del giorno seguente il tizio le aveva scritto: Ciao, bella la foto profilo! Nella foto c’era il mare, Amalia in primo piano con i piedi affondati nella sabbia. Una sera, con la schiena appiccicata alla vetrata di un bar, lo vide arrivare.
Ehi! disse Nicola.
Sei tu! rispose Amalia.
Lui prese un caffè e ci mise dentro due cucchiaini di zucchero di canna; lei, gli occhi grandi come due lune piene, sfregò sulle cosce i palmi sudati.
Nicola abitava all’ultimo piano di un condominio color salmone.
«Vuoi una birra?»
E un minuto dopo Amalia, una Moretti tra le mani, lo vide avvicinarsi piano. Un bacio soffice, di gomma piuma; polline nell’aria come neve in primavera. Poi fecero l’amore. Lui le stava sopra e lei affondava il mento tra collo e spalla di Nicola, e avvertiva soltanto l’odore di lui: amarognolo, di
sandalo e caffè. Al risveglio la luce del sole le accarezzava una guancia. L’altra, spiaccicata sul cuscino, conservava i segni della notte: gli sfregamenti, i baci, i morsi, la saliva, il sonno e infine i movimenti sulla
federa blu. Davanti agli occhi semiaperti di Amalia c’era un libro adagiato su un comodino effetto legno con uno scontrino tra le pagine, di cui riusciva a intravedere il titolo e il nome dell’autore: Sogni di Bunker Hill, John Fante. Accanto al libro, dentro una cornice in argento liscio, c’era una foto dove il tizio che le dormiva accanto (sentiva il suo alito sulla nuca) stringeva da dietro la vita di una donna. La testa inclinata da una parte, avrà avuto al massimo venticinque anni. E si faceva baciare sul collo dal tizio di Tinder.
Seduta al tavolo della cucina, Amalia guardava le spalle di Nicola, larghe, da nuotatore. Gli fissava le spalle e pensava al sorriso della giovane donna che aveva denti bianchissimi. Scintillanti come piccole perle.
«Chi è la ragazza della foto sul comodino?»
Fece scivolare le parole fuori dalla bocca nell’istante in cui la tazzina da caffè toccò il tavolo. Nicola la guardò.
«È la mia ragazza. Però tra noi non va. Voglio lasciarla.»
Amalia si morse il labbro inferiore. Lui le disse l’ho fatto dopo dieci giorni esatti. Le dita che accarezzavano la gonna di lino, Amalia
inspirò, lentamente e impercettibilmente, il filo d’aria necessario per ossigenare il cuore impazzito e riordinare i battiti scomposti che volevano mettersi a ballare.

«Davvero?» riuscì a chiedere.

Nicola soffiò il fumo della sigaretta, una lunga striscia di vapore fugace.
«Domani passa a prendere le cose che ha lasciato da me.»
Da quel momento i giorni di Amalia si trasformarono in bolle gigantesche e lì dentro la sua vita ondeggiava. Lei e Nicola si vedevano due o tre volte a settimana. Andavano al cinema, mangiavano tempura in un ristorante giapponese, oppure guardavano serie TV sprofondati sul divano e lui le
teneva sempre una mano sulla coscia. Amalia gli guardava gli occhi, le sopracciglia tra il biondo e il rossastro, e si sentiva tutta viva, come se ogni singola parte del suo corpo potesse andarsene in giro per la città. Quando facevano l’amore si sforzava di risvegliare quella parte di sé che aveva
ammutolito con pensieri accavallati e allora provava baleni di piacere ovattato che guizzavano in direzioni opposte. Un pomeriggio di metà gennaio, mentre la città si toglieva gli abiti delle feste, prese lo smartphone
e scrisse: Forse mi sto innamorando. Poi, camminando avanti e indietro, scalza sul parquet del salotto, maledisse la spunta di WhatsApp sola e grigia. Non arriva, cazzo! Non arriva! Si sfregava le tempie con entrambe le mani, lo smartphone sulla scrivania. A un tratto, allungandosi con uno
scatto, lo recuperò. Su Tinder Nicola aveva cancellato il profilo da tempo, quindi cercò l’icona di Facebook con le pupille impazzite che balenavano da una parte all’altra dello schermo. Digitò nome e cognome e una scritta le addentò lo stomaco: Spiacenti, non abbiamo trovato persone
corrispondenti alla ricerca. Allora lo fece: cercò il nome tra i contatti e lo chiamò. L’aria, a ogni respiro, pareva volerle stritolare i polmoni. Aveva voglia di chiudere, di buttare il cellulare dentro un cassetto, di spegnere il PC, il cervello, di infilarsi sotto le coperte e fare finta, almeno per un po’,
di non esistere più. Dopo otto squilli staccò lo smartphone dall’orecchio.
Giunse il buio a velare la stanza. E poi la notte. Amalia non cenò e a mezzanotte in punto, per la decima volta – giuro che questa è l’ultima, pensò – provò a telefonargli. Poi si abbandonò sulla sedia e lasciò che il vuoto si cibasse di lei. Dopo pochi minuti salì in macchina e partì. La radio
suonava sopra il fruscio delle ruote bagnate. This is the rythm of my life, the night, oh yeah. Si sentiva viva, stupida. Era elettrizzata, sola al mondo. In un lampo accostò e spense il motore. Si sforzò di rallentare il respiro e finalmente guardò su. La tenda giallognola della camera da letto era
lievemente scostata. Amalia strizzò gli occhi e scorse una sagoma, un bagliore. Il luccichìo tenue di un sorriso. Di denti bianchissimi come piccole perle.

In copertina Michela Silla (Foto da facebook)