Intriso da sempre di musica, avendo trascorso l’infanzia (ahimè, inutilmente!) al fianco del padre che accompagnava al piano la madre cantante, al pari d’un novello Ambroise Bierce, lo scrittore topografo della Guerra di secessione americana, come archeologo ha rilevato (tacheometro, “dritta quella dannata stadia!” e logaritmi vari) mezza Africa Orientale, il Medio Oriente e il Centro America. Tra una stagione concertistica e l’altra organizzata come impresario (essendo sempre stato cacciato dai cori in cui cercava ostinatamente d’intrufolarsi), infine è approdato alla traduzione letteraria dei classici anglo-americani... sembrerebbe con risultati migliori che come baritono. Pare. Quello che invece è sicuro è che è davvero Il Cappellaio Matto.

XII puntata nella musica in Joyce

De Il Cappellaio Matto

6 Ade

Il sesto episodio, “Ade”, riguarda i funerali di Paddy Dignam morto improvvisamente, e il protagonista è ancora Leopold Bloom con le sue meditazioni, le impressioni, le sensazioni, sciolte però da legami temporali. Ripensa ai propri morti: la madre, il figlioletto Rudy, il padre morto suicida, i quali vivono nel ricordo ne conserva scolpito nella mente e costituiscono la sua segreta pena.

Il primo riferimento musicale è di nuovo a una nursery rhyme, Old Mother Slipperslapper, ma dopo poche righe ecco di nuovo un nuovo riferimento musicale alla canzone The Pauper’s Drive, alla quale Bloom si riferirà più volte nell’episodio e che quindi rappresenterà il background musicale di gran parte del capitolo. Dal momento che la canzone parla di un funerale, è facile cogliere l’associazione che si crea nella mente di Bloom tra il motivo musicale e la dura realtà della morte di Paddy Dignam, visto che il ritornello della canzone recita così: «Rattle his bones over the stones: / He’s Only a pauper whom nobody owns!» (per ascoltare QUI).

Nelle sue meditazioni lungo il tragitto verso il cimitero, Bloom alterna pensieri molto diversi, e si sofferma sul desiderio, quella sera stessa, di assistere all’opera The Lily of Killarney, che viene citata ben sette volte nel corso del romanzo (per ascoltare QUI). In carrozza, poi, insieme agli altri partecipanti al funerale, si sofferma a pensare alla moglie di Mr Cunningham, rievocando un episodio raccontato da Mr Dedalus, il quale assistette una vola alla scena di Mrs Cunningham ubriaca, che si era messa a cantare “The Jewel of Asia”, una canzone tratta dal secondo atto dell’opera The Geisha, una storia sullo stile di Madame Butterfly (per ascoltare QUI in una rarissima interpretazione coeva all’epoca di Joyce di Marie Tempest, il più famoso soprano della commedia lirica leggera e della commedia musicale edoardiana).

Percorrendo la strada verso il cimitero, improvvisamente un organetto… Ma prima soffermiamoci un attimo su questa parola, “organetto”, che è probabile i più giovani fra i lettori stenteranno a capire. Che sia un organetto di Barberia o di una pianola meccanica, si tratta di strumenti musicali meccanici “ambulanti” le cui note e le cui sonorità di passaggio in strada, solo, ahimè, i più anziani di noi hanno ancora nelle orecchie (per ascoltare QUI e QUI). Un organetto, dicevamo, diffonde nell’aria «a rollicking rattling song of the halls», parole che richiamano la famosa canzone inglese da music-hall di C. W. Murphy Has anybody seen Kelly (per ascoltare QUI), che crea una sorta di situazione ironica che si esprime nel contrasto tra questa canzone gioiosa e vitale e la processione funebre…

Una contrapposizione rafforzata anche dalla frase successiva «Dead march from Saul», che fa riferimento alla marcia funebre presente nel secondo atto di Saul, il famoso oratorio di Haendel (per ascoltare QUI). Un’incongrua associazione, parrebbe, che ha però lo scopo di sottolineare come la vita continui sempre – proprio perché possiede una sua ciclicità – anche in una processione funebre.

Al passaggio di una mandria, la carrozza è costretta a fermarsi e tra i pensieri di Bloom a questo punto affiora la frase «Roast Beef for Old England», una chiarissima allusione alla canzone inglese dal Don Quiote in England di Henry Fielding, The Roast Beef of Old England, tra le canzoni ufficiali della Royal Navy, che in questa precisa accezione ha una funzione patriottica, cioè d’esaltazione dell’orgoglio irlandese contrapposto alla mollezza e debolezza inglese che viene lamentata nella canzone (per ascoltare QUI). Tra i personaggi seduti in carrozza con Leopold, c’è anche il padre di Stephen, Simon Dedalus, il quale prima pronuncia la frase «Though lost to sight… to memory dear», titolo di una canzone dello scrittore e compositore inglese George Linley, e poi dirà: «How are all in Cork’s own town», alludendo alla canzone irlandese sulla città di Cork, dal titolo The Banks f My Own Lovely Lee, popolare al punto d’essere considerata un cliché. Successivamente, nel corso della funzione funebre, Bloom si sofferma sul libricino che il prete tiene appoggiato contro la propria pancia, e gli viene in mente un’altra nursery rhyme, Who killed Cock Robin, la quinta strofa parla della morte e del funerale di Cock Robin (per ascoltare QUI in una versione alquanto… dark, diciamo).

La frase successiva «Silver threads among the grey» fa riferimento alla famosa canzone Silver Threads among the Gold che, in questo contesto, nei pensieri di Bloom, allude a Mr John O’Connel, il custode del cimitero (per ascoltare QUI nell’esecuzione del tenore John McCormack e QUI in un’esecuzione più moderna). Bloom ne osserva la barba e i capelli grigi ed è proprio questo particolare a instaurare un legame con la canzone citata – cantata da un amante che sta invecchiando. Dunque, questo ha Bloom in testa: il tema della vita, della giovinezza e dell’amore. «Love among the tombstones» dirà Bloom, alludendo senz’altro alla ballata d’amore Love among the Roses (che possiamo ascoltare QUI in una rarissima edizione del tenore Arthur C. Clough del 1911, proprio negli anni di Joyce! Chi poi volesse guardare un cortometraggio del 1910 proprio dal titolo Love Among the Roses, di uno dei padri del cinema americano David W. Griffith cliccare QUI).

La riflessione sulla sepoltura, sul fatto che solo gli uomini e le formiche seppelliscono i propri morti, porta Bloom a citare un’ennesima nursery rhyme, Poor Old Robinson Crusoe (per ascoltare QUI), facendo un’ulteriore variazione comica sul tema della morte. Durante la sepoltura, Bloom ricorda poi alcuni versi della scena finale dell’opera di Gaetano Donizetti Lucia di Lammermoor, quando Edgardo, informato della morte di Lucia, decide di togliersi la vita (per ascoltare QUI).

Infine un ultimo riferimento a un’atra struggente canzone, Paddy’s Lamentation (per ascoltareQUI),  in cui un soldato irlandese che ha combattuto per Lincoln si ritrova senza una gamba e senza la pensione d’invalidità e maledice l’America perché lo ha mandato a combattere, senza avergli lasciato la possibilità di scelta. Alcuni ritengono che la canzone sia stata scritta proprio negli anni successivi alla Guerra civile quando i soldati mutilati si trovarono in difficoltà a riscuotere la promessa pensione. Interessante qui osservare sul fatto che gli Irlandesi si ritrovarono

inevitabilmente a combattere tra di loro sui due fronti, come peraltro accadde anche agli Italiani: la maggior parte degli Italiani, infatti, che combatterono per l’Unione provenivano dal distretto di New York, mentre dalla parte confederata s’erano schierati per lo più i resti dell’esercito borbonico.

Da notare, qui, che in effetti l’America divenne la patria di migliaia d’Irlandesi, Irlandesi americani fieri delle loro origini (stimato come secondo gruppo di ascendenza europea per consistenza dopo i tedeschi americani), ma anche grati alla terra che li accolse. A conti fatti le condizioni che trovavano nella nuova terra erano migliori della fame e disperazione che si lasciavano alle spalle, ed è così che nell’Ulisse di Joyce leggiamo questo di lamento «Dove sono oggi quei venti milioni mancanti di Irlandesi che dovrebbero essere qui oggi invece dei quattro, le nostre tribù perdute? E le nostre ceramiche e i tessuti, i migliori del mondo? E la nostra lana che si vendeva a Roma ai tempi di Giovenale e il nostro lino e il nostro damasco dei telai di Antrim e i nostri merletti di Limerick…».