Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

Nutriva il desiderio di diventare un «Oratore di fama mondiale» (così si legge nella nota biografica contenuta nell’annuario del 1951 della Westmount High School). È stato senza dubbio all’altezza dei suoi sogni e delle aspirazioni. Perché Leonard Cohen, cantautore internazionalmente acclamato, ha raggiunto tutti grazie alla voce morbida e profondissima che si è scavata un sicuro passaggio per i nostri cuori. Ha cantato l’amore (il suo demone), ci ha portato a spasso per i gorghi del sentimento che l’ha abitato e infiammato, mostrandocene le dimensioni. Ci ha immersi nei dubbi di una religiosità problematica e inquieta, sempre alla ricerca di un segno che aprisse il dialogo con D-o, come era solito nominarlo per rispetto verso la divinità e come prova ulteriore di fede e libertà: la vocazione era una specie di «missione per conto di D-o». Non ha fatto poi mistero della sua lotta contro la depressione; ci ha parlato di giustizia sociale, del suo punto di vista sulla guerra, della speranza di arrivare con la sua «voce d’oro» a far riflettere sulle iniquità dell’Occidente. Hallelujah è forse la canzone più conosciuta, ma sono dozzine i successi immortali di Cohen, da Dance me to the End of Love a Anthem, da SuzanneThe Future, da Bird on the Wire a Who By Fire, fino alle più recenti Show Me the Place e Nevermind. E poi, Tower of Song, I’m Your Man, First We Take Manhattan, If It Be Your Will, So Long Marianne e Hey, That’s No Way to Say Goodbye.

 Ma prima di tutto, per Leonard Cohen, ci fu la poesia: così cominciò il suo viaggio nella parola. Pubblicò la prima raccolta, Confrontiamo allora i nostri miti, durante gli anni universitari; poi un album di reading e un’altra raccolta poetica, Le spezie della terra. Dall’isoletta greca di Hydra uscirono altre raccolte, unitamente a due romanzi: Il gioco favorito (1963) e Belli e perdenti (1966). Fu solo nel 1967, dunque, che Cohen incise il primo disco da cantautore, Songs of Leonard Cohen. Una decina d’anni dopo i suoi inizi come poeta.

Se il nome di Leonard Cohen è stato spesso tirato in ballo da chi stortò il naso per l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura 2016 a Bob Dylan (perché non a Cohen, allora? era il mantra che passava di bocca in bocca); se, qualche anno prima, nel 2011, il suo valore letterario fu riconosciuto con il conferimento del Premio del Principe delle Asturie, ora possiamo nuovamente apprezzare i versi di Cohen grazie alla pubblicazione italiana de La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni (Bompiani, 2019, pp. 298, euro 24, traduzione di Luca Manini). Il volume, curato da Robert Faggen e Alexandra Pleshoyano, contiene il lavoro di una vita: poesie, disegni, autoritratti e pagine dai quaderni che Cohen disseminava ovunque. Adam Cohen, il figlio, racconta nella prefazione: «Una volta gli chiesi se aveva della tequila, mi indirizzò al freezer, e aperto lo sportello trovai un inatteso quaderno congelato. La verità è che conoscere mio padre significava, tra mille altre cose meravigliose, conoscere un uomo con fogli, quaderni e tovagliolini di carta, ciascuno con una grafia ben precisa, sparsi (con ordine) ovunque». Scrivere era la sua unica ragione di vita negli ultimi tempi. «La poesia giunge da un luogo che nessuno domina e che nessuno conquista», disse nel discorso di accettazione del Premio del Principe delle Asturie trascritto nel volume, «se sapessi da che luogo vengono le buone canzoni, ci andrei più spesso». Forse non è questione di sapere consciamente dove si trovi quel luogo. Forse la musica, o la musicalità di un verso (come sapevano bene gli aedi di un tempo), conducono il gioco in maniera autonoma; e dunque: «sono la canzone & non il cantante / prendete il suo corpo / prendete il suo spirito // Non il confine / bensì il centro», scrive lucidamente Cohen in una pagina dei quaderni.

Si presta, Leonard: dona la voce perché divenga canto che vada alle radici del nostro fare poetico, alle radici della preghiera. Una preghiera che sempre genera stupore in chi la tenta e la recita. Una preghiera però consapevole di come il corpo, dannazione e strumento di conoscenza suprema attraverso le altalene della luce e del buio, abbia la necessità di sperimentare il mondo e di renderne testimonianza. Imperfetta, forse, ma inesausta.  Per giungere magari a una riconciliazione. O al perdono: «e s’ode una voce possente, / o una voce gentile, / una voce sommessa, / o una voce di tuono, / soprattutto, / la voce che noi massimamente / disperatamente / desideriamo udire, / è la voce che può darci il perdono, / e dice, / non importa / mia cara, / è la verità, / la verità del perdonare» (Non importa, nella sezione “Poesie”). E se le tenebre sempre risorgenti, che dalla disperazione e dalla disattenzione traggono alimento, ci assalgono infatuandoci («Non voglio accogliere / la luce del mattino / con una notte come questa / nel profondo dell’anima / Abbiate pietà delle ombre / che delle ombre s’innamorano»), è pur vero che lo scavo nei recessi più neri dell’anima a volte ci restituisce parole luminose che incantano perché tentano di misurare i bordi di un amore completo e sconfinato: «E poi la notte mi comanda / di entrare nel Suo fianco / ed essere ciò che Adamo è per Eva / prima che debbano separarsi // Così posso mostrarle ciò ch’è stato serbato / per Lei e per Lei soltanto… / un luogo segreto che Amore ha lasciato / prima che nascesse il mondo // I suoi capezzoli sotto la mia mano / Le Sue dita nei Miei capelli… / una foresta che piange dai morti / e profumo ovunque […] E legato qui, arreso al / Mio Amore e Mio Amore / Noi ci apriamo e affoghiamo come fanno i gigli… / in eterno, in eterno» (La notte fortunata!!!! Domenica 7 marzo 2004, in “Poesie”).

È, quello di Cohen, un io che lotta per la propria esistenza, per il riconoscimento di una voce originaria e personale: un’invocazione e pure un’esortazione a spingersi in quei territori dove l’uomo è semplicemente quel che è e, oltre l’inevitabile sconfitta che lo attende, questo può fare: esprimere, nella forma più melodiosa che conosce, le alterne vicende dell’anima «entro i rigidi confini della dignità e della bellezza». Come insegnò la lettura di Federico García Lorca al giovane che allora si affacciava, ancora titubante, sul crinale scosceso della vita e della poesia.

La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni Book Cover La fiamma. Poesie e pagine scelte dai quaderni
Leonard Cohen. Trad di Luca Manin
Poesia
Bompiani
2019
304 p., ill., brossura