Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

Le prime anime con cui Dante interagisce nel paradiso si trovano nel primo cielo, quello della luna e sono gli spiriti mancanti ai voti.
Il canto si apre con l’immagine di Beatrice descritta attraverso la metafora del sole, che, non solo ha scaldato il suo petto d’amore in età giovanile, ma ora lo illumina anche con la sua dottrina. Da notare come Dante utilizzi i verbi “provando e riprovando” per indicare i due momenti del ragionamento tipici della filosofia scolastica che conducono alla verità, (la donna aveva appena spiegato in questo modo le macchie lunari e le influenze celesti).

Ora egli si dichiara corretto dell’errore e sicuro della verità ed alza il capo pronto a parlare, ma gli appare una visione che attira tanto la sua attenzione, a tal punto che dimentica ciò che è in procinto di dire: vede delle figure diafane ed evanescenti e con una similitudine spiega che, come vediamo riflessi in vetri trasparenti e puliti o in acque limpide e calme e poco profonde i nostri lineamenti attenuati come una perla che risalta poco in una fronte bianca, così egli vede delle facce pronte a parlare. Dante cade nell’errore contrario a quello di Narciso che si innamorò della propria immagine riflessa credendola reale (come sempre, attinge alle Metamorfosi di Ovidio), perciò si volta per vedere a chi appartengano, ma non vede nulla e rivolge lo sguardo in avanti fissando negli occhi Beatrice, che sorridendo risplendeva negli occhi santi. Ella spiega a Dante che le sue supposizioni sono infantili perché il suo ragionamento ancora non poggia sulla verità ma lo porta all’errore. Quelle che vede, infatti, sono vere anime, relegate in quel luogo per aver mancato ai voti e lo esorta a parlare con loro e a credere alle loro parole ispirate dalla luce di Dio che non permette che si allontanino dalla verità. (Le anime hanno la loro sede nell’Empireo ma ci vengono presentate nel loro cielo di appartenenza per mostrare i gradi di beatitudine e per simmetria con la struttura degli altri regni.)
vv.1-33

Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto; 3

e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto; 6

ma visïone apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne. 9

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi, 12

tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille; 15

tali vid’io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte. 18

Sùbito sì com’io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi; 21

e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi. 24

“Non ti maravigliar perch’io sorrida”,
mi disse, “appresso il tuo püeril coto,
poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida, 27

ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto. 30

Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che le appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi”. 33

Così Dante si rivolge all’anima che sembra più desiderosa di parlare con una forma di captatio benevolentiae , la definisce infatti spirito destinato alla salvezza ( “ben creato” in antitesi a mal nato usato nell’inferno per designare i dannati), che sente una beatitudine intensa incomprensibile per chi non la prova e le chiede di rivelargli il suo nome e la sua condizione. L’anima risponde che l’amore di carità uniforma le anime a Dio perciò si appagano nell’esaudire giusti desideri. Poi rivela che nel mondo terreno fu monaca e, nonostante la trasfigurazione con cui la luce divina la abbellisca, esorta Dante a riconoscerla in Piccarda , che, beata, e’ collocata nel cielo della luna, il più lento, con gli altri beati. (Il cielo della luna ruota più lento perché e’ più vicino alla terra, man mano che si avvicinano a Dio, i cieli ruotano più velocemente). Nonostante ciò, spiega Piccarda, i sentimenti delle anime infiammati dalla carità di Dio gioiscono di quest’ordine universale da lui stesso voluto e alle anime è stata assegnata questa condizione che sembra tanto umile, per non aver adempiuto ai voti o perché essi furono manchevoli. (Dante usa un bisticcio “voti” e “voti” con due termini omografi ma di diverso significato). L’anima che parla è Piccarda Donati, bellissima e molto religiosa, sorella di Forese, amico di Dante incontrato nel canto XXIV del Purgatorio e a cui aveva chiesto notizie di lei : “la mia sorella, che tra bella e buona non so quale fosse più, triunfa lieta nell’alto Olimpo già di sua corona”, aveva risposto. Entrata in un convento di Clarisse, giovinetta, ne era stata tratta fuori con la violenza dal fratello Corso e fu costretta a sposare uno dei più facinorosi dei suoi compagni Guelfi Neri, Rossellino della Tosa. Secondo la tradizione, Piccarda, dopo poco tempo si ammalò e morì.

vv. 34/57

E io a l’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza’ mi, e cominciai,
quasi com’uom cui troppa voglia smaga: 36

“O ben creato spirito, che a’ rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s’intende mai, 39

grazïoso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte”.
Ond’ella, pronta e con occhi ridenti: 42

La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte. 45

I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella, 48

ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda. 51

Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati. 54

E questa sorte che par giù cotanto,
però n’è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto”. 57

Dante prosegue dicendo che la sua nuova bellezza gli aveva impedito un pronto riconoscimento, ma dopo le sue parole tutto gli è chiaro (usa l’aggettivo “latino”) e chiede se queste anime che sono collocate nel cielo più basso desiderino stare più in alto per vedere più da vicino Dio e avere con lui un rapporto più stretto. L’anima, ardente dell’amore di Dio, sorridendo un po’ con le altre anime, risponde con un ragionamento sillogistico, dicendo che desiderano solo quel che hanno perché i loro desideri non possono non uniformarsi alla volontà di Dio che distribuisce la anime nel paradiso ed e’ essenziale a quello stato di beatitudine rimanere nei limiti della volontà stessa di Dio. Il modo in cui sono distribuite le anime piace ai beati come a Dio e nella sua volontà risiede la loro pace perché essa è quel mare verso cui tende tutto il creato (riprende “il gran mar dell’essere” del I canto).

Allora a Dante è chiaro come ogni parte del cielo e’ luogo di beatitudine anche se la grazia divina e’ commisurata ai meriti di ciascuno. Dante ringrazia, ma come accade quando siamo sazi di un cibo e ne vogliamo un altro, fa capire a Piccarda, con la metafora “quale fu la tela che non aveva finito di tessere” che vuole sapere quale fu il suo voto non portato a compimento.


vv58-96.

Ond’io a lei: “Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti: 60

però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino. 63

Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?”. 66

Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco: 69

“Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta. 72

Se disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne; 75

che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri. 78

Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse; 81

sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia. 84

E ’n la sua volontade è nostra pace:
ell’è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella crïa o che natura face”. 87

Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove. 90

Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia
e d’un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia, 93

così fec’io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola. 96

Inizia il racconto di Piccarda e della sua dimensione terrena che si stacca dal precedente discorso di natura teologica. Fa prima riferimento a Santa Chiara, collocata nei cieli più alti, secondo la cui regola si prendono la veste ed il velo per diventare per sempre spose di Cristo. Ancora giovinetta, Piccarda fuggì dal mondo per seguire la regola, vestì l’abito dell’ordine e promise di osservarla per sempre. In seguito uomini abituati a praticare il male più che il bene la rapirono dal dolce convento (e’ evidente il rimpianto per quel luogo, oasi di pace e di preghiera), e solo Dio sa quale fosse stata poi la sua vita. Piccarda rievoca la sua vicenda con tristezza per la follia degli uomini nel mondo da cui ora e’ distaccata, ma li guarda con compassione dall’alto della serenità del cielo. Solo Dio e’ stato testimone del suo dolore, ma ormai lei ha trovato la pace e placato ogni tumulto legato alla vita terrena. 
98/108

“Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù”, mi disse, “a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela, 99

perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma. 102

Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’ mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta. 105

Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi. 108

A questo punto Piccarda indica un’altra anima alla sua destra, illuminata della luce del loro cielo, intende ciò che ha detto perché riferito anche a lei: fu suora e fu ricondotta con la forza alla vita mondana contro la sua volontà e contro ogni onesta norma, ma nel suo cuore rimase sempre fedele ai voti. E’ l’anima luminosa di Costanza, che generò Federico II terzo ed ultimo di quella dinastia (vento di Soave: vento qui significa potenza). Dante accolse la leggenda della monacazione secondo cui fu tolta dal convento con la forza all’età di 52 anni e costretta a sposarsi e ne fa la vittima di macchinazioni politiche, in quanto Federico II, visto come l’Anticristo sarebbe nato da una vecchia ed ex monaca, propaganda guelfa per gettare discredito sull’imperatore. In realtà Costanza non fu mai monaca e sposò Enrico VI a 31 anni, (sarebbe stato improbabile generare un figlio a 52 anni). Dante in questo canto esprime la sua ammirazione per l’imperatrice e la trasfigura sotto una luce poetica.


Così Piccarda finì di parlare e poi iniziò ad intonare l’Ave Maria, per celebrare la donna tra le donne e svanì come un oggetto pesante nell’acqua profonda, insieme con il suono del canto. Lo sguardo di Dante la seguì finché poté ma poi si rivolse a Beatrice che risplendette a tal punto da risultare a Dante impossibile sostenerne la vista e ciò gli impedì di porre altre domande.

E quest’altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra, 111

ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende. 114

Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta. 117

Quest’è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò ’l terzo e l’ultima possanza”. 120

Così parlommi, e poi cominciò ’Ave,
Maria’ cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave. 123

La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio, 126

e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso non sofferse; 129

e ciò mi fece a dimandar più tardo.

Dante nel canto successivo esprime un giudizio negativo sull’operato di Piccarda e Costanza

“volontà, se non vuol, non s’ammorza ,

 ma fa come natura face in foco,

 se mille volte violenza inforza”,

cioè la volontà, se non vuole soccombere non si spegne ma fa come il fuoco che va verso l’alto anche se mille volte il vento tenta di piegarlo. Queste anime infatti non si opposero alla violenza e perciò la loro volontà non fu totale come quella che tenne San Lorenzo sulla grata o Muzio Scevola deciso verso la sua mano. Ecco perché Dante sceglie due spiriti di donne, perché ha comprensione e compassione per la loro debolezza e fragilità che invece non avrebbe accettato in un uomo. Il Poeta le incolpa per non aver esercitato totalmente la loro volontà ma allo stesso tempo le scusa e fa sì che Dio conceda loro la beatitudine perché creature indifese e vittime di soprusi, ma che non si disciolsero comunque dal velo del cuore e dal dolce chiostro.

L’immagine di copertina è tratta da Wikipedia