Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

L’America sembra tornata indietro di trent’anni e una serie tv come When we rise diventa più urgente e attuale che mai. Triste dirlo, ma è così. In onda su Sky Cinema dallo scorso 3 ottobre, questo docu-drama, rivede insieme due personaggi del cinema non certo nuovi a lavori di denuncia come questo. Stiamo parlando di Gus Van Sant e Dustin Lance Blake che già firmarono regia e sceneggiatura di un altro capolavoro cinematografico come Milk. La pellicola ripercorreva la storia di Harvey Milk, primo gay dichiarato ad essere eletto in una carica politica negli USA e valse allo stesso Dustin Lance Blake un premio Oscar per la miglior sceneggiatura.
Con When we rise ci troviamo davanti ad una sorta di crossover con il film, seguendo, questa volta, la voce narrante di Cleve Jones, autore dell’omonimo libro e attivista del movimento per la difesa degli omosessuali. Durante le prime quattro puntate di circa 90 minuti l’una, la storia della battaglia della comunità Lgbt, ci viene raccontata e dipinta insieme a quella dello stesso Cleve, di Roma, militante femminista e lesbica e di un marinaio di colore che, dopo la perdita del suo compagno, attraverserà tutte le più difficili tappe della disperazione più cupa e della battaglia.
Uno straordinario spaccato di storia che, dai moti di Stonewall arriva praticamente ai giorni nostri srotolando il racconto che passa dal più gretto bigottismo all’ostracismo più becero di politici e presidenti americani, almeno alcuni di essi. La struttura e la scrittura sono di tale livello da “trasformare” ogni puntata quasi in un film in cui immagini di repertorio si mescolano, in maniera perfettamente equilibrata, con quelle del docu-drama. Una docu-drama in cui, molto efficacemente, si è scelto di adottare un taglio che desse alle storie non solo un carattere di quotidianità ma, soprattutto una carica emotiva molto forte. Che facesse apparire subito molto chiaro che si parla di amore e di famiglia. Facendo immediatamente sconfinare il messaggio dai diritti gay ai diritti di tutti. Perché, in fondo, di questo si tratta.
Soprattutto in un’America come quella di oggi in cui il manto mefitico di The Donald sta risucchiando ogni cosa nel buco nero del razzismo e del bigotto ricostruire muri. Per tale motivo in questa serie tv si insiste molto sul fatto che, il racconto della comunità gay ad un certo punto drammaticamente colpita dall’epidemia dell’AIDS, è il racconto universale di amici, fratelli, sorelle, madri e padri colpiti dalla malattia e dal suo alone di pregiudizi e chiusure. Perché la malattia non è razzista, non è omofoba e colpisce chiunque.
L’idea di colpire emotivamente e, spesso, di commuovere, risponde non solo ad una scelta stilistica di scrittura ma, anche e soprattutto, ad una scelta strategica: ciò che si oppone alla difesa dei diritti di ciascuno è sempre qualcosa di irrazionale che non può essere combattuto con argomenti razionali. Quindi tanto vale cercare di arrivare dritti al cuore. Non a caso la rivista Rolling Stone scrive che questa serie tv sui diritti gay è, in realtà, una serie tv che parla dei diritti di tutti noi. Perché è un attimo passare il labile confine che ci separa da una tranquilla vita in cui si è maggioranza all’inferno di essere minoranza.
Vita privata e vita pubblica di ciascun protagonista diventano non solo una cosa unica ma anche monito a non abbassare mai la guardia, a non pensare che una battaglia sia vinta una volta per tutte. In un’epoca in cui molti sembrano divenuti zombie attaccati ad uno smartphone, impegnati a condividere sui social ogni istante della propria vita perdendo così di vista l’autentico significato della parola condivisione, la storia di queste donne e di questi uomini diventa quasi un’eco di qualcosa che non si deve perdere: l’umanità di sentirsi tutti responsabili per gli altri. La battaglia che si sta combattendo per qualcuno, oggi e sempre, può divenire la battaglia di altri in un futuro, chissà.
Da qui l’urgenza di una serie tv come questa, certo in America ma non solo. Immagini toccanti, immagini che colpiscono e che sollecitano un sempre attuale bisogno di impegno, di scopi. Anche per questo colpisce come una frustata nelle scapole una frase, tra tante, pronunciata da Cleve Jones che, ad un giovane, chiede: “Come ci si sente ad essere la prima generazione di americani a non avere uno scopo?” Nella serie tv quella frase viene pronunciata nel 2006 ma, purtroppo, dopo più di dieci anni, la domanda sembra avere un carattere universale. E ad avere una portata più che mai attuale. Forse è questa la chiave di lettura di questa straordinaria serie tv.

When we rise Book Cover When we rise
Serie tv
In Italia ottobre 2017