Diploma maturità classica – Laurea in Giurisprudenza in 3 sessioni e mezza – Pratica legale – Pallavolista di successo – Manager bancario e finanziario – Critico musicale dal 1977 – 6 mesi esperienza radio settore rock inglese ed americano – Studi continuativi di criminologia ed antropologia criminale – Lettore instancabile – Amante della letteratura noir e “gialla “ – Spietato con gli insignificanti. Fabio è venuto a mancare nel maggio del 2017. Ma noi abbiamo in archivio molte sue recensioni inedite che abbiamo deciso di pubblicare perché sono davvero parte della storia della critica musicale italiana

Il disco della disperazione. L’urlo agghiacciante di chi, dal 1973, a causa di una caduta dal terzo piano durante un party si ruppe la spina dorsale e da allora è costretto su una sedia a rotelle. Sto parlando dell’ex-batterista dei Soft Machine, Robert Wyatt che, da lì inaugurò suonando, le tastiere e pure la sua spettacolare voce, letteralmente, una carriera solista di grandissimo spessore. I suoi disegni sulla copertina originale del disco, con un ragazzo che piega la spina dorsale quasi ad “U”, la dicono lunga del suo giusto stato di debilitazione psico-fisica. Il cerchio di musicisti della Scuola di Canterbury l’ha sempre aiutato nelle incisioni dal punto di vista strumentale e questo accade pure in questo suo lontano e toccante disco di esordio così lontano nel tempo ma, così vicino per i sentimenti invincibili che esprime. Le sue tastierine e la sua voce commoventi esaltano l’iniziale “Sea song” (la canzone del mare). Con lui c’è solo il basso del grande Richard Sinclair, grande coi Caravan e grandissimo con gli Hatfield & The North. La musica è dolce, onirica, sognante, ipnotica, col movimento della marea e della risacca fino ai gorgheggi disperati e gutturali del finale. LETTERALMENTE DA PELLE D’OCA! Impossibile descrivere questa voce e questi suoni. Vengono i brividi dalla testa ai piedi. Insomma ascoltatela se non la conoscete ancora. “A last straw”, col compianto Hugh Hopper, pure lui ex Soft Machine, al basso, lui alle tastiere e Laurie Allen alla batteria è jazzistica con basso e pieno in evidenza, chiaramente. La musica è sempre tenue, un filo sottile che, tiene assieme i suoi sentimenti e la nostra attenzione. Lui suona il piano e canta in modo incredibile pure qui. Il brano non è facilissimo perché lui ti fa venire il mal di mare con la voce, senza muovere un muscolo della faccia. Musica nervosa, intelligente e coi suoi vocalizzi simil cornetta sopra. Bellissima . “Little Red Riding Hood hit the road” (Cappuccetto rosso batte la strada), con Ivor Cutler alla seconda voce, Richard Sinclair al basso ma, soprattutto, lo straordinario e sfortunatissimo trombettista Mongezi Feza alla cornetta (musicista morto letteralmente di fame per strada a Londra il 14 dicembre 1975, un anno dopo questo disco). La sua tromba è il gridare disperato di un calabrone che stenta a levarsi in volo. Le percussioni sono intense, la scansione nevrotica, la musica GRANDISSIMA, i lamenti di Wyatt da dolore incontenibile. Ma quanto è bella questa musica per coloro che hanno ancora un cuore! Brano straordinario e siamo a metà disco. La seconda parte è aperta da “Alifib” che inizia col suo respirare affannato ed il suo synth lunare. C’è ancora Hopper al basso. Musica quasi alla Terry Riley, ambient, a gocce di acqua cristallina. Particolare. “Alife” ne è il seguito, quasi senza interruzione ma più stranita. Qui c’è un altro fenomeno di quel “giro” di musicisti, Gary Windo, al sax tenore che gracchia e scricchiola ed al clarinetto basso mentre Wyatt canta in una lingua a metà tra il tedesco e l’aramaico. Una cosa mai sentita prima. C’è ancora disperazione consapevole qui. Il mal di mare è assicurato dalla sua voce, dalle tastiere e dal sax di Windo: pazzesca, bellissima. Capolavoro altissimo di ARTE con la “A” maiuscola. Infine, chiusura con “Little Red Robin Hood hit the road” che riprende il terzo brano. La sua voce non si dimentica qui sul rullare militaresco della batteria. E qui la chitarra è addirittura di Mike Oldfield, il padre di “Tubular Bells” che gli ultimi arrivati al desco conobbero come tema conduttore de “L’esorcista” (ma che c’azzeccava? Direbbe il contadino rude Di Pietro). Ed è ancora dolore e anima traviata da una sorte impietosa e maligna. Un capolavoro da non farsi fuggire questo disco: ROBERT WYATT LA VOCE DEL DOLORE E DELL’AMORE .

Rocck Bottom Book Cover Rocck Bottom
Robert Wyatt
Rock
1974