Siculo-polacca la Milano di Giuseppe Cavaleri
Di Rossella Pretto
Riprende a scalpitare, la Storia, alza la voce, protesta che l’attimo divenuto sterminato è in agonia, livido, gli occhi ormai vitrei. Dilatato a dismisura. Allora si ricomincia e il bisogno avanza – lo senti, in molti ne avvertono la mancanza: di ripristinare quanto estromesso, il filo che lega all’origine. Ritenderlo per guadagnare radice e fondatezza, presenza certa, pur nello stordimento, nella linea che dallo scompiglio attenta allo scopo e al senso.
È così che un numero consistente di poeti tornano a parlare di preistoria, arpionarsi a quella roccia, la selce, che traccia la via e lascia segni. Fino a qui. In una scia di sangue e balbettii. A cui ci si appoggia per far dritta la schiena e incidere il regno dell’uomo che impone mano violenta e si dice trovando parola e catena di storie. Così nell’ultima sezione de I corpi Santi, libro d’esordio di Giuseppe Cavaleri pubblicato da Interno Poesia (2024, pp. 92, euro 13, con prefazione di Sonia Gentili). Sono prose – queste ultime di ‘L3’ – che recano due epigrafi (Stevenson e Vitruvio) tese all’arte del racconto, mentre nella prima sezione Ocean Vuong ricordava che «la memoria è una scelta». È consapevolezza emersa a posteriori se è vero, come scrive Cavaleri in una poesia di ‘Mareneve’, che «da bambini non esiste passato. / Si raccolgono i rami dalla terra / e si battono sulla cancellata: / non si bada alle ombre che ci inseguono, / alle impronte di sé che si lasciano, / alle scintille della molatura / sui corpi in continua trasformazione»: per quei bambini il mondo è «un vaso di serpi non scoperchiato».
Ma poi il tempo avanza («crescere non vale mai la pena / e non è mai tempo di tenerezze, / ma archeologia e scavo su sé stessi») e insegna, accumula e ritorna:
Adesso che gli anni sono calati
con i loro spiriti umidi sul legno,
avevamo deciso di darlo via,
il baule bordato di stagno e oro.
L’avevamo patinato di bianco,
e il verde spuntava da qualche ammanco.
Ma l’antiquario sapeva gli inganni,
faceva da anni il mestiere, ci disse
che bisognava guardare la schiena:
lì la materia si usura e il tempo
infonde il segno, rivelando il trucco.
Così vite ricoprono altre vite
tracciando un solco,
un’impronta che valica i confini
e si fa segno di un lascito:
imprimere passaggi sugli oggetti
l’atto del fare, l’atto del marchiare.
Protagonista assoluto, il tempo è percorso avanti e indietro, si sbanda tra individuo e collettività, dai ricordi d’infanzia e adolescenza del poeta al vissuto in presa diretta dei primi uomini, inermi di fronte al creato e al proprio esistere («Scagliati in un soggetto più grande, / siamo parte di un colosso che ingloba. / Cerchiamo il perché dell’essere luogo, ma sono deittici gli unici indizi: / qui e ora, dove siamo stati gettati»). Potremmo dire con Jean Luc Nancy che si accede alla verità dell’origine ogni qualvolta siamo in presenza gli uni degli altri e insieme di tutto l’essente, perché originaria è la venuta, ogni volta una, di ogni presenza del mondo. Lo spazio lo accompagna, accompagna il tempo. Quello saturato che ha ucciso la Storia. Anche lui si sposta, quindi, e si modifica, apre la raccolta puntando il faro su Milano e i Corpi Santi – i borghi fuori dalle Mura Spagnole, borghi agricoli con cascine istituiti nel ‘700, corrispondenti alle sei porte cittadine e a quelle che forse sono ancora oggi sentite come periferie – si allunga sulla Mareneve, la strada che collega la parte nord-orientale dell’Etna con la costa («è dove si nasce la misura del mondo», e Cavaleri è originario di Catania), dove si apre il giardino e piovono i ricordi, dove stanno i cimiteri (così inizialmente i Corpi Santi con i fuochi fatui) e il Borgo (anche qui), la montagna e la strada da cui guardare le cose dall’alto (perché ce n’è bisogno), e poi sfocia in Polonia. Qui, nel 2011 è stata scoperta una fossa comune risalente al Tardo Neolitico-prima età del bronzo. La Polonia, quella che apre la prima sezione con le due signore polacche sedute sulla 93, linea dell’ATM che unisce Corvetto, Milano Sud e Lambrate, tra riqualificazione e degrado: «La 93 è una ferita che raccoglie / la fame che taglia tutta Milano. / Nei minuti incerti tra buio e luce / i contorni sfumano e lo spazio / si fa una giostra di vite che migra / e prende la consistenza della luce, / che trema sugli oggetti e poi scompare».
«Questo singolare libro» scrive Sonia Gentili nella prefazione, ha «una complessa architettura», una trama che lega il tutto e si intuisce forte grazie ai nodi del poeta che stringe, stringe e cesella: «Le persone mi parlano, mi passano davanti, / mi scivolano salutandomi nel pomeriggio. / Io però non sono più io, anzi non esisto / sono solo un pozzo dove le storie finiscono / e cadono, cadono senza perdersi mai». Quelle storie sono il dono del poeta, l’argilla che salda spazi e tempi.
Forse è a loro che lo dobbiamo
il colpo di vento che c’accende dentro,
costringendo a pensare le parole
come a un’argilla da impastare.
Un ottimo esordio, questo di Giuseppe Cavaleri!

Prose poetiche
Interno Poesia
2025
92 p., brossura