Laura Vargiu è nata a Iglesias, nel sud della Sardegna. Laureata in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Cagliari con una tesi in Storia e istituzioni del mondo musulmano, è presente con poesie e racconti in diverse raccolte antologiche nazionali. Vincitrice del Premio Letterario “La Mole” di Torino nel 2013 e autrice di alcune pubblicazioni di poesia e prosa, tra cui “Il cane Comunista e altri racconti” (L'ArgoLibro Editore), fa parte della redazione della rivista di poesia e critica letteraria “Nuova Euterpe” e della giuria di alcuni concorsi letterari.

“Nelle falesie dell’anima” di Gavino Puggioni: tra le falesie delle umane speranze

Di Laura Vargiu

“L’avevo visto quel bambino
son passati tanti anni ormai
l’avevamo visto noi tutti
quel bambino in compagnia
della sua solitudine
migrare da una terra all’altra
con quella chiave simbolica
nelle sue mani

[…]

Apritemi quella porta!
dietro di essa
c’è il mio mondo
c’è la mia speranza
quella che mi avete rubato
quella che state uccidendo
quella che io voglio salvare

[…]

Apritela! quella porta
la Terra è nostra
vogliamo viverla!”

(da “Il bambino con la chiave”)

È poesia aspra e dolce, ombrosa e dai colori abbaglianti, sconfortata e speranzosa quella che s’aggira tra le falesie dell’anima di cui scrive Gavino Puggioni in questo suo lavoro dal titolo particolarmente affascinante di oltre un decennio fa.

Poesia peregrina che affonda le proprie orme in vallate di silenzio e d’ombre, prati ammutoliti, sentieri di bimbi abbandonati, deserti affollati d’indifferenza e di tutte le miserie umane sotto cieli vuoti nei quali volano alla deriva brandelli di civiltà, la nostra, “che vuol sembrare… ma non è”, mentre lo scorrere imperturbabile del tempo segna nel profondo il nostro vivere d’ogni giorno.

Ed è proprio in questo fluttuare, di tempo, di spazi, di emozioni, che si leva la voce del poeta, facendosi urlo acuto e straziato che punta il dito contro le brutture e le vergogne del mondo fino a mutarsi in carezza che scivola, delicata e a tratti malinconica, lungo i luoghi dell’infanzia e i paesaggi ventosi e assolati di una terra natìa tanto amata, dove attecchiscono radici profonde che non si possono né si vogliono dimenticare. “Argentiera in gennaio” è soltanto una delle varie liriche che dipingono a parole quadri meravigliosi che, in virtù di quella magia sorprendente che la buona scrittura sa compiere, si svelano agli occhi di chi legge; e allora ci si abbandona volentieri all’onda, come una di quelle piccole barche in cerca della rotta, seguendo pigramente ali di gabbiani in volo e, magari, ci si lascia pure scivolare dalle ripide scogliere scolpite dal vento e dal mare ché il rischio è soltanto quello di tuffarsi nelle profondità insondabili dell’anima. Un modo certo più straordinario di tanti altri per intraprendere un lungo viaggio alla volta di quelle “umane emozioni” che il sottotitolo dell’opera prefigge come meta.

Già, perché lo scrivere di Gavino significa senza dubbio un incessante viaggiare:

“[…] ho costruito strade di pensieri / ed in queste mi sono perduto / non c’erano segnali / né luci né ombre / c’ero solo io”

Ma la sua poesia, per quanto si riveli un vagare solitario, è un discorrere di sé che non dimentica gli altri, siano essi gli affetti del proprio quotidiano o i volti sconosciuti delle periferie più estreme di quella metropoli ormai abnorme chiamata mondo.

Tale attenzione e partecipazione alle altrui sofferenze non possono che essere considerate un pregio nella scrittura: la penna, non dimentichiamo, conserva sempre potenzialità di arma dalla lama affilatissima e chi la impugna sa di non potersi esimere, nel suo piccolo, dal farsi carico dei mali del proprio tempo, così come dei drammi della Storia, presupposto indispensabile per guardare al futuro con speranza che non sia infine vacua. Un engagement che si tiene quindi lontano da ideologie e astrusità di parte, ma che dà voce a chi non ne ha e chissà se potrà mai averla.

Nei versi dell’autore, tra le sconfinate e inermi masse di diseredati, un posto del tutto particolare occupano i bambini, a partire non a caso dal bambino con la chiave, quello dell’omonima poesia, che vagabonda da un posto all’altro e parla a nome di tutti i figli di ogni angolo di mondo, di ieri, di oggi e degli anni che verranno, di quelli che noi stessi siamo stati una volta e di cui non dobbiamo perdere memoria, nemmeno quando si fa sera.

Una raccolta, questa di Gavino Puggioni, che merita di essere conosciuta, letta e riletta, nonché apprezzata per la musica delle sue parole, per il profondo senso di umanità in esse contenuto e per il messaggio di speranza, non meno profondo, che infine ci regala.

Nato nel 1939 a Porto Torres, in provincia di Sassari, il poeta Gavino Puggioni è venuto a mancare lo scorso mese di gennaio. Scriveva sin dalla giovane età; le pubblicazioni delle sue prime poesie sulle riviste letterarie risalgono alla fine degli anni Cinquanta. Oltre a Nelle falesie dell’anima (autopubblicato nel 2013), aveva all’attivo diversi altri titoli, tra i quali Finagliosu (Magnum Edizioni, 2003), Le nuvole non hanno lacrime (Edizioni Il foglio letterario, 2010), Afonie indispensabili (Edizioni Thoth, 2017). L’ultima raccolta, Pensieri in volo, è stata autopubblicata nel 2019. Numerosi i riconoscimenti ottenuti nell’ambito di diversi concorsi di poesia, nazionali e internazionali.

Nelle falesie dell'anima Book Cover Nelle falesie dell'anima
Gavino Puggione
Poesia
Autopubblicazione
2013
128 p.,