Giovanna Dal Bon è nata a Venezia. Vive da sempre la scrittura come ecoscandaglio per sondare diversi piani di realtà; ne insegue la crepa e l'erosione fino ad installarsi nella parola poca. Fulminanti gli incontri e definitivi i congedi.

Elogio del libro come manufatto in sei movimenti

Di Giovanna Dal Bon

 Fragilità della carta nel duraturo accogliere la parola. Dita che muovono agili nel frusciare, sfogliare. Il libro è manu factus: fatto a mano. fatto per la mano:  per il palmo che schiude per accoglierlo. Leggervi dentro è apertura alare di un volo da fermi. Il libro abita silente lo spazio che gli si assegna. Procede dal silenzio per custodire il sommesso mormorio della parola che a tratti può farsi  lacrima-sussulto-grido-monito. Il libro affratella il gesto, impone il suo velocelento ritmo: schiudere-serrare/contrarre-espandere/trattenere-lasciare. Ritmo vitale di narice: respiro-soffio: lettura. Nel suo naturale essere con noi, condividere identico spazio, è corpo in nudità di carne ed ossa, senza infingimenti. Consistente presenza che imperiosa ti convoca, cattura: ti esige.

 Il libro invita donandosi. Impone la sua legge. Vitalità liturgica di un gesto che ripete; pneumatico: antropologico. Impigliato nelle spire elicoidali del dna di una specie. Eco di  genealogica discendenza. Tra le prime necessità dell’uomo è lo scrivere;  per arginare il tempo che scorre: stigmatizzare l’urgenza; tramandare. Il libro diviene capace di  accogliere i germinanti  segni dell’uomo. Irriducibile necessità dell’esprimersi, comunicare, raccontare: del restare.  Prima di lui la pietra o nudità di roccia, poi la pergamena, antenata nobile della carta.  Il primo libro come l’ultimo è tenace sentinella del silenzio. Fatto per contenere scrittura ne è ricettacolo.

Quasi sempre il  libro ti viene incontro, ti precipita addosso inatteso, chissà da quanto è sulle tue tracce, da quando ti sta braccando prima di scovarti; ti sceglie: ti elegge. Il libro è pane e vigilanza. Sentinella di notti che non estinguono. Esperienza tattile nell’era dell’anonimo concitato ticchettio; del carattere liquido e riflettente su schermate impersonali. Il libro ha consistenza familiare, sensoriale. La carta ha odore, spessore; invecchia con noi. Parola che impressa resta: parola data. Spazio domestico del rimanere il libro  dice lettura-silenzio-raccoglimento; dice anche precarie avventure nel crinale del muoversi, di schienali e rotaie, effimeri scambi di sguardo,  paesaggi mutevoli;  folla e isolamento. Edmond  Jabès, cantore del deserto, dell’esilio fatto libro, lo indica fondamentale compagno di estraneità “Uno straniero con sottobraccio un libro di piccolo formato” è  vademecum di erranza biblica: libro-esodo libro-viatico libro-ospitalità e interrogazione mai sopita.

Un vecchio che muore è una biblioteca che brucia, recita un detto africano. Libro e fuoco; un sodalizio che rinnova nei secoli. Per sopprimere la voce viva di una civiltà si mettevano al rogo i suoi libri,  per cancellarne la memoria autentica. Il rogo archetipico che ha segnato la storia dell’umanità è quello della Biblioteca d’Alessandria; andata a fuoco per ben quattro volte sotto il patrocinio di diversi monoteismi inabissando un sapere inestimabile. Se il  fuoco non è  che cenere innamorata, come sosteneva Foucault, il libro ne è  il figlio amatissimo, ed i suoi lapilli hanno impollinato fiori disseminati ovunque.

 Si intesse l’elogio di  qualcosa che si sta per perdere, se ne esorcizza una possibile definitiva sparizione. Nel “libro della sovversione non sospetta” Jabès ancora una volta identifica il libro con lo stato d’esilio: “prende forma nel momento in cui scompare, come una traccia intravista sotto la sabbia (…)”. Sottoposto a continue trasformazioni  nel tempo e nelle ere come creatura vivente. Il libro nel Medioevo prendeva forma ed esisteva solo nelle comunità monastiche; avamposti di un sapere in simbiosi con regola e preghiera. I monaci amanuensi lo scandivano in miniate modalità liturgiche. Sottratto al consumo e al riprodursi. Già nel XII secolo con l’avvento delle scuole urbane avviene la translatio culturale dai monasteri alle città e anche il libro ne è travolto. Nel ponderoso “Civiltà dell’occidente medievale” Jacques Le Goff indica che “il libro diventa uno strumento. Come un qualsiasi attrezzo, tende ad essere fabbricato in serie, è l’oggetto di una produzione, di un commercio”. Inizia dunque a perdere la sua aura di sacralità.

Nell’era del digitale, dell’incorporeo, delle artificiali intelligenze, il libro sembra destinato ad essere  specie in estinzione. Tramonterà forse l’era della carta, dell’inchiostro che indelebile si fa parola. Segnerà l’avvento di un  libro assente, che non si potrà tenere in mano e proprio per questo teso a proliferare con vigore postumo:”(…)nello spazio inesplorato vi è un libro dalle mille vie ingombre di segni, il quale, aspirato dal vuoto continuerà fino alla fine dei tempi a rotolare in anarchia (…)”. Il libro ultimo avrà bagliore di parola ultima e superstite forse rinascerà come araba fenice dalla sua stessa cenere.

In copertina foto dell’autrice Giovanna Dal Bon