Pietro Romano (Palermo, 1994) è laureato in Lettere. È autore di due raccolte di poesia, dal titolo Il sentimento dell’esserci (Rupe Mutevole, 2015) e Fra mani rifiutate (I Quaderni del Bardo, 2018). I suoi versi sono apparsi in riviste nazionali e internazionali e tradotti in greco e spagnolo. Attualmente, frequenta il corso di Laurea Magistrale in Italianistica presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna.

Di Pietro Romano

L’incontro svoltosi a Bologna mi ha consentito di riflettere sulla personalità di Gagliani: indiscussa propensione all’inchiesta, messa a nudo delle lacerazioni contemporanee e interesse a demistificare le ideologie dominanti definiscono una tempra improntata all’azione civile come poche. Impegno e disincanto (I Quaderni del Bardo, 2018) è un’opera saggistica di notevole spessore, imperniata – come annota, opportunamente, Marcello Aprile in prefazione- su uno schema ben preciso: una struttura a rombo al cui vertice è Pasolini, ai cui angoli vi sono De André e Gaber e al cui vertice basso Rino Gaetano.

L’intento dell’autore è quello di seguire un percorso interpretativo volto alla ricerca dell’Umanesimo Nuovo, sulla scia di quattro campioni designati per assicurare ai lettori uno sguardo lucido e circostanziato dinanzi al presente.

Il saggio introduce da subito al significato del verbo disincantare. Da qui prende avvio una trattazione a carattere demistificatorio, identificando in Pasolini colui che meglio di ogni altro ha saldato l’odierno secolo alle epoche precedenti, e in Gaber, Faber e Gaetano le tre corone del cantautorato italiano. Gagliani riconosce negli artisti citati un punto di riferimento imprescindibile per potere incidere sul presente e sottrarlo alla malia fascinosa della corruzione.

Annibale Gagliani (Foto da facebook)

L’epopea del disincanto, allora, cessa di essere solo una definizione diventando agli occhi dell’autore il fine al quale tendere.

Il «tornado mortifero dell’omologazione» ha portato con sé immani conseguenze ai danni delle realtà particolari impoverendo l’espressività linguistica e assoggettando l’individuo alle leggi del mercato. «Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei jeans Jesus: Non avrai altri jeans all’infuori di me».[1] Pasolini ben teneva conto del fatto che, con l’unificazione dell’assetto socio-politico e culturale sotto un unico codice espressivo, si sarebbe andati incontro alla perdita delle realtà particolari. E dunque, perché non vedere nel dialetto una forza salvifica contro il dilagare del consumismo? Solo regredendo alle radici di un mondo autentico, quello delle lucciole, si poteva, per l’intellettuale corsaro, ricostruire il presente dalle sue rovine. Essere eretici, significava, ed “eresia” era il termine chiave all’insegna del quale si svolgeva l’opera cantautorale di Fabrizio De André. L’intellettuale spaventa, specie se getta polemicamente la verità in faccia ai potenti: per questo, nelle decadi degli anni Sessanta e Settanta, la canzone di protesta viene censurata dai media di Stato, poiché difforme dalle logiche consumistiche del guadagno. Faber guardava alle figure dell’alienazione e dell’esilio e al formicolare delle strade, ricercando il dio dei sofferenti come proposito ultimo di un’umanità oramai infranta. Il testamento di Tito si erge a manifesto di questa poetica che riscatta gli ultimi e attrae il divino verso il basso:

Non nominare il nome di Dio,

non nominarlo invano.
Con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome:

ma forse era stanco, forse troppo occupato,
e non ascoltò il mio dolore.
Ma forse era stanco, forse troppo lontano,
davvero lo nominai invano.

De André sventa l’ipocrisia borghese implicita nei precetti religiosi, rivelandone la violenza sferzante contro chiunque risulti estraneo alle sue logiche. Mettendo in discussione il potere, con il ricorso a un linguaggio disincantato, l’intellettuale può smascherare il volto che si cela dietro una finta democrazia. Questo è quanto si propone il cantautorato filosofico di Giorgio Gaber:

Ora si tolgono i mantelli
son già sicuri di aver vinto
anche le maschere van giù
ormai non ne han bisogno più
son già seduti in parlamento


Ora si possono vedere
sono una razza superiore
sono bellissimi e hitleriani
chi sono chi sono
sono i tecnocrati italiani


Ein zwei ein zwei
Alles kaputt

E l’Italia giocava alle carte
e parlava di calcio nei bar

La disamina sulle contraddizioni della contemporaneità affronta il tema del destino individuale: in un’epoca dove le imposizioni del potere si compenetrano strettamente con le leggi del mercato, a prevalere è l’isteria. L’individuo si sente in disarmonia con un contesto che lo stritola e lo relega «dall’altra parte del cancello»:  

Ho visto un uomo matto
è impressionante come possa fare effetto 
un uomo solo abbandonato dimenticato 
dietro le sbarre sempre chiuse di un cancello.

Noi fuori dal cancello noi che siamo normali 
noi possiamo far tutto 
noi che abbiamo la fortuna di esser sani
noi ragioniamo senza perdere la calma 
col controllo di noi stessi senza orribili visioni.

Noi siamo sani noi siamo sani
noi siamo fuori dai problemi della psiche 
sempre in pace col cervello e con i nostri sentimenti 
così normali i nostri gesti equilibrati 
non danneggiano nessuno sempre lucidi e coscienti.

Il diverso è colui che nell’ottica borghese non è capace di contribuire al destino di una società. Per un intellettuale che vede frustrate al cospetto del reale ogni aspirazione utopica non resta che l’amarezza di un mondo che «gli fa male»:

Mi fa male il mondo mi fa male il mondo
Mi fa male il mondo mi fa male il mondo

Mi fa male più che altro credere
Che sia un destino oppure una condanna
Che non esista il segno di un rimedio
In un solo individuo che sia uomo o donna

Mi fa male il mondo mi fa male il mondo

Mi fa male più che altro ammettere
Che siamo tutti uomini normali
Con l’illusione di partecipare
Senza mai capire quanto siamo soli

Mi fa male il mondo mi fa male il mondo (…)

Ma l’arte nasce dal tentativo di trascendere, con la forza immaginifica, tutto ciò che il reale circoscrive e offusca. Da queste considerazioni prende le mosse la poetica di Rino Gaetano, il quale «carica la canzone disperatamente solidale (…) di reconditi quanto affascinanti significati»:

Mio fratello è figlio unico
Perché non ha mai trovato il coraggio d’operarsi al fegato
E non ha mai pagato per fare l’amore
E non ha mai vinto un premio aziendale
E non ha mai viaggiato in seconda classe
Sul rapido Taranto-Ancona

E non ha mai criticato un film
Senza prima, prima vederlo

Mio fratello è figlio unico
Perché è convinto che Chinaglia
Non può passare al Frosinone
Perché è convinto che nell’amaro benedettino
Non sta il segreto della felicità
Perché è convinto che anche chi non legge Freud
Può vivere cent’anni

Perché è convinto che esistono ancora
Gli sfruttati malpagati e frustrati (…)

Il fratello figlio unico di Rino Gaetano, pur conducendo un’esistenza «in barba a centinaia di psicanalisti boriosi», aderisce con immediata spontaneità all’altro, senza timore di palesare le sue idee: pur non leggendo Freud, un uomo può vivere serenamente. È la coscienza che esistano i malpagati e gli sfruttati ad agitarlo, e fra questi vi sono proprio lui e suo fratello Mario, dimagrito, represso, calpestato e odiato. Gaetano è vicino agli ultimi e non esita a impugnare voce e penna in loro nome per denunciare i soprusi di una società fondata sul capitale:

Essence e benzina o gasolina

soltanto un litro e in cambio ti do Cristina

se vuoi la chiudo pure in monastero

ma dammi un litro di oro nero.

L’incremento dei prezzi del carburante induce il cittadino comune a sacrificare di tutto, «anche Cristina». L’isteria è alle stelle e l’unico modo per risarcire il presente è credere in un radicale cambio di passo:

Gianna Gianna Gianna sosteneva, tesi e illusioni
Gianna Gianna Gianna prometteva, pareti e fiumi
Gianna Gianna aveva un coccodrillo, ed un dottore
Gianna non perdeva neanche un minuto, per fare l’amore
Ma la notte la festa è finita, evviva la vita
La gente si sveste e comincia un mondo
un mondo diverso, ma fatto di sesso
e chi vivrà vedrà…

Gianna Gianna Gianna non cercava il suo pigmalione
Gianna difendeva il suo salario, dall’inflazione
Gianna Gianna Gianna non credeva a canzoni o UFO
Gianna aveva un fiuto eccezionale, per il tartufo
Ma la notte la festa è finita, evviva la vita
La gente si sveste e comincia un mondo
un mondo diverso, ma fatto di sesso
e chi vivrà vedrà…

Gianna sfida le gerarchie del suo tempo affrontandone le contraddizioni. Ella difende le proprie idee e, sognante, si smarrisce in dolci illusioni. È il prototipo di una donna libera da ogni condizionamento culturale, perspicace e desiderosa di «non perdere neanche un minuto per fare l’amore».

Tracciando questo itinerario che da Pasolini conduce a Gaetano, Gagliani propone, in un unico quadro, una via interpretativa alla luce della quale scandagliare i mali del nostro tempo. Intuirne le radici. Rimediare, disincantandoci.


[1] Pasolini P.P., Il folle slogan dei jeans, dal Corriere della Sera del 17 maggio 1973

Impegno e disincanto Book Cover Impegno e disincanto
Annibale Gagliani
Saggistica
I Quaderni del Bardo di Stefano Donno Editore
2018
298 p, rilegato