Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

Una verità da trovare percorrendo le strade intorno a Pisa

Che cos’è la verità, quella dell’individuo?
La verità è una strega, il suo incantesimo.
Quale dei due?
Poco ci interessa visto che non siamo né l’una né l’altro.
Ma, diciamo, possiamo sentirne la suggestione per metterci in relazione con quel mistero: il mistero dell’uomo che non si trova se non in quel suo essere perennemente traslato su un piano altro; e poi trarne le conclusioni, le somme che si tirano solo alla fine, cioè sul finale della storia: la propria, quella di ognuno- che può essere il termine della vita o la chiusura di un certo percorso; quindi da mettere nuovamente in discussione per l’ennesimo appassionante giro di giostra. Un finale aperto, insomma, e un capogiro in cui l’esistenza si riassume.
Ecco: la relazione… è su questo che s’interroga il protagonista del quarto racconto delle Sette storie gotiche, “Le strade intorno a Pisa“, della nostra amata Karen Blixen.
È una bella sera di maggio dell’anno 1823 e il conte Augusto von Schimmelmann, un danese in fuga dal suo matrimonio, si ritrova nel giardino di un’osteria nei pressi di Pisa a scrivere una lettera all’amico Carlo nel tentativo di capire quale sia la sua consistenza. La verità di un uomo su un’isola deserta si perde. La forma è nulla se non è condivisa. “Come il tempo, la verità è un concetto che nasce e dipende dai rapporti umani”, si dice Augusto. Quelli che si intrecciano e ci portano dove non possiamo sapere, dove non possiamo neanche immaginare, come ben sa l’altro Augusto, quello del romanzo di Unamuno, Nebbia, che si interroga sulla verità e finisce per scoprire di essere uno dei personaggi di Unamuno stesso. Perché in agguato c’è sempre quella strega, secondo la Blixen, che stravolge tutto attraverso un disegno, per noi, imperscrutabile.
La trama è questa: Augusto soccorre una vecchia dama, la cui carrozza si è rovesciata sul ciglio della strada, e lei gli racconta la sua storia chiedendogli di cercare sua nipote per portarle un messaggio di riconciliazione. Quella ragazza, Rosina di Campocorto, sposata contro la sua volontà al Principe Posenziani, un vecchio istrionico ma impotente nobiluomo (la cui descrizione è uno dei felicissimi esempi dell’abilità della scrittrice), chiede l’annullamento del matrimonio alla Sacra Rota per sposare suo cugino. Augusto troverà tutti i protagonisti della storia in un’altra osteria: il Principe, in compagnia del Principe Nino, e l’amica di Rosina, motore di un ulteriore risvolto dell’intreccio. Ma quel che ci interessa notare è il discorso che imbastisce la scrittrice, il cui tassello fondamentale, lo snodo per comprenderlo più a fondo, è la visita al teatrino delle marionette.
Vi si rappresenta La verità vendicata, un testo cui la Blixen aveva posto mano diciannovenne, e che rimaneggiò nel 1912 e ancora nel 1925. La commedia fu poi rappresentata al Teatro Reale di Copenhagen e trasmessa alla tv. Per una delle ultime repliche, nel 1960, Karen chiese che la strega fosse rappresentata da un’attrice che le assomigliasse.
Fin da subito, quando la scrisse nel 1904 per il teatrino di famiglia (uno degli svaghi amati dalle classi agiate del diciannovesimo secolo), riservò per sé quella parte: quella della strega che mette in guardia sull’impossibilità di essere più astuti del destino e che getta un incantesimo che permette alla verità di manifestarsi. È lì che, precocemente, si rivela il fatalismo dell’autrice che, sul finale, fa dire all’ingenua Sabine: “Quando iniziammo, nessuno sapeva quale sarebbe stato il suo ruolo, noi stessi non lo sapevamo, come si può sapere come apparirà un personaggio sul palcoscenico? Ma ora abbiamo recitato la nostra parte, l’abbiamo recitata per intero e, quando calerà il sipario, nessuno potrà avere dubbi su quello che realmente siamo stati”.
Ancora una volta spunta il discorso sulla Nemesi, perché l’autrice è convinta che la vita non sia tutta sogno, che non sia un’ombra che cammina e che poi non significa nulla (come il Macbeth shakespeariano pensa prima che gli si palesi l’ulteriore scherzo delle streghe), ma ci sia, appunto, una necessità, la mano di un “Artista” più grande, il cui disegno noi possiamo scorgere solo alla fine, e per intero. Dunque dobbiamo metterci in relazione, fare dell’altro uno specchio. E seguire le mille girandole dell’esistenza, notando le coincidenze, riportandole alla luce e poi di nuovo all’oscurità della caverna che siamo, nel nostro cuore come una chiesa buia ma infine illuminata per la messa che, sfarzosamente, vi si celebrerà.