Cristina M. D. Belloni nasce in Lunigiana e si trasferisce in tenera età in Liguria. Dopo aver seguito studi artistici si interessa appassionatamente ad approfondire i meccanismi e l’evolversi della storia dell’arte contemporanea. Proprio in qualità di critico d’arte e corrispondente, durante tutti gli anni ’90, ha firmato saggi e recensioni per alcuni dei maggiori periodici del settore, tra i quali: Terzoocchio delle edizioni Bora di Bologna, Flash Art di Milano Julier di Trieste . Inoltre affiancherà attivamente la famosa galleria d’Arte avanguardistica Fluxia durante tutto il periodo della sua esistenza. Nel 2010 pubblica il suo primo romanzo: “La strana faccenda di via Beatrice D’Este”, un giallo fantasioso e “intimista”.

PERCORSI

Questo è la storia di una macchia sul muro.
Una grande e complessa colatura marrone i cui fitti andamenti orizzontali e verticali si intersecavano e sovrapponevano, con diverse consistenze e forme, gocce allungate e rigonfiamenti.
Un insolito labirinto cromatico, finito per caso sulla parete dello studio di pittore, dell’allora mio ragazzo che dipingeva in dripping.
Ma è anche il racconto di un viaggio nel variegato marasma della mia esistenza e, in qualche modo, della mia mente.
Un pellegrinaggio reale e metaforico al tempo stesso, senza logiche apparenti, intrapreso per gioco attraverso quel delicato groviglio marrone sulla parete bianca verso un domani immaginato fumosamente ricco e pieno e rivelatosi poi difficile e banale.
Mi piaceva guardare quella forma composita e articolata. Sembrava una mappa, un intrico di canali di una laguna, un fascinoso tragitto in una delle “Città invisibili” di Calvino.
Restava una presenza costante nel piccolo seminterrato che era allora, nei cupi e fumosi anni settanta, il nostro rifugio dal mondo. Lo “studio” come lo chiamavamo seriosamente. La base sicura da dove pianificare tutti i futuri possibili per due ragazzini innamorati e ribelli.
Ed io osservavo quella filigrana colorata dal vecchio divanetto, nel dolce, tiepido torpore che assale dopo aver fatto l’amore avvolti nel sacco a pelo. Quando lui mi si addormentava accanto, nei lunghi pomeriggi trascorsi insieme dopo la scuola.
La vedevo con gli occhi socchiusi, scorrendo percorsi e figure sempre diversi al suo interno, come capita guardando le nuvole o il legno contorto di una radice e vi si scorgono strane costruzioni, animali, facce, caricature, sguardi….
Poi venne il tempo di crescere.
Il tempo tumultuoso nel quale la realtà reclama beffarda i sognatori.
Un figlio inatteso in arrivo rimodellò la nostra vita.
Al lieto stupore di scoprire un piccolo essere muoversi dentro di me, si sovrapposero i timori e le preoccupazioni, le incomprensioni e gli affanni. La ricerca di un lavoro, di una casa, di un assetto stabile per “costituire” una famiglia.
Dovemmo lasciare la piccola stanzetta della nostra adolescenza per stabilirci nel piccolo appartamento della repentina trasformazione in adulti.

Abbandonammo là dentro le velleità, le ambizioni i sogni giovanili, per immergerci nostro mal grado nella quotidianità pratica e faticosa dei doveri, degli impegni, delle sveglie che suonano prima dell’alba.
Qualcosa però portai con me. Forse per non perdere del tutto la magia di quei pomeriggi lenti e dolci, passati ad elaborare tele e teorie esistenziali.
Presi un foglio di carta lucida trasparente, di quelli che si usano in architettura, lo fissai al muro e vi riportai, tracciandone diligentemente i bordi, tutta la siluette della grande colatura.
Avrei riempito l’interno delle sue vene con i disegni delle bizzarre strutture e forme che avevo solo immaginato.
Avrei lasciato che la mia fantasia ritrovasse almeno in parte le tranquille e giocose atmosfere del tempo in cui la fretta di crescere non le fa assaporare pienamente.
Quando?
Non sapevo quando. Tra il lavoro, il bimbo, la casa da accudire, le incombenze e tutto il resto, non mi restavano troppi momenti da dedicare a me o a quello che mi interessasse.
Infatti il foglio rimase per molto arrotolato all’interno di un armadio; ed anche per il compimento della sua stesura ci volle un lungo periodo della mia vita.
Finché un giorno aprendo quell’armadio, notai far capolino dietro una pila di lenzuola, il cilindretto porta disegni che sapevo contenere il tracciato della macchia.
Lo srotolai delicatamente e ancora la magia delle sue forme contorte ravvivò la voglia di scoprirne i segreti.
Fu così che inizia prima a matita, poi con la china nera, a far emergere a poco, a poco il paesaggio fantastico e surreale che la mia mente scorgeva nel dipanarsi delle linee e dei volumi.

In principio mio padre.
Non c’era nessun indizio dell’identità, ma sapevo fosse lui.
Un padre sentinella, vestito come un alabardiere quattrocentesco, visto di schiena.
Una figuretta solitaria, secolare, di legno nodoso, con un buffo cappelletto sulla testa e una lancia sbilenca, decorata a bande bianche e nere su cui si poggiava . Trovato li, a guardia di un qualche passo montano alle sue spalle, o di una stretta gola che si apriva su un vasto orizzonte.
Dalla sua testa usciva una nuvoletta, un “fumetto” che racchiudeva una casetta, quasi una capanna che si andava trasformando in una maschera: uno strano, greve personaggio dai lunghi baffi spioventi. Un sogno, un desiderio. Il mio, il suo, chissà…
Era il primo personaggio apparso. Venuto fuori da sé, a sinistra del livello superiore. Si direbbe a sancire l’inizio della storia. Della mia presumibilmente.

Mio padre. Anche se la sagoma in sé non gli somigliasse affatto: molto più magra dell’originale così come lo ricordavo gli ultimi anni della sua vita. O forse era la sua immagine
giovanile, quando la pinguedine non l’aveva ancora raggiunto e le nostre idee non si erano ancora così allontanate.
Immagine della quale ora, ho solo vaghi ricordi.
Il tempo lontano quando davvero rappresentava il baluardo sicuro dietro cui nascondersi dall’estraneità del mondo.
L’epoca dimenticata della disciplinata bimbetta, che andava a letto dicendo le preghierine, in mezzo ai pupazzi, nella fresca ampia stanza. E voleva le persiane ben chiuse, per paura che con la luce notturna entrassero gli spiriti vaganti dei suoi incubi, temuti e amati al tempo stesso.
Prima che la vita mi inghiottisse tra normalità e tacchi a spillo, mostri dell’hid e disillusioni.
Certo allora le prospettive erano nebulose ma infinite.
Anzi: potenzialmente infinite ma proprio perché nebulose e sognanti già limitate in partenza.
Già inficiate dal morbo strisciante, trasmesso geneticamente della disistima personale tipica della piccola gente, delle persone umili.

Stranamente mancava mia madre. Non c’era proprio. Solo dopo me ne accorsi.
Mentre la figura paterna dava, per così dire, inizio alle danze, lei non sbucava fuori da nessuna parte, se non in piccoli indizi: nei vecchi rubinetti, nei mestoli appesi, nei jolly attoniti usciti per sbaglio dalle sue infinite e nervose partite a ramino con le amiche, nelle vertiginose scarpe con i tacchi che gocciolavano da chissà dove.
Del resto era di per se, una presenza forte e ingombrante quella di mia madre.
Bella, la più bella del paese. Di quelle bellezze mediterranee con i tratti regolari e il corpo procace. Ma per nulla raffinata nei modi. Le sue origini contadine si mischiavano ad una lontana ascendenza nobile, persa nei meandri delle generazioni passate.
Romantica fino all’autolesionismo, arrivando a raccontarsi balle pur sapendo che lo fossero. Sempre inquieta primadonna fingendo di non esserlo. Capricciosa e battagliera, despota urlante e brontolona. Fragile nella psiche e nel corpo, eternamente afflitta da malattie reali o immaginarie. A modo suo chioccia e generosa, anche se il “no!” rappresentava sempre la sua prima risposta a qualsiasi richiesta.

Non era a lei che assomigliavo.
Bruttina e goffa. Goffa soprattutto. Avvolta nelle bende fastidiose ed appiccicose della mia cronica timidezza che tentavo disperatamente di scrollarmi di dosso.
Né è, per me ora, traccia evidente il grande robot di lamiera e bulloni comparso nel disegno al centro del secondo livello, proprio sotto un improbabile quanto surreale intreccio gocciolante e ingarbugliato, fatto di alberi contorti, pipistrelli,
occhi e faccette e mani afferranti, lische di strani pesci, gatti e giraffe scaturenti da radici, vecchi scarponi e altre fantasiose metamorfosi.
Un “uomo di latta” di cui si scorgevano solo la testa e le braccia allungate. Al posto delle mani tubi e rami colanti da un lato e un coccodrillo dall’altro. All’interno si intuisce vuoto. Solo una corazza inespressiva e bonaria ma dalla quale scaturiva, sopra la spalla sinistra, un buffo quanto minaccioso mostriciattolo dai grandi denti e unghie appuntite.
Quello era il mio vero volto? Dietro la piccola, impacciata ragazzetta, dietro la facciata tranquilla e disciplinata si nascondeva davvero un esserino spaventevole, battagliero e forse, malvagio?
Allora non lo sapevo, ma le vicissitudini e le intemperie della vita mi avrebbero fatto scoprire lati inaspettati della mia personalità.

Visto col “senno di poi” il giocoso paesaggio sul foglio da lucido che sembra la rivisitazione moderna e casalinga di un caotico quadro di Jeronimus Bosh . Ha rivelato molti aspetti degli stati d’animo, delle paure, delle inaspettate forze e delle rabbie con cui una esistenza “normale” ha modellato il mio essere.
Spesso è proprio la normalità la più ardua delle prove. Il giorno dopo giorno. Continuando ad adattarsi alle fastidiose pieghe e svolte, alle curve inattese, agli inesorabili ingranaggi, ai colpi bassi, alle molte amarezze e qualche soddisfazione che la vita riserva.
L’immergersi coscientemente nel qui e ora, tentando di risolvere i piccoli o grandi problemi impellenti, essendo ben consapevoli che lo scotto sarà quello di rinunciare ai progetti, alle ambizioni personali, pur sapendo infondo, di andare incontro a disincanti e delusioni, allo scorrere del tempo che affievolisce sempre di più l’eco delle antiche aspirazioni.
Sembra un luogo comune, anzi è un luogo comune: il muro comune dove si infrangono gli ideali e i voli pindarici della giovinezza, lasciando mestamente il posto ai più prosaici “piedi per terra”

Un marito bambino che mal sopportava i doveri e gli obblighi dell’essere “sposato”, un lavoro precario e mal pagato in un ufficetto giallognolo e stantio di “pratiche auto”, un bellissimo frugoletto vispo, fin troppo vispo, che era la mia gioia, accudito per la maggior parte del tempo dalle nonne. Tutto questo rappresentava la mia banale ”normalità”.
Costretta dagli eventi e dalle ingenuità ad abbandonare le giovanili velleità artistiche, barattate per caso o per necessità con un tran-tran quotidiano povero di soddisfazioni e allegria, impastato di fretta e battibecchi, di pannolini e conti da far quadrare.
Tutto questo per amore, o per quello che erroneamente si era creduto un amore eterno e corrisposto in egual misura.
I più vividi rimandi alla vita coniugale nel disegno, corrispondono a tutte le spade, i cavalieri armati di lance e i volatili di svariate specie sparsi un po’ ovunque, che ben ribadiscono le pulsioni di quegli anni.

C’eravamo conosciuti sui banchi di scuola del liceo artistico io e mio marito. Stessa scuola ma classi diverse. Ci incontravamo come tutti, nei corridoi durante l’intervallo. Non ricordo esattamente cosa mi abbia realmente affascinato in lui. I capelli lunghi forse, o l’aria hippy così diversa dagli altri ragazzi che frequentavo. O probabilmente era solo la mia voglia di fuggire dalle solite conformiste regole familiari, dalle idee all’antica dei miei genitori che cominciavano a starmi strette.

Erano quelli il tempo e l’età fatidici degli scontri generazionali. Gli anni settanta, appunto.
Quando il vento libertario e illusorio del ’68 sconvolgeva le famiglie e la società. Quando si era sicuri che proprio la nostra giovinezza, ancora incontaminata, fosse la chiave per creare una nuova, più giusta società. Quando tutto sembrava possibile, anche cambiare il mondo. Prima che l’ipocrita, implacabile tempesta chiamata eroina, si alzasse dalla insospettabile scatola magica del “pace e amore” per stritolare l’anima di chi la incontrava.
Tremenda ammaliatrice, apparve subdolamente tra gli “spinelli” che ci si scambiava, rito pagano, tutti insieme a scuola, come la fata turchina, ad addormentare le coscienze, a sconquassare e distruggere le vite di tanti amici fraterni.
Noi scampammo quasi per caso a quella maledizione. Forse perché troppo curiosi per lasciarci prendere dall’oblio straniante dell’oppiaceo, forse perché presi dall’interesse per l’Arte, o semplicemente perché spaventati dalle conseguenze: dagli inevitabili orrendi cambiamenti che riscontravamo nei ragazzi che ne cadevano preda, dall’ostracismo che la città riservava loro, dagli esti nefasti sulla loro vita fino alle estreme conseguenze…
No, non ci avrebbe agguantato! Per quanto ribelli e insofferenti delle vetuste discipline da “bravi ragazzi”, nonostante le contiguità generazionali con gli ambienti inquinati dalla droga, io ed il mio giovane “pittore” non ci lasciammo irretire, non sprofondammo nel baratro.

Con quel bel ragazzo malinconico e solitario avrei voluto costruire la mia libertà da adulta fatta di esperienze vissute insieme, di gioie condivise, di complicità.
Ma il piccolo particolare che ci sfuggiva allora, era il pesante retaggio di quella cultura contestata, che aborrivamo e combattevamo ma che era inconsciamente e inesorabilmente ancora molto radicata dentro di noi e quindi, a prescindere dalla nostra volontà, inficiava comunque le nostre scelte e i nostri comportamenti.
Secondo di due amatissimi figli di una coppia già avanti negli anni, il mio caro maritino messo alla prova dei fatti da una convivenza con figlio a carico, dai soldi che non bastavano mai, dalle molte incombenze a volte poco piacevoli, rivelò aspetti del suo carattere fino a quel momento a me sconosciuti. Scontroso e insicuro, con lavori saltuari e il giogo più grande di lui di una famiglia sulle spalle, nonostante le sbandierate idee progressiste, faticava non poco ad accettare la nuova condizione di “uomo” sposato.
Così i suoi tormenti da spirito inquieto, le insofferenze e rabbie spesso si trasformavano in assurde prese di posizione ed in immancabili litigi tra noi, sempre più frequenti.
“Hai sposato un artista!” mi dicevano gli amici. Un po’ compiangendomi e un po’ per consolarmi.
Ma quell’affermazione non mi consolava affatto e non mi piaceva nemmeno il sentirmi compatita.
Aumentava invece il ribollire interiore di una ribellione latente allo stato delle cose.
Ribellione tanto silenziosa quanto potente, che si manifestò nel suo pieno fulgore il giorno in cui mi resi conto di non essere l’unica donna nei pensieri del mio “gentil consorte”. Una strana telefonata ed altri piccoli indizi mi fecero capire tutto. Messo alle strette lui non smentì ma inaspettatamente si scaglio verbalmente contro di me, addossandomi ogni sorta di colpe. Ero furiosa. Uscii sbattendo la porta, presi la macchina, la mia fida piccola macchinetta nera, e me ne andai. Lontana da quei luoghi, da quella casa, da tutto il possibile.
Ero allibita e arrabbiata, non riuscivo a capire, non tanto il tradimento in sé, quanto le reazioni di lui che paradossalmente imputava a me tutte le responsabilità della situazione.
Guidai per tutto il giorno. Guidavo, piangevo e pensavo. La ferita e la delusione erano cocenti. Volevo fuggire, lasciarmi tutto alle spalle e guidare finché ne avessi avuto la forza. Ma mi rendevo conto che una fuga sarebbe stata solo una reazione isterica al problema e non avrebbe risolto nulla.
Quando la sera mi calmai, avevo già preso una decisione. Quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso della mia sopportazione e messo fine al mio matrimonio.

Tornai temporaneamente a vivere dai miei. Non era il massimo ma per comodità e per il bambino, accettai la proposta di mia madre. Conscia che da parte loro, l’aria che si sarebbe respirata era quella rassegnata di chi sapeva in partenza quale sarebbe stato l’epilogo della vicenda.
Anche lui tornò a casa sua. In seguito ci incontrammo saltuariamente per il bene del piccino, ma non tentammo mai di rimetterci insieme.
Troppo giovani per aver potuto assaporarci pienamente, avevamo fatto indigestione l’uno dell’altro.
Si aprì per me un periodo relativamente tranquillo.
Mi concentrai su mio figlio e sul lavoro, riuscendo anche egregiamente a tener testa alle vetuste idee sull’educazione dei figli dei miei genitori ed anche ai vizi con cui puntualmente tentavano di conquistare il nipote.
Cambiai amicizie e frequentazioni, mi presi cura di me e della mia anima.
Ripresi a leggere, cosa che non facevo da molto, e misi di nuovo mano al mio “capolavoro” a china.
Senza nessuna fatica mi immedesimai subito nelle filigrane del racconto, come se non fosse mai stato interrotto.
Ed ecco al centro dell’intrico, c’era il giusto spazio per un grande scorpione. Il mio segno zodiacale.
Si disegnò quasi da solo, visto di fronte nella sua interezza, su fino al pungiglione.
Non era minaccioso, al contrario sembrava a proprio agio, in posizione strategica in mezzo a quella ragnatela.
Lo so che lo scorpione non fa ragnatele. Ma questo si!
Questo non era un comune scorpione. Accoccolato com’era, in mezzo al mio mondo fantasioso, rappresentava me, la mia essenza, la ritrovata sicurezza e serenità. Non a caso era vicino ai divertenti personaggi dei racconti che narravo a mio figlio: una ridicola strega cattiva a cavallo della fatidica scopa, il generale sudista con baffoni neri, seriosamente in procinto di una carica, cavalcando però, un pesce. La donna che danzava sulla caffettiera, l’antico egizio che guardava stupito uno strano marchingegno sollevare, rimuovere una statua.
E poi calze e chitarre appese, scorci di monumenti, colonne, ingranaggi, draghi e mostri, insieme ad una pletora di pupazzi e animaletti. E la mia macchinina che spuntava qua e là, ora salendo sulla coda di un drago marino nell’unica grande curva del tracciato, ora scendendo lungo la spada giù in fondo.

Nella multiforme mescolanza di personaggi e cose uscirono fuori ad un certo punto due figure significative: una, più grande, aveva le sembianze caricaturali di un medico seicentesco, un vero e proprio “dottore della scienza” con la cappa a bottoni e i pantaloni che gli arrivavano ai polpacci. L’altra più piccola e nascosta somigliava molto al professorino del reparto dove fui ricoverata.
La malattia mi prese subdola e inaspettata.
Da prima fu solo spossatezza e indefinito malessere, poi qualcosa nelle mie viscere ruppe gli equilibri ed un dolore intenso e persistente mi fece capire chiaramente che non si trattava solo di una indisposizione passeggera.
Le analisi purtroppo confermarono i peggiori timori: fibroma all’utero.
Mi spiegarono che “fibroma” è un altro termine che sta per “cancro”. Bisognava solo appurare se benigno o maligno.
Mi si gelò il sangue nelle vene.
Da allora ospedali e visite mediche si susseguirono innumerevoli. Prima l’operazione, poi i cicli di chemio.
La malattia cambia. Cambia le emozioni, i sentimenti e l’angolo di visuale.
Eh si, ci pensi alla morte. Resti impietrita e senza fiato ad assaporare ogni centimetro del tuo corpo, a contare i battiti del cuore a cui fino ad allora non avevi fatto troppo caso. E ti senti come se fossi sull’orizzonte degli eventi di un buco nero orrido ed ineluttabile.

Quello che predicano tutte le religioni del mondo non attenua il terrore, la voglia di scappare da li, la sensazione di impotenza.
Quando restavo sola nella stanza del reparto oncologico, prima dell’operazione, e mia madre, che aveva più bisogno di me di essere tranquillizzata, usciva con quella sua aria mesta e preoccupata, mi scoprivo spesso a riflettere sulla prospettiva di chi eventualmente sarebbe restato. Allora sentivo un vuoto allo stomaco e brividi di freddo mi scuotevano. Con struggimento vedevo mio figlio crescere senza di me, mia madre disperarsi, il mondo continuare comunque la sua corsa.
E rivisitavo il mio pur breve passato. Le piccole e grandi gioie, i momenti bui, quello che avrei potuto fare e che forse non avrei fatto mai più. Arrivavo talvolta a scoraggiarmi ulteriormente, persino a compiangermi.
Poi qualcosa dentro di me prepotentemente rifiutava l’idea. La speranza prendeva il posto della commiserazione per prospettarmi l’altra ipotesi, quella più favorevole, che mi avrebbe permesso di guarire e continuare ad avere cura di mio figlio e di me. Così il respiro tornava a gonfiare il petto ed io decidevo che quello sarebbe stato l’unico epilogo possibile, l’obiettivo da raggiungere con tutte le mie forze.
L’operazione ebbe un esito incerto. Se da una parte mi dissero che la massa tumorale era stata rimossa, dall’altra la biopsia e le conseguenti analisi non risultavano ancora negative in modo certo. Quindi mi prescrissero un ciclo di sedute di chemioterapia. Per stare del tutto tranquilli, dissero.
Sopportai di buon grado le nausee e i malori che la terapia comportava e tornai a casa a riabbracciare il mio adorato piccino. Alle sue proteste perché non avevo più i miei bei capelli neri, io rispondevo sorridendo che era solo la moda del momento ma che se lui avesse voluto, li avrei fatti senz’altro ricrescere.
Ripresi la mia vita per quanto fosse possibile. Sviluppai una comprensibile sensibilità per il gusto delle piccole cose, le cose semplici di tutti i giorni. Le vivevo con un diverso spirito, più consapevole, più intenso, oserei dire: più maturo.
Ritrovai anche il disegno sul foglio da lucido. Era quasi terminato, mancava solo il completamento della parte in fondo, dove la colatura diradava la sua trama. Per quanto fosse solo un giochino insignificante, non potevo lasciarlo incompiuto!
Ripresi le penne a china e cercai ispirazione negli ultimi rigonfiamenti dell’intrico. C’era ancora una strana forma e poco altro da completare.

Era, ricordo, il giorno prima della consegna dei fatidici risultati delle analisi. Pensavo a quanto fossero ormai distanti i tempi nei quali fantasticavo guardando la macchia sul muro dello “studio”. A quanto fosse cambiata la mia esistenza. Tante cose erano accadute. Mi sentivo più grande e adulta e forte, malgrado la spada di Damocle dell’incertezza che pendeva ancora sopra la mia testa.
Dalla mia penna uscì una figuretta di donna.
Nuda, essenziale, con i capelli al vento, che si protendeva inarcata, giù, fuori dal labirinto. Fuori dai legami col passato, verso l’ignoto, verso il futuro.
Ancora era inseguita da un serpente che voleva trattenerla in quel groviglio e da un altro minaccioso essere che tentava di raggiungerla.
Ma lei non se ne curava. Come una goccia d’acqua aspettava che l’energia di marea la raggiungesse per staccarsi e correr via.
Non c’era malinconia o rimpianto o paura nel suo sguardo, solo la determinatezza e la voglia di lasciarsi andare oltre, qualunque fosse stata la meta.
Si, l’indomani mi avrebbero dato i responsi.
Domani….

Cristina M. D. Belloni

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