(Viterbo, 1977), laureato in Conservazione dei beni culturali, con specializzazione in Gestione e valorizzazione della documentazione scritta e multimediale, si occupa di Storia dei movimenti antifascisti e resistenziali. Ha curato la consulenza storica per pubblicazioni, spettacoli teatrali, documentari audiovisivi e mostre, e scritto su diversi periodici specializzati. Ha pubblicato Faremo a fassela, Gli Arditi del popolo e l’avvento del fascismo nella città di Viterbo e nell’Alto Lazio, 1921-1925 (Sette Città, 2011), e La Battaglia di Cable street, La Disfatta delle camicie nere inglesi e la nascita dell’Antifascismo militante europeo (Red star press, 2017). Nel 2021, per l'editore Sette Città è uscito Da leggere e sentire

Isabella Lorusso, Donne d’Albania, Voci dissidenti contro il regime

Di Silvio Antonini

Isabella Lorusso è una giramondo, di origini pugliesi, ora stabilitasi in Gran Bretagna, di fede libertaria, con un occhio sempre alle questioni di genere e, a tal proposito, instancabile raccoglitrice di umane vicende sotto forma d’intervista. Nelle pubblicazioni di suo pugno, vanno sicuramente annoverati due saggi inerenti la Guerra civile e sociale spagnola e le conseguenze ad essa correlate: Spagna 1936, Voci dal Poum (2010), con le testimonianze delle/i militanti del Partido obrero de unificación marxista, su cui in Italia, tra l’altro, non è che esista una nutrita bibliografia, e, un po’ a fare d’appendice, Donne contro (2013).

A questo giro, la Lorusso si dedica ad un argomento forse non di stretta attualità o urgenza e comunque degnissimo di trattazione ed approfondimento: le testimonianze delle donne che hanno vissuto sotto il regime di Enver Hoxha in Albania. Probabilmente il sottotitolo non è inclusivo di tutto il lavoro, poiché il regime in questione è crollato ormai 33 anni fa ed il bilancio complessivo delle testimonianze, almeno per il versante d’interesse storiografico, si presenta più articolato.

L’Albania, dunque. Uno stato tanto vicino a noi, tanto da noi misconosciuto per decenni, relegato perlopiù ai ricordi di una guerra in cui gli occupanti italiani si erano beccati la nomea di mangia – tartarughe: blasone tutto sommato bonario, se si pensa ai crimini commessi dai fascisti contro quel popolo. Un’etnia antichissima, con una lingua dai connotati pre-indoeuropei che però, proprio in virtù della Lotta di liberazione antifascista, raggiungeva una sostanziale indipendenza nazionale, sotto la guida di Hoxha, il quale dava così l’indicazione alla via albanese al socialismo. Questo percorso, per sommi capi e in una sintesi più che estrema, comportò dapprima la rottura con la vicina Jugoslavia, in contrasto con lo scisma di Tito verso il Cominform, poi la rottura con l’Urss in polemica con la destalinizzazione e l’avvicinamento alla Cina e, infine, la rottura con la Cina stessa agli inizi anni Settanta – Mao ancora alla guida -, con l’accusa delle aperture all’Occidente capitalista. Dopodiché l’ovvio isolamento e l’inesorabile fine, in contemporanea con le avversate esperienze “revisioniste” dell’Est Europa. Nel 1991, con i barconi stracolmi di profughi, ci siamo quindi interfacciati per la prima volta con un’immigrazione di massa e non ci abbiamo fatto una bellissima figura. Arrivavano non individui malnutriti o scheletrici ma persone che fuggivano da una vita ormai insostenibile ed imparagonabile con quella captata dalle trasmissioni televisive italiane. Era il trionfo della cosiddetta teoria del magnete, per cui i popoli alla fine scelgono comunque lo sfavillio della vita occidentale. Ragion per cui oggi non possiamo lamentarci dell’immigrazione economica: fu una strategia precisa contro il comunismo.  

Eppure l’enverismo non aveva mancato di suscitare simpatie. In Italia, sulla scia del maoismo e la nascita della prima formazione politica della Nuova sinistra, il Partito comunista d’Italia marxista – leninista, si guardò con fiducia e speranza a questo piccolo avamposto di comunismo reputato autentico in Europa. Ne sono seguiti scambi, reciproci riconoscimenti e viaggi con positivi giudizi finali su quel modello. Giudizi andati oltre la sfera delle formazioni militanti, vuoi anche perché, con il suo antisovietismo, l’Albania rappresentava comunque una crepa nei paesi socialisti. C’è un documentario a cura di Nicola Caracciolo, e siamo nel 1979, quindi in pieno riflusso, Albania 79, Qui Stalin piace ancora, visibile anche su YouTube, in cui il ritratto che emerge di quel mondo non è affatto malevolo. Le teorie di Hoxha trovano ancora oggi udienza e seguito segnatamente in Turchia, presso le formazioni marxiste – leniniste.

 Da noi resta ben poco di quei legami: dell’importanza di Radio Tirana, per esempio, abbiamo traccia nel brano di Battiato Voglio vederti danzare.

Veniamo finalmente alla pubblicazione. Si tratta di una raccolta di interviste effettuate da Isabella Lorusso, con l’umanità e l’empatia che le se si addicono, nel periodo pandemico 2020-21, infatti molte sono via Skype, a donne che, a vario titolo, e con diversi punti di vista, hanno memoria dell’Albania comunista. Donne, perlopiù, di estrazione colta, di famiglie che avevano partecipato alla Guerra di liberazione assumendo poi incarichi anche ai vertici dello stato, a seguito cadute in disgrazia, eccetto per un paio di casi, per contrasto con le direttive del Partito: una disgrazia che poteva comportare il licenziamento, l’isolamento, l’arresto, il confino, la deportazione e la morte.

Sebbene la formula dell’intervista, di per sé, non lo comporti, giacché ci si affida a quanto dichiarato dalla persona ascoltata, per la storiografia è in questo caso necessaria una quantificazione, anche approssimativa, delle dimensioni e della sistematicità dei fenomeni repressivi, particolarmente per casi di deportazione ed eliminazione fisica. Da quanto qui rilasciato, sembra che i giri di vite si siano maggiormente concentrati nei vari suaccennati momenti di rottura con gli altri stati comunisti e che la maglia della repressione si sia man mano allentata a seguito della morte di Hoxha.

Il tenore, complessivamente, delle interviste, va detto, è straziante, perché si tratta di racconti di sofferenza e di ingiustizie subite in base alle idee proprie o del proprio nucleo familiare, e questo non può che far male.

Nel resoconto storiografico che se ne può trarre, aldilà cioè delle emozioni umane, è che quello dell’Albania socialista sia stato uno sforzo di costruire, di fatto dal nulla, una società senza classi né differenze etniche, culturali e religiose, per cui si è provato anche a sradicare dalla cittadinanza il sentimento religioso, sino a proibirlo. In cui, nonostante tutto, e nella povertà assoluta, sono state garantite a tutti le sicurezze sociali del lavoro, della casa e dello studio, ribadendo qui necessariamente tutti i limiti del caso.

Prendendo in esame proprio la questione di genere, si è tentato, sempre dal nulla, il superamento di soggezioni ancestrali, paternalistiche e familistiche, in favore dell’emancipazione della donna. Sono perciò state applicate quelle che in Occidente avrebbero preso il nome di quote rosa, con una reale ed effettiva partecipazione femminile nei ruoli organizzativi e dirigenziali della società, pur proibendo l’aborto, probabilmente, anche se qui non lo si dice, nella concezione, rivelatasi erronea ma ben radicata presso le diverse esperienze politiche sorte su contesti rurali, che il numero fosse potenza.

Donne d'Albania, Voci dissidenti contro il regime Book Cover Donne d'Albania, Voci dissidenti contro il regime
Isabella Lorusso
Saggistica, storia
Sensibili alle Foglie
2023
288 p.,