Alessandra Camaiani, avvocato in Firenze, nasce a Ponticino, un piccolo paese in provincia di Arezzo. Scrive per mestiere, scrive per diletto e anche un po' per riflettere su se stessa. Ha a cuore i diritti civili e sociali, per cui lotta insieme a Generazioni Future Rodotá.

 Gli amori incompiuti

Di Alessandra Camaiani

Era una calda giornata d’estate, il sole stava alto sopra Villa Stibbert. Le ruote della sua Graziella rosa si appiccicavano all’asfalto; il fresco vestito a fiori non bastava a darle sollievo.

Faticò a trovare la strada; troppe volte era passata lì attorno senza mai notarla o forse c’era perfino passata sotto a quel balcone, ma mai prima di allora l’aveva notato.

Drin, suonò il campanello; tutta accaldata salì le scale senza chiedere a che piano si trovasse l’appartamento che era andata a vedere per l’affitto. Salì fino a che trovò un portone socchiuso; pensò dovesse essere quello, allora entrò.

“Permesso”, disse indossando dei grandi occhiali bianchi. “Avanti”, un uomo rispose.

Il tempo non bastò a chiudere la porta dietro di sé che lui comparve e lei rimase colta in un silenzio profondo.

Due occhi vasti azzurro cenere bucarono i suoi, ridenti. Una bocca si frappose alla sua, a pochi centimetri dal mento e si schiuse in un sorriso che le sembrò di essere immersa in una grande vasca da bagno, piena di schiuma ed acqua tiepida. Si sentì a casa.

Semi vestito, con una canottiera bianca, stava lì davanti a lei un grande uomo, che la guardava dentro a una barba curata. Anche a lui quel momento, si era convinta nel tempo, era dovuto sembrare lunghissimo.

Rotti gli indugi, propose da bere e la fece accomodare. Le porse un bicchiere di limonata aspra e ghiacciata.

“Posso fumare?”, chiese mentre si faceva aria col suo ventaglio blu.

“Prego”, le disse lui e si sedette con lei al tavolino.

“La casa è molto confortevole. Quando verrai, vedrai da sola”.

“Non ho detto che la prendo”. “Lo so, ma io l’ho capito”.

“L’hai capito?”; “Sì, appena sei entrata ho capito che saresti stata tu la mia erede qui dentro”.

Allora era lui che se ne andava. “Perché te ne vai?” gli chiese pronta. “Vado a convivere con la mia fidanzata. Abbiamo finalmente deciso di compiere questo passo”.

Fu allora che si accorse che lui doveva essere più grande, almeno dieci anni più grande.

Ci fu tempo per raccogliere altre minime informazioni sull’appartamento e se ne andò, sicura che in quella casa non avrebbe messo più piede.

Quella estate fu una triste estate.

Ritrovatasi sola dopo molti anni, partì per raggiungere un’amica a Pescara.

Le giornate scorrevano in un misto di incoscienza e di progetti, coccolata dagli affetti e ferita dalla storia. Guardava il mare.

Questo le bastava per rincuorarsi e far cessare il tormento che l’aveva consumata negli anni precedenti.

Fu nel giorno del cielo piangente che ricevette una lettera. “Ho bisogno di parlarti”, diceva. “Bruno” la firma.

Bruno.

Fece mente a tutte le persone che conosceva, ma non si rammentava di alcuno chiamato Bruno. “Che strano”, faceva. Quella lettera la incuriosì molto: non riuscì a capire da chi provenisse.

Certamente erta per lei. Brigitta, c’era scritto.

“Bruno!”, gridò. “Possibile?”

I passeggeri intorno a lei nella carrozza per Firenze sussultarono. “Ma certo..!”, continuò lei, urlando euforica.

Tutti la guardavano come se fosse una pazza. Rideva, rideva così forte da sembrare su di giri.

Scese dal treno prima ancora che si fermasse del tutto, e cominciò a correre forte verso via Stibbert. Correva con il cuore in gola come una bambina va incontro al papà che rientra a casa con un sacco di gelati.

In quella corsa c’era tutta l’aspettativa di una novità, la speranza di vivere un sogno. Fin da piccola, aveva immaginato la propria favola d’amore che non era mai arrivata. Voleva solo poterla raccontare, un giorno, ai suoi nipoti. Era eccitata e bramosa di sapere.

Il sole non era cambiato. L’asfalto mangiava ancora la gomma dei sandali.

Al termine della corsa affannata, madida di sudore, premette tutti i tasti del citofono. Fu allora che lo vide lassù, su quel balcone.

“Brigitta!”, si levò un grido entusiasta e Bruno corse ad aprire.

Si incontrarono a metà scale e lui l’abbracciò, sollevandole i piedi da terra. “Eccomi, Bruno! Eccomi!”.

“Oh, Brigitta.. devi sapere” “Sì, Bruno. Sono qui”. “Non sai quante volte ho immaginato questo momento”.

Entrarono in casa e si sdraiarono sul pavimento nella camera di lui. In casa non c’era nessuno; fuori, la città era deserta.

“Non ti sei trasferito”. Le prese le mani; lo guardò dritto negli occhi, fissi immobili intelligenti.

“Da quando sei entrata in questa casa, il tuo naso è rimasto su quel muro e il tuo odore si è affacciato ogni giorno, dal balcone al caffè del mattino. Il tuo collo rigido, le dita frenetiche che correvano tra capelli e fumo. La tua freschezza lucente. Ti ho desiderata da subito, Brigitta. Oh, questi anni, questi lunghi anni sono passati sospesi nel pensiero della tua immagine. Quante lettere, Brigitta! Quante parole prima di riaverti qui”.

Lei lo fissava incredula e timorosa. Il suo cuore trepidava.

D’un tratto, disse: “Me ne vado”. Si alzò di scatto senza che Bruno riuscisse a trattenerla. In un balzo era già fuori dalla porta.

L’immagine di copertina è Il bacio, di Klimt