Una persona assolutamente normale, come tutte le altre

I popoli e la cultura non hanno confini nella romantica riflessione di Milan Kundera

Di Giammarco Rossi

Nel settembre 1956, il direttore dell’agenzia di stampa ungherese, pochi minuti prima che il suo ufficio venisse distrutto dall’artiglieria, trasmise al mondo intero per telex un disperato messaggio […] Il dispaccio finisce con queste parole: «Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa».

Si apre così Un occidente prigioniero (Un Occident kidnappé), un saggio di Milan Kundera apparso nel 1983 sulla rivista Le débat proposto in questi giorni da Adelphi nella traduzione di Giorgio Pinotti.

Uno squarcio puntuale sulla situazione dell’Europa centrale che lo scrittore ceco traccia con una lucidità incredibile riflettendo sul destino di quell’Europa culla della cultura, considerata però una periferia dall’etnocentrismo occidentale. Nel Medioevo l’unità europea si fondava sulla cristianità e sulla tradizione culturale greco-romana; nell’età moderna fu l’Illuminismo a dettare la linea da seguire; oggi la cultura ha lasciato il passo allo svago, allo sviluppo tecnologico, all’informazione e al mercato. Qual è dunque la struttura portante dell’unità europea?

Le piccole nazioni sono sempre state lo spartiacque tra occidente ed oriente, soffocate dalla Germania e dalla Russia, marginalizzate dalle grandi potenze che nemmeno si interrogano su quale sia il rapporto che esse hanno con il circondario. Le piccole nazioni, scrive Kundera, «sono quelle che in qualsiasi momento possono vedere messa in questione la propria esistenza, che possono sparire e ne sono consapevoli». Sono l’altra faccia della Storia, quella fatta dagli sconfitti ma che tuttavia sono parte integrante di essa e non marginale: non sono il refuso omesso dal correttore di bozze dei grandi Paesi che dominano la scena internazionale. La Storia – in quanto tale – non fa distinzioni, chi se ne serve invece, in quanto tale, fa proprio delle distinzioni stesse il fulcro centrale della narrazione.

I popoli centrali sono «il massimo di diversità nel minimo spazio» un crogiolo di culture vicine ma assai distanti, sulle quali fondare la rinascenza delle nazioni. Il concetto di nazione è una definizione assai moderna, i popoli invece esistono da sempre ha senso dunque continuare a modellare, dominare e assoggettare intere comunità nel nome di una fragile idea nazionale? Nel nome di un confine?

La cultura è l’identità di un popolo, la nazione invece un’entità politica delimitata da precisi confini in cui la letteratura, le arti etc. non possono decisamente stare poiché esse si fondano sui «valori supremi» che da sempre caratterizzano i popoli. È questo il grande messaggio – quasi utopistico – che Kundera lancia e che solo oggi, forse, si può cogliere a pieno. I paragoni con la situazione attuale sono notevoli e disparati, la caccia alle streghe – come Arthur Miller insegna – è attività sempre assai gradita all’individuo; basterebbe fermarsi e ragionare su come l’esistenza stessa dei confini politici faccia sì che interi popoli combattano per essi, mentre una piccola cernita di colletti bianchi prenda decisioni politiche spesso al di là della naturale inclinazione dei popoli. Lo stato nazione oggi non ha più una cultura su cui fondarsi e il ruolo del letterato e dell’artista in generale è ridotto a quello di un personaggio pubblico che vende il suo prodotto. La sua creazione è dunque soggetta alle leggi di mercato su cui le nazioni si fondano e non più su quelle radici storiche impregnate dai tratti distintivi di una comunità.

Nell’Europa centrale la diversità è sempre stato un valore imprescindibile: si veda come moltissimi scrittori siano stati – nelle loro molteplici differenze – la struttura portante della cultura europea, accomunati sempre da quel senso di appartenenza ad un determinato luogo che non può e non deve avere confini.

Kundera parla di «grandi situazioni comuni» come le sole in grado di riunire i popoli centroeuropei e raggrupparli sempre in maniera diversa, cosa non possibile ai confini politici. Questa romantica riflessione dovrebbe annidarsi nelle coscienze di tutti gli individui: un’armoniosa concordanza di contrari che si arricchiscono a vicenda, in cui nulla è alternativo all’altro. Questa riflessione andrebbe estesa su scala maggiore a tutti i popoli del mondo. Cosa accadrebbe?
Singolare, infine, l’ultima riflessione dell’articolo, oggi più che mai attuale. Questa testimonia come Kundera sia un eccelso pensatore e una necessaria voce fuori dal coro. Le rivolte centroeuropee hanno un che di conservatore, direi quasi di anacronistico: tentano disperatamente di restaurare il passato, il passato della cultura, il passato dei Tempi moderni, perché solo nel mondo che conserva una dimensione culturale, l’Europa centrale può ancora difendere la propria identità, può ancora essere percepita per quello che è. La sua vera tragedia non è dunque la Russia, ma l’Europa stessa

Un occidente prigioniero Book Cover Un occidente prigioniero
Piccola Biblioteca Adelphi
Milan Kundera. Trad. di Giorgio Pinotti
Saggio
Adelphi
2022
85 p., brossura