Dalla fabula milesia a Marquez sulle tracce di un tema comune
Di Riccardo Renzi[1]
Cos’è che accomuna autori come Petronio, Kafka, Pasolini e Marquez? Un sottile fil rouge attraversa le opere di tutti questi autori: la rappresentazione della degradazione umana in animalesco. L’uomo in determinate circostanze torna a rispondere solo ai suoi istinti primari, proprio come le bestie selvagge. Petronio Arbitro, con il suo Satyricon, fu probabilmente il primo a descrivere minuziosamente la degradazione e degenerazione di una società, precisamente quella imperiale, durante il regno di Nerone. Il romanzo antico di Petronio, uno dei soli tre del mondo antico a noi pervenuto assieme alle Metamorfosi di Apuleio e alla Storia di Apollonio re di Tiro di autore anonimo, è costellato da episodi grotteschi e animaleschi: «Nos interim vestiti errare coepimus immo iocari magis et circulis accedere, cum subito videmus senem calvum, tunica vestitum russea, inter pueros capillatos ludentem pila. Nec tam pueri nos, quamquam erat operae pretium, ad spectaculum duxerant, quam ipse pater familiae, qui soleatus pila prasina exercebatur»[2]. Questo l’incipit di uno degli episodi più celebri di tutta la letteratura latina: la Cena Trimalchionis. La cena, all’interno del Satyricon, si protrae per ben 52 capitoli, dal 27 al 78, nei quali Petronio[3] illustra con distaccata ironia e magistrale attenzione alle minuzie antropologiche, una società ormai priva di ogni valore morale e culturale, nella quale la corruzione e la ricchezza hanno sostituito i Mores maiorum[4]. La società descritta dall’autore è quella della seconda metà del I secolo d. C., ove pullulano liberti, arricchitisi grazie alla loro mentalità cinica e avida.
La cena ebbe un’enorme fortuna nella storia della letteratura mondiale, a tal proposito ci sovviene in aiuto Nietzsche in Al di là del bene e del male, II, 28:
Petronio, che più di qualsiasi altro musicista fino ad oggi è stato
maestro del presto, con le sue invenzioni, trovate, parole – che
importano infine tutte le paludi del mondo malato, cattivo, anche del
«vecchio mondo», si si hanno come lui i piedi di un vento,
il tratto e il respiro, il liberatorio sarcasmo di un vento che sana ogni
cosa, mentre costringe ogni cosa a correre![5] L’opera ebbe una fortuna costante nel corso dei secoli, basti pensare a quanti intellettuali la citarono o fecero ad essa riferimento, da Flaubert a Benjamin, da Lukács a Sanguineti di Capriccio italiano (1963), però deflagrò definitivamente con la letteratura italiana del secondo Novecento. Andiamo con ordine, un caposaldo nella riscoperta e valorizzazione dell’opera venne fissato da Fellini, con l’omonimo film. Il Satyricon riscritto istituisce una sorta di discronia. Il passato è certamente passato in Fellini, ma certe atmosfere del suo film richiamano, oltre a un presente “romanaccio”[6], il gusto delle copertine di Urania. In Fellini il tempo collassa su sé stesso generando una dilatazione del reale, l’immemoriale mondo evocato potrebbe essere tanto una satira del presente quanto una visione del futuro, come una narrazione di un mitico passato[7]. Dei personaggi, dei protagonisti, delle voci di quel film, non rimane nella scena finale che dei pezzi di affresco sopra un muro: sono risprofondati nel loro elegiaco passato, incompleto, misterioso.
Passando alla letteratura, non si può non menzionare Fratelli d’Italia di Arbasino[8], che racchiude in sé gran parte della letteratura occidentale. In tale opera il Satyricon viene menzionato nella terza edizione dell’opera, edita nel 1993. In Arbasino la traccia petroniana è una traccia distopica, ma descrive un’Italia niente affatto dominata dal ‘controllo’ orwelliano, bensì franata per incuria, incapacità, menefreghismo e corrotta nel suo profondo, senza più valori concreti, erosa da un capitalismo sfrenato.
L’opera di Petronio ebbe una così grande fortuna proprio perché riuscì con nette e rapide pennellate a ritrarre minuziosamente una società che stava ormai degenerando e degradando, ove dei liberti arricchiti ostentavano finta cultura, ma continuavano a comportarsi come animali. Una società ove tutti, tranne rare eccezioni, sono pronti a fare qualsiasi cosa pur di arricchirsi e passare avanti agli altri, una società dove vige l’istinto animale, quello di sopravvivenza. L’animalesco e le furberie sono una costante nel romanzo antico[9]. In Pasolini la costante animalesca dell’uomo è più presente in Petrolio[10] e Ragazzi di vita[11]. Nel primo è un uomo dell’alta borghesia, Carlo, a degradare nell’istinto animalesco dell’accoppiamento carnale, abusando prima della madre e poi addirittura della nonna, proprio come una bestia. In questo primo caso, come si evince anche dal titolo, Pasolini prese a modello Petronio Attico per la descrizione della degenerazione dell’alta borghesia. L’intellettuale visionario lavorò alla sua stesura dalla primavera del 1972 sino alla morte, avvenuta il 2 novembre 1975[12]. Dell’opera ci sono pervenute 522 pagine scandite in “Appunti” con una numerazione progressiva, che si configurano in un insieme di frammenti più o meno estesi e di soli titoli[13]. Nel romanzo sono racchiuse le vicende più oscure dell’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, compresa quella relativa alla misteriosa scomparsa dell’imprenditore Enrico Mattei[14]. Per il protagonista dell’opera, Carlo, Pasolini si ispirò alla vita di Francesco Forte[15], vicepresidente dell’Eni, titolare della cattedra a Torino che fu di Luigi Einaudi[16] e membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi. L’opera pasoliniana è profondamente permeata da quella petroniana, in primis il titolo che nel suono richiama quello dell’autore del Satyricon, Petronio/Petrolio, però i richiami non si fermano qui, in tutta l’opera viene perpetuata una forte critica alla decadenza dell’alta borghesia italiana degli anni Sessanta e Settanta. Il climax apicale del richiamo al Satyricon si ha nella sezione dedicata alla cena in un appartamento di un alto borghese[17].
L’inizio dell’opera pasoliniana è un atto di cannibalismo letterario, l’autore nega i canoni costitutivi della forma-romanzo a partire dal rito iniziatico dell’incipit, luogo della narrazione deputato alla “seduzione adescatoria” dell’autore. Il mito, la magia e il reale si fondono dando vita ad un magma letterario unico, proprio come nell’opera petroniana. Interessante il fatto che Pasolini rifiuti l’ammiccamento malioso dell’ouverture borghese, proprio come Petronio fa con i liberti arricchiti. A questo punto sorge un inestricabile quesito: lo sguardo occulto ma dissacratorio di Petronio può essere tacciato di moralismo e di snobistica condanna etica del suo microcosmo di personaggi del reale, proprio come anche quello pasoliniano? Certamente. I due si accomunano anche in questo, entrambi sono il frutto di una società ormai profondamente permeata dalla decadenza, che criticano la decadenza stessa.
Lo già menzionato Sanguineti pone Petronio, insieme a Dante e Kafka, tra i numi tutelari della scrittura ‘onirica’ di Capriccio italiano. E ciò non può non riportarci alla mente le parole di Erich Auerbach: Quella che ci viene presentata non è la cerchia di Trimalcione come realtà obiettiva, ma invece un’immagine soggettiva, quale si forma nel capo di quel vicino di tavola, che però di quella cerchia fa parte. Petronio non dice: – E’ così -; lascia invece che un soggetto, il quale non coincide né con lui né col finto narratore Encolpio, proietti il suo sguardo sulla tavolata, un procedimento assai artificioso, un esperimento di prospettiva, una specie di specchio doppio che nell’antica letteratura conservataci costituisce non oserei dire un unicum, ma tuttavia un caso rarissimo. (…) Si tratta del soggettivismo più spinto, che viene maggiormente accentuato dal linguaggio individuale da una parte, e per intenzione di obiettività dall’altra, dato che l’intenzione mira, per mezzo del procedimento soggettivo, alla descrizione obiettiva dei commensali, compreso colui che parla. Il procedimento conduce ad un’illusione di vita più sensibile e concreta in quanto, descrivendo il vicino di tavola, il punto di vista viene portato dentro all’immagine, e questa ne guadagna in profondità così da sembrare che da uno dei suoi luoghi esca la luce da cui è illuminata[18].
Risulta assai complessa una lettura di Capriccio italiano senza la mediazione del critico tedesco. La tesi auerbachiana della Coena trimalchionis come limite del realismo antico pone ad esempio nella luce giusta l’onirismo di Capriccio italiano. Nella nuova creazione letteraria sogno, realtà e misticismo, come nel Petrolio pasoliniano diventano una cosa sola. Un ulteriore tema che ritorna nelle opere del secondo Novecento e che molto deve al Satyricon, è quello del doppio come protagonista assoluto dell’opera. Encolpio, Ascilto. Tutto sommato inseparabili. Anche i racconti dello stesso Kafka, oltre che sotto al profilo della degradazione e degenerazione animalesca, possono essere letti mediante la chiave del doppio, come se l’umano e l’animale fossero specchio della medesima anima e dalla narrazione kafkiana non si comprende mai se si stia parlando dell’animale o dell’uomo. Lo scrittore praghese però a differenza di Petronio e Pasolini non vuole descrivere la degradazione della società, ma mediante la trasformazione in animale vuole fornire una via di fuga al protagonista da quella società ormai degenerata e degradata. L’uomo è costantemente schiacciato da una società incomprensibile, fatta di leggi incomprensibili che logorano l’uomo dall’interno. Da questa incomprensibilità e inaccessibilità della legge deriva tutto il ventaglio di temi della narrativa di Kafka: la solitudine dell’uomo; l’impossibilità di stabilire un rapporto con il mondo; l’impossibilità di realizzarsi in una dimensione di autenticità; lo schiacciamento continuo dell’individuo da parte di una società sempre più tentacolare; la fuga dalla realtà. Però lo scrittore praghese non si da per vinto e il suo atteggiamento non è mai di rassegnazione e vittimismo, anzi cerca una rivalsa, possibile solo attraverso la fuga dalla realtà sotto forma di altro, l’animale, ciò che eravamo e che per Kafka tutt’ora siamo. Il distacco dell’uomo dalla società attuale, leggendo Kafka, è dato proprio dal suo essersi allontanato dal suo essere animale, che permetteva di vedere e leggere la società con altra prospettiva. Kafka quindi descrive una tragica condizione dell’uomo, ma non sembra che vi si rassegni. D’altro canto, da tante testimonianze risulta che Kafka amava profondamente la vita e che il fatto che egli sentisse il mondo nel quale viveva come un luogo privo di luce, non aveva spento in lui l’ansia e l’amore per la vita. Decidere quale strada egli suggerisca per riscattarsi da questo mondo privo di sole, se quella mitico-religiosa, o quella della contemplazione artistica, risulta un problema troppo complesso per essere affrontato in questa sede. Restando sul tema dell’animalesco, passiamo ora ad un altro autore citato nell’incipit del saggio: Gabriel García Márquez. In questa sede faremo riferimento in particolare al Marquez di Cent’anni di solitudine[19]. L’opera è una saga familiare ambientata nell’immaginaria e isolatissima cittadina di Macondo, situata nella Colombia caraibica. È qui che si svolge l’intera vicenda, ed è qui che sette generazioni si succedono, spesso condividendo un’improbabile contemporaneità. La famiglia Buendía, e coloro che in modo improprio vi appartengono, conta personaggi assurdamente longevi. Ursula Iguarán, la più vecchia donna di casa Buendía, vivrà 120 anni, arrivando a conoscere quasi tutti i membri della famiglia. Tra questi vi sono chiaroveggenti, alchimisti, colonnelli, dittatori, imprenditori, ricamatrici, accordatori di strumenti musicali, orafi, pasticceri, ribelli, suicidi, zingari, soldati, prostitute girovaghe e gigolò. Il romanzo è suddiviso in venti capitoli non numerati: alle vicende che coinvolgono la prima, la seconda e la terza generazione sono dedicati i primi nove capitoli. Dal capitolo sei però il contesto, pur restando quello di Macondo, ingloba quello più ampio delle guerre civili. Il sesto capitolo è una sorta di nuovo incipit del romanzo che, esaltando lo stile narrativo dell’intera opera e ricalcando quello del mito, utilizza strategicamente la figura della prolessi, la quale permette di «accennare, all’inizio di un ciclo vitale, alla sua conclusione così che il presente sia già anche percepito nella prospettiva di passato che gli darà futuro»[20]. La fondazione di Macondo avviene in seguito alla spedizione del capostipite e patriarca José Arcadio Buendía a di sua moglie e prima cugina Ursula Iguarán che decidono di abbandonare Riohacha a causa di un omicidio commesso da José Arcadio e alla seguenti apparizioni del fantasma del morto, Prudencio Aguilar. Così, José, Ursula, al tempo già incinta e ventuno amici lasciano il villaggio senza avere una meta precisa ma con il sogno di raggiungere il mare. Dopo ventisei mesi di viaggio nelle terre selvagge, durante i quali Ursula mette al mondo il primogenito José Arcadio, la comitiva si ferma e, per non dover intraprendere un distruttivo viaggio di ritorno, fonda Macondo sulla riva di un fiume. Qui nasce il secondogenito dei Buendía, Aureliano, primo nato di Macondo e bambino caratterizzato da uno sguardo lucido e attento che ritroveremo come caratteristica peculiare in tutti gli Aureliani di famiglia, dotati a volte anche del potere della chiaroveggenza.
Da questo punto in poi prende avvio una narrazione fitta che si pone a metà strada tra il mito classico omerico, ma forse anche virgiliano, e il romanzo moderno, riccamente nutrito di tutta la letteratura precedente, da Kafka a Joice, passando per Verga e il verismo. Il mondo narrato da Marquez prende avvio dalla realtà, ma ad un certo punto catapulta il lettore in una dimensione parallela, ove non esiste spazio e tempo, e dove gli uomini degenerano in animali, alcuni assumendone anche parzialmente le sembianze, come nel caso dei bambini con la coda di “porco”. Tra Marquez e Kafka vige però una sostanziale differenza, la quale risiede nel fatto che gli uomini-animali di Cent’anni di solitudine, quelli con la coda di maiale o con comportamenti animaleschi, per intenderci, stanno fuori dalla dimensione spazio-temporale del reale, quindi la realtà da essi generata costituisce una normalità cosmico-narrativa, mentre quelli dello scrittore praghese sono dissonati con la realtà stessa, poiché mettono il lettore in una condizione di osservare il reale da altre prospettive. Dunque, per riassumere i “mostri” di Marquez sono fuori dal reale, mentre quelli di Kafka sono il reale stesso.
[1] Istruttore direttivo Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo.
[2] Petronio Attico, Saryeicon, introduzione, traduzione e note di Andrea Aragosti, Milano, Bur Rizzoli, 1995, p. 188.
[3] L’attribuzione del Satyricon a Petronio Attico è questione assai discussa e che ancora non riesce a trovare una conclusione. Lo stesso Petronio è difficile da identificare, la maggior parte degli studiosi lo identificano con Gaio Petronio, di cui Tacito ne parla molto diffusamente negli annali: «Petronio pauca supra repetenda sunt. Nam illi dies per somnum, nox officiis et oblectamentis vitae transigebatur; utque alios industria, ita hunc ignavia ad famam protulerat, habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu. Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur. Proconsul tamen Bithyniae et mox consul vigentem se ac parem negotiis ostendit. Dein revolutus ad vitia, seu vitiorum imitatione, inter paucos familiarium Neroni adsumptus est, elegantiae arbiter, dum nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset. Unde invidia Tigellini quasi adversus aemulum et scientia voluptatum potiorem. Ergo crudelitatem principis, cui ceterae libidines cedebant, adgreditur, amicitiam Scaevini Petronio obiectans, corrupto ad indicium servo ademptaque defensione et maiore parte familiae in vincla rapta. Forte illis diebus Campaniam petiverat Caesar, et Cumas usque progressus Petronius illic attinebatur; nec tulit ultra timoris aut spei moras. Neque tamen praeceps vitam expulit, sed incisas venas, ut libitum, obligatas aperire rursum et adloqui amicos, non per seria aut quibus gloriam constantiae peteret. Audiebatque referentis nihil de immortalitate animae et sapientium placitis, sed levia carmina et faciles versus. Servorum alios largitione, quosdam verberibus adfecit. Iniit epulas, somno indulsit, ut quamquam coacta mors fortuitae similis esset. Ne codicillis quidem, quod plerique pereuntium […] adulatus est, sed flagitia principis sub nominibus exoletorum feminarumque et novitate<m> cuiusque stupri perscripsit atque obsignata misit Neroni. Fregitque anulum, ne mox usui esset ad facienda pericula».
La descrizione della morte di Petronio, arbiter elegantiae alla corte di Nerone, costituisce un esempio emblematico della tecnica ritrattistica di Tacito, che piú volte all’interno della sua produzione storiografica offre ai personaggi, di cui raffigura l’exitus, la possibilità di manifestare la propria dignità interiore di fronte all’efferatezza del potere imperiale. Tra i brani tacitiani riconducibili a questo tema il seguente si distingue però come un caso particolare: risulta infatti in larga parte costruito sul sovvertimento paradossale degli elementi caratteristici di questo tipo di raffigurazione.
Altra menzione prima di quella di Tacito era stata fatta da Plinio il Vecchio, ma nessuno dei due aveva identificato Petronio con l’autore del Satyricon, il primo a farlo fu l’umanista Giuseppe Giusto Scaligero verso il 1570. Le motivazioni addotte a favore di tale identificazione risiedono in una serie di motivi: in primo luogo, il cognomen «Arbiter», presente nei codici del romanzo, coincide con l’appellativo di «arbiter elegantiae» del cortigiano; l’esser morto in una sua villa a Cuma, in Campania, conferma, inoltre, la familiarità dello scrittore con questa regione, come si rileva nel romanzo; alcuni personaggi citati – il cantante Apelle, il citaredo Menecrate e il gladiatore Petraite – sono personaggi realmente vissuti nella prima metà del I secolo; la lingua, i riferimenti culturali e anche la situazione sociale che infine emergono dal romanzo rispecchiano i caratteri di quel periodo storico.
Su Petronio Arbitro si veda: K. F. C. Rose, The Date and Author of the Satyricon, Leiden, Brill, 1971; A. Aragosti, L’autore, l’opera, il testo, in Petronio, Satyricon, Milano, Rizzoli, 2004, pp. 5–13.
[4] Sulla decadenza dei costumi alla fine del I secolo d.C. si veda: H. Marrou, Decadenza romana o tarda antichita? : 3.-4. Secolo, Milano, Jaca book, 1979, in particolare pp. 146-180.
[5] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Varese, Crescere edizioni, 2011, p. 88.
[6] Nel Satyricon di Fellini anche il richiamo all’italum acetum è molto forte.
[7] Richiamo al Satyricon di Petronio e all’onirico passato.
[8] A. Arbasino, Fratelli d’Italia, Torino, Einaudi, 1978.
[9] L. Graverini, W. Keulen, A. Barchiesi, Il romanzo antico. Forme, testi, problemi, Roma, Carocci, 2010.
[10] P. P. Pasolini, Petrolio, Mondadori, Milano, 2014.
[11] P. P. Pasolini, Ragazzi di vita, Milano, Einaudi, 1979.
[12] E. Vulliamy, Who really killed Pier Paolo Pasolini?, in The Guardian, 24 agosto 2014.
[13] G. Chiarcossi Cerami, «“Petrolio” e il capitolo rubato», in Doppiozero, 17 dicembre 2022.
[14] Mattei era figlio del brigadiere dei carabinieri Antonio Mattei, di Civitella Roveto nella Marsica, fondò una piccola azienda chimica. Durante la seconda guerra mondiale prese parte alla Resistenza, divenendone una figura di primo piano e rappresentandone la componente “bianca” in seno al CLNAI. Nel 1945 fu nominato commissario liquidatore dell’Agip. Disattendendo il mandato, ne fece invece una multinazionale del petrolio, protagonista del miracolo economico postbellico. Mattei fece dell’Eni anche un centro d’influenza politica, attraverso la proprietà di media quali il quotidiano Il Giorno e finanziamenti ai partiti. Sempre vicino alla sinistra democristiana, in particolar modo a figure come Giorgio La Pira e Giovanni Gronchi. Egli morì nel 1962 in un misterioso incidente occorso al suo aereo personale, nei pressi di Bascapè. Nel 2012 la sentenza di un processo collegato, quella sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro che indagava sul fatto, ha riconosciuto ufficialmente che Mattei fu vittima di un attentato. Si veda: S. Bertini, Mattei e Gronchi: la “diplomazia del petrolio” tra Italia e Urss, in Osservatorio Globalizzazione, 11 dicembre 2020; S. Bertini, Un democristiano tra De Gasperi e Fanfani: Mattei e la politica italiana, in Osservatorio Globalizzazione, 6 gennaio 2021; A. Muratore, La visione strategica di Enrico Mattei, in Opinio Juris, 13 agosto 2020; A. Muratore, La sentenza su De Mauro: “Ucciso per lo scoop su Mattei”.
[15] Suo padre era Procuratore della Repubblica a Sondrio, e anche lui ha vissuto in quella città. Si definisce liberal socialista, infatti, dopo la scissione di palazzo Barberini, si iscrisse al partito socialdemocratico. Nel 1947, vinto il concorso di alunno al Collegio Ghislieri di Pavia, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Pavia, frequentando anche alcuni corsi di Scienze politiche e soprattutto l’Istituto di Finanza dell’Università. Nel 1951 si laurea con lode e menzione per la stampa con una tesi in Scienza delle Finanze. Nel 1954 divenne supplente di Ezio Vanoni, di cui era assistente, all’Università degli Studi di Milano. Nel 1961 divenne professore ordinario di Scienza delle finanze all’Università degli Studi di Torino, dove fu chiamato a succedere a Luigi Einaudi da Einaudi stesso. Fece parte del comitato scientifico dell’Istituto lombardo di studi economici e sociali e della Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Fu responsabile economico del Partito Socialista fino al 1982, quando divenne Ministro delle finanze del Governo Fanfani V. Nel Governo Craxi I fu ministro delle politiche comunitarie fino al 1985, quando si dimise per diventare sottosegretario delegato per gli interventi straordinari nel Terzo Mondo. Ricoprì la stessa carica anche nel Governo Craxi II, fino al 1987. Nel biennio 1984 – 1985 fu presidente della International Atlantic Economic Society. Negli stessi anni è stato professore ordinario di Politica economica e di Scienza delle finanze all’Università La Sapienza di Roma Dal 1985 è presidente dell’associazione Politeia, e fa parte anche del suo Comitato Scientifico e Tecnico. Nel 1987 è stato nominato presidente onorario dello International Institute of Public Finance. È stato sindaco di Bormio (in provincia di Sondrio) dal 1988 al 1991. È stato editorialista economico e collaboratore de Il Giorno, L’Espresso, Panorama, La Stampa, il Giornale, Il Sole-24 Ore, Italia Oggi, Libero, Il Foglio, L’Occidentale. È tra i curatori del “Dizionario del liberalismo italiano -Tomo II” edito da Rubettino nel 2015. Dal 2003 è professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma, e professore a contratto alla facoltà di giurisprudenza dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. È morto meno di un venti giorni orsono, il 1º gennaio 2022 a Torino.
Su Forte si veda: È morto Francesco Forte, ex ministro delle Finanze con Fanfani, in repubblica.it, 1º gennaio 2022; A. Nidi, Francesco Forte è morto/ Ex ministro governi Fanfani e Craxi firma de Il Sussidiario, su ilsussidiario.net, 1º gennaio 2022.
[16] A. Bernardino, Vita di Luigi Einaudi, Padova, CEDAM, 1954; R. Faucci, Einaudi, Luigi in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 42, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1993.
[17] P.P. Pasolini, Petrolio, Milano, Mondadori, 2012, pp. 43-47.
[18] E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, 1956, primo volume, p. 123.
[19] G. G. Marquez, Cent’anni di solitudine, Milano, Mondadori, 2009.
[20] C. Segre, I segni e la critica, Milano, Einaudi, 1969, p. 253.