Luca Murano nasce al nord (Lodi) da genitori del sud (Salerno) e attualmente vive al centro (Firenze). Oltre a curare il suo blog di scrittura, Vai come sai, negli anni ha pubblicato racconti su molte riviste letterarie, fra cui: 'tina, Risme, Malgrado le Mosche, Bomarscé, Spazinclusi, Streetbook Magazine, Blam!, Quaerere, Voce del Verbo, Rivista Waste, Inchiostro, Mirino, Downtobaker, CrunchEd, Grande Kalma, birò, E(i)sordi, il Fuco e The Bookish Explorer. Ha all’attivo due pubblicazioni, "Pasta fatta in casa - sfoglie di racconti tirate a mano" (Bookabook, 2018) e "I vestiti che non metti più" (Dialoghi, 2021). Suona il basso nei My Hard Reset.

La vasca con le zampe

Di Luca Murano, tratto da I vestiti che non metti più

Marchio Editoriale: Dialoghi, collana intrecci, copertina di Luca Verduchi, progetto grafico di Stefano Frateiacci

Il locale in cui si erano dati appuntamento era nato tre anni prima, proprio come la loro relazione. Minuscola caffetteria letteraria in cui servivano ottime bevande calde e pessime birre. C’erano libri ovunque lì dentro, sugli scaffali, sui caloriferi, sulle mensole. Il registro di cassa era appoggiato su tre tomi minacciosi e pieni di polvere e persino il ragazzo dietro al bancone, coi suoi baffetti a sparviero, la montatura degli occhiali tenuti insieme dal nastro adesivo e un percettibile tic che gli faceva muovere all’unisono sopracciglio e occhio destro, sembrava uscito da un romanzetto noir. Nonostante il caos apparente e un po’ di sporcizia, l’ambiente aveva il suo fascino. Lungo le pareti, erano appese cornici minimali che ritraevano in bianco e nero volti noti di molti scrittori. Quando lei varcò l’ingresso, lui era già seduto. Dopo i convenevoli passarono alle consumazioni. Lei optò per una tisana zenzero e limone, così l’uomo la fece accomodare e si diresse al bancone per ordinare la tisana per lei e un’altra birra per lui. Non appena furono entrambi al tavolo, per smorzare un po’ di tensione, l’uomo la convinse a giocare a riconoscere l’identità dei volti appesi alle pareti. Fra quei visi grinzosi e vissuti scovarono facilmente Poe, Hemingway, Virginia Woolf e Jack Kerouac. Fecero un po’ più fatica con Jane Austen e un giovane Pirandello. Ma c’era un ritratto che proprio non riuscivano a decifrare. Come quando si ha a che fare con un volto familiare, ma non si riesce in alcun modo a rammentarne il nome. Avendo seguito la discussione e vedendoli in difficoltà, il ragazzo che lavorava nel locale passò di lì con una scusa e, fra un ammiccamento involontario e un altro, fu ben lieto di rivelare loro che il protagonista della foto fosse Victor Hugo.

Di nuovo soli, rimasero per qualche minuto immobili l’uno di fronte all’altra, con il fumo caldo che si alzava dalla tisana a mascherare quella stasi che li avvolgeva. Lei cercava un modo per riprendere la discussione dopo che, circa sei mesi prima, si era interrotta. Lui, facendo spallucce persino alla sua coscienza, ingannava i suoi tormenti pensando a Hugo e a come avesse fatto a non riconoscere il più grande romantico francese. Poi quel lungo e interminabile silenzio mostrò il fianco: la donna abbozzò un maldestro brindisi afferrando la tazza con entrambe le mani e avvicinandola all’uomo. Lui l’assecondò e, quando le sue dita toccarono il vetro gelido della bottiglia, quella sensazione di freddo lo riportò coi ricordi indietro nel tempo. Se qualcuno si fosse trovato su quel pianerottolo mentre le porte dell’ascensore si spalancavano, la prima cosa che avrebbe visto uscire sarebbe stata una nuvola di imbarazzo, schiumosa e svolazzante, e solo alcuni secondi dopo una coppia di giovani adulti. Non c’era nessuno nei paraggi. I corridoi del sesto piano di quell’hotel parigino erano pressoché deserti e quando i due varcarono la porta dell’ascensore fu soltanto il rumore ammortizzato e trattenuto dei loro passi, a contatto con la moquette verde del pavimento, a tener loro compagnia. Era quasi mezzanotte e i due erano appena arrivati dall’Italia dopo un viaggio in aereo ricco di turbolenze e snack scadenti. Si conoscevano da poche settimane, merito di un amico in comune, e sin dalla prima uscita si erano subito piaciuti. Il viaggio lampo a Parigi era soltanto il loro quinto appuntamento.

Ancora niente sesso tra i due, con lei molto abile a eludere alcuni tentativi andati a vuoto del ragazzo. In compenso tanti baci, talmente tanti che il burro di cacao divenne spauracchio calorico nella mente della donna. L’occasione francese saltò fuori perché lui, in tempi non sospetti, aveva comprato un biglietto per il concerto degli LCD Soundsystem, gruppo indie rock statunitense di cui era un grande fan. Lei non li conosceva granché, tuttavia come pretesto per una fuga parigina non le parve male. Nonostante lui si fosse offerto di pagare tutto, lei declinò e acquistò di tasca sua, sia un posto sullo stesso volo, sia il biglietto per l’evento musicale. L’albergo l’avevano scelto assieme, o meglio, lo aveva scelto lei col benestare di lui. Dalle foto sembrava un gran bel posto, un albergo glamour, caro ma non troppo, nel cuore del quartiere Latino. Nella camera erano presenti un letto king size e persino un bagno con un’appariscente vasca vittoriana con zampe da leone. Prima della partenza, lei si era già masturbata un paio di volte pensando di essere posseduta in quella vasca, lui almeno il triplo in più rispetto a lei, ma senza dare particolare importanza alla scenografia. Quando arrivarono davanti alla porta della camera, le loro menti cariche di desiderio ronzarono impazzite all’unisono; ma non immaginavano che le aspettative sarebbero state presto disattese. Il ragazzo appoggiò la tessera magnetica sopra la serratura elettronica e aspettò di sentire un clic. Poi col braccio sinistro aprì la porta e, da bravo cavaliere, lasciò fosse lei la prima a entrare. «Ti ricordi il nostro primo viaggio? Parigi?». Lei fu colta di sorpresa dalla domanda e rovistò nella sua memoria alla ricerca di ricordi pertinenti. Non era una smemorata, anzi, era in grado di immagazzinare nella sua testa un’infinità di dettagli, ma in quel momento era come se una strana frequenza disturbasse i suoi pensieri. «Vagamente… è passato un po’ di tempo». «Dai! La vasca con le zampe proprio in mezzo alla camera di quel motel travestito da albergo? Quella non te la puoi esser dimenticata…». Stava cercando di mettere a fuoco le immagini nella sua testa. Ma era tutto offuscato e poco chiaro, come quando provi a mettere i negativi in controluce per poter sbirciare in anteprima una foto. Optò per una mezza verità. «Sì, mi ricordo. L’albergo non era proprio il massimo». «Ti sei lamentata per settimane!».

La donna non rispose e sperò in silenzio che il discorso virasse presto altrove. Ma non venne accontentata. «E meno male che non l’avevo scelto io. Le foto sul sito di prenotazione erano un po’ fuorvianti! Il bagno era preso da un’angolazione per cui pensavi fosse separato dal resto della camera. Invece no! Era un’unica stanza…». «Senza bagno?». «Il bagnetto c’era, ma era un bugigattolo senza finestre. C’era una porticina e dietro un wc. Stop. Il lavandino era sempre nella stanza 19 principale. Dovevamo fare i bisogni in una cabina e poi sgattaiolare fuori anche solo per lavarci le mani. Ma davvero non te lo ricordi?». «Certo che me lo ricordo. Stavo solo facendo mente locale». «E ti ricordi come fu la prima notte?». «Sì… cioè, voglio dire, ovvio». Fu la seconda menzogna in pochi secondi. Che strano, pensò, per lui era tutto ancora così nitido. Quello che almeno potenzialmente sembrava essere il set erotico “perfetto” per una coppia si rivelò invece fonte estrema di imbarazzo. La stanza non concedeva privacy. I loro corpi, in un modo o in un altro, si sarebbero dovuti dare in pasto a vicenda, senza quell’attesa, quelle febbrili aspettative, quell’eccitante curiosità che spesso fa da sfondo alle prime volte altrui. E così il ragazzo accettò di andar fuori a fumarsi una sigaretta mentre lei si lavava in mezzo a quell’insolita stanza d’albergo. Non aveva sigarette con sé, faceva parte dell’esercito dei tanti che fumava solo quelle degli altri. Dovette quindi riprendere l’ascensore, uscire dall’edificio e mendicare una fumata alla buia e fredda notte parigina. Passò qualche minuto senza che incontrasse anima viva, poi, camminando in direzione della Senna, con le guglie di Notre-Dame illuminate da una tenue luna autunnale a fare da sfondo, vide un uomo nero, con la testa calva come un ginocchio e con una faccia gommosa e infantile, che stava passeggiando da quelle parti col suo cane; un Labrador dal pelo chiaro che, sotto le luci dei lampioni, gli ricordò il colore del latte appena munto.

Col suo francese livello Google Translator riuscì a fermarlo e a chiedere gentilmente una sigaretta. Fu fortunato, l’uomo tirò fuori un pacchetto ancora nuovo, lo aprì e gliene porse una. Il ragazzo, per fare un po’ di conversazione, gli chiese quale fosse il nome dell’animale, ma la sua comprensione orale fece cilecca e quando gli rispose non riuscì a coglierlo, limitandosi ad annuire come se avesse ben inteso il nome del quadrupede. Tornò verso l’hotel e rimase davanti all’ingresso a gustarsi la sigaretta. Era insolitamente freddo per essere settembre. Con il corpo scosso da tremiti, le mani ghiacciate e i denti che battevano, il ragazzo ebbe comunque la sensazione di stare meglio fuori che dentro quella stanza e la sua cortina d’imbarazzo. Pensò che 20 fosse un peccato che un hotel così glam non avesse uno di quegli ingressi con le porte girevoli stile americano, di quelle che impediscono a intemperie, rumore e inquinamento di entrare, abbattendo i costi di riscaldamento. Da qualche parte aveva letto che l’inventore di questo rivoluzionario sistema, nel realizzarlo, era stato spinto dalla sua insofferenza nel tenere la porta aperta alle altre persone, soprattutto alle donne. Sorrise mentre ripensava a questo aneddoto. A lui piacevano le porte girevoli, ma per motivi diversi. Forse perché gli permettevano di avere una visuale a trecentosessanta gradi sul mondo che lo circondava e al tempo stesso gli consentivano di tenerlo comunque a distanza, di non sporcarsi le mani. «Ti spiace se ordiniamo dell’acqua? Questa tisana è ancora troppo bollente e io ho una sete…». «Certo». L’uomo si alzò e lei lo seguì con gli occhi per un po’. Poi si guardò attorno, come a sincerarsi che in quel posto fossero gli unici avventori oltre al ragazzo dietro al bancone. Lontana da occhi indiscreti, fece così la sua mossa: tirò fuori da sotto la camicetta il ciondolo a forma di mezzaluna che teneva al collo. Lo aprì e versò velocemente il suo contenuto. Osservò nervosamente la polvere disciogliersi a contatto con il liquido. In quei pochi secondi, le sembrò che il tempo scorresse al rallentatore e che tutto, all’interno del locale, fosse cristallizzato e immobile. Mentre il ciondolo si inabissava in mezzo ai suoi generosi seni, controllò dove fosse l’uomo e lo scorse davanti al bancone, in attesa. Nessuno si era accorto di nulla.

Provò a rilassarsi pensando ad altro, rammentando come fosse arrivata sino a quel punto. L’idea di rivedersi, dopo molto tempo, era venuta proprio da lui. L’uomo le aveva scritto un messaggio dieci giorni prima del loro incontro. Lei ci aveva messo tre giorni per rispondere e una settimana intera a preparare tutto nei minimi particolari. Aveva scelto il locale sapendo che era poco frequentato poiché sull’orlo del fallimento, proprio come lei, e perché era certa che non si effettuava servizio ai tavoli. Lavorando part-time in una farmacia aveva avuto inoltre il tempo di documentarsi a sufficienza e, con accesso irrisorio a un’infinità di sostanze, era riuscita ad assemblare un prodotto letale di ottima qualità, coprendo ogni traccia e coordinando ogni aspetto alla perfezione. «Ecco qua». L’uomo, ignaro di tutto, tornò con una mezza minerale che aprì con galanteria e la porse alla donna. «Grazie». «Hai uno sguardo strano. A cosa pensi?» fece lui. «Niente di particolare» disse lei, mostrando un sorriso finto e tradendo così un filo di tensione. L’uomo, stavolta senza fare troppe cerimonie, prese la birra e ne bevve un sorso direttamente dalla bottiglia. Lei abbassò lo sguardo e, senza dire nulla, fece lo stesso con la sua tisana, deglutendo, colpevolmente, in silenzio. «Come stai?». La donna si prese un po’ di tempo prima di rispondere. Nonostante si aspettasse che, prima o poi, questa domanda piovesse dal cielo. Fece molta fatica anche solo a muovere le labbra. Poi con un filo di voce disse: «Abbastanza bene». In realtà avrebbe voluto essere più precisa, avrebbe voluto dirgli che, per colpa sua, non si ricordava più cosa volesse dire star bene, che non si era ancora ripresa e che trovava davvero assurdo il fatto che lui fosse riuscito a sopravvivere sei mesi senza la loro vecchia routine. Senza di lei.

Gli avrebbe tanto voluto raccontare quanto la sua vita si fosse liquefatta. Una mattina qualunque di gennaio si era alzata all’alba, per la prima volta in tre anni, e si era messa a spolverare per tutta la casa, aspirando la polvere dalla loro stanza, succhiandola via dalla scrivania, togliendo col bocchettone il laniccio dalle costole dei libri che avevano comprato e letto assieme e dai vinili che lui collezionava e che non aveva ancora rivendicato. Alla fine le sembrò quasi di levare la polvere anche da se stessa, per ricominciare da capo, come non avrebbe mai voluto, e nemmeno osato, immaginare. «Sono contento di saperlo» disse l’uomo, poi si mise a giocherellare con la bottiglia di birra. Era mezza piena ma anche mezza vuota. Mi assomiglia, pensò la ragazza. Quando tornò nella stanza la trovò già a letto. Lo stava aspettando nuda, sotto le poco sobrie lenzuola rosso fiamma. Rimase fermo nei pressi della porta senza sapere bene cosa dire, col cuore in tumulto e con l’impetuoso rimescolio dei sensi a fare da sottofondo. La osservò a lungo, scrutando il suo viso grazioso, impreziosito da una pioggia di lentiggini rosse, e seguendo i suoi morbidi riccioli biondi che le ricadevano fin quasi sul pavimento. Sfoggiò un sorriso incerto e si preoccupò quando, nonostante il turbinio di emozioni, si accorse che laggiù ancora non si era smosso nulla. Forse era successo tutto troppo in fretta. Forse avrebbero dovuto andarci piano, senza accelerazioni improvvise. Mentre nella sua testa si sovrapponevano domande di questo tenore, da sotto le coperte emerse piano piano il braccio bianco e sinuoso della ragazza. Lo distese verso la parete dietro al letto e con le dita andò a premere il tasto di un interruttore. Un ronzio, come di un motore elettrico in funzione, scosse la stanza. La ragazza aveva azionato un meccanismo che dal mobile ai piedi del letto stava lentamente sollevando una tv a schermo piatto. L’immenso televisore si palesò in mezzo alla stanza, come lo struggente sorgere di un sole nero. Così lei gli spiegò che, rimanendo a letto, lui avrebbe potuto tranquillamente lavarsi nella vasca con le zampe, sfruttando il mastodontico elettrodomestico come un paravento improvvisato, senza che nessuno dei due entrasse nel campo visivo dell’altro. La strana situazione fece ridere entrambi, contribuendo non poco a diluire il carico emotivo che si era venuto a creare. Per metterlo ancora di più a suo agio, lei accese la tv su un canale a casaccio e alzò il volume. A quel punto lui sparì nell’ombra dell’enorme televisore e fu libero di spogliarsi e di lavarsi, seppur a tre metri scarsi di distanza dalla sua compagna di viaggio.

Mentre si insaponava i corti capelli neri si chiese se esistesse in quella camera un altro bottone che, se azionato, fosse in grado di regalargli una portentosa e duratura erezione. Stava parlando da un po’. A giudicare da quanto si fosse raffreddata la tisana, poteva essere passata una settimana intera e, nel suo palato, zenzero e limone erano ormai sapori lontani e indefiniti. La bottiglietta d’acqua, invece, era lì accanto, ancora intonsa. Lo ascoltava parlare, blaterare, eppure si sentiva sola, come se la distanza fra lei e le aspettative che si era creata fosse ormai incolmabile. Non era pronta ad ascoltare quei discorsi. Nel corso della sua vita aveva imparato a comprendere quanto la verità potesse fare male, come quando da bambina scoprì che gli arcobaleni non si possono percorrere a piedi ma solo guardare svanire, sfuggenti, scivolosi come le bugie che abitano questo mondo. «Se sto così male è perché non era te che dovevo lasciare per stare bene, anzi, ero io che mi dovevo lasciare andare, ignorare la merda che mi è piovuta addosso, i soldi che non ci sono, contentarmi del lavoro. Ero io che dovevo lasciare andare i miei morti, lasciarli finalmente riposare, in pace loro e in pace io. Ero io che dovevo lasciare andare me, in tutti i sensi, quelli dolorosi e quelli bellissimi». Lei lo ascoltava, anche se non lo stava a sentire davvero. Mentre la litania continuava, la ragazza appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese la testa fra le mani, sorreggendone il peso con i palmi aperti. Incrociò il suo sguardo e indugiò ancora un attimo prima di avvertire una gran rabbia montarle dentro. Poi andò oltre, oltre quelle saccenti e noiose colline sulle quali aveva speso gli ultimi anni. E allora si rese conto di quanto tempo avesse buttato a inseguire sogni non suoi, a cercare di accontentare gli altri, come i cani, scodinzolando alla persona sbagliata, mettendosi sempre in un angolo, lei che in realtà avrebbe voluto stare sulla cima della montagna, proprio lì, su quella vetta dove l’ossigeno è rarefatto, la vista è splendida e la testa è sgombra di pensieri. Invece, per colpa sua, era rimasta giù a valle, seduta su quelle dannate colline, alienanti e sempre uguali. Nonostante ciò c’era qualcosa che non le permetteva di processare il distacco dalla sua vecchia vita. In quel locale avrebbe avuto la sua chance di redimersi, di cambiare, usufruendo dell’unico modo che aveva per staccarsi da lui, come una navicella spaziale che per salvare il proprio nucleo deve sganciarsi dal resto del corpo, un corpo che brucia velocemente e che scompare per sempre dimenticato nell’oblio e nel silenzio. O forse no. Forse quel legame non poteva essere reciso. Se non brutalmente. E il veleno, a breve, avrebbe agito in tal senso. 24 In qualche modo l’erezione arrivò. Dopo che si fu asciugato frettolosamente, la raggiunse nel letto e, saltando i preliminari, fecero l’amore per la prima volta.

Date le premesse e la situazione che si era creata in quella prima notte assieme, il sesso non fu memorabile, piuttosto lo sfogo di due corpi che finalmente si lasciavano andare, allentando la tensione, rotolandosi fra le lenzuola rosse di quel bizzarro hotel sulla rive gauche. Nonostante il ragazzo si fosse dato un gran daffare, ebbe come la sensazione che l’amore se ne stesse in disparte in quella grande stanza, volteggiando ma tenendosi comunque a debita distanza dalle loro evoluzioni sessuali. Se non altro questo appena percettibile disagio conferì longevità alla sua performance e non intaccò la tanto agognata erezione. Dopo l’orgasmo rimasero così avvinghiati per lunghi istanti. Quando il ragazzo riaprì gli occhi, la vide atteggiare le labbra a un mezzo sorriso mentre infilava la guancia nell’incavo della sua clavicola che, nel corso di quella movimentata notte, pareva essersi modellata attorno ai suoi lineamenti. Poi tutto finì, il ragazzo rotolò lontano dal calore delle lenzuola e raggiunse quella parte del letto che ancora era temperata e fresca. In quel momento alzò lo sguardo verso gli specchi sul soffitto di cui era tappezzata la stanza. Vide la vasca con le zampe di leone, ma il suo sguardo era in cerca d’altro, un ingrediente che gli sembrava fosse mancato a quel piatto prelibato che avevano condiviso assieme. Lo vide, l’amore riflesso in quello specchio, gli sembrava di riconoscerlo, come una bella nostalgia che non si concretizza mai davvero. Se ne stava sopra le loro anime e quando il piacere carnale abbandonò del tutto il suo corpo scemando dai polpastrelli pensò che quella mancanza in realtà avesse lasciato come un’ombra di rimpianto nella sua testa. Erano rimasti un’altra volta in silenzio. L’uomo aveva smesso di parlare. L’espressione sul suo volto tradiva un certo malessere, gocce di sudore ne imperlavano la fronte. Quasi contemporaneamente il battito cardiaco della donna accelerò di colpo. Ci siamo, pensò. Poi una musica familiare giunse alle sue orecchie, note conosciute che andarono a riempire tutti i vuoti di sceneggiatura di quel locale.

La riconobbe facilmente, un brano degli LCD Soundsystem, Oh Baby, una canzone che 25 aveva ascoltato per la prima volta proprio tre anni fa in Francia. E allora le tornò alla mente tutto quanto, il concerto, Parigi, quell’assurdo hotel da papponi, la vasca con le zampe, la loro prima notte assieme… «La senti anche tu?». Ma l’uomo non sentiva niente. Come avrebbe potuto? Il proprietario del locale si era venduto lo stereo solo qualche giorno prima per pagare qualche debito. La guardò stranito, con la testa piegata leggermente di lato ad accentuare il suo stupore e la sensazione che qualcosa dentro di lui gli stesse sfuggendo dalle dita ancora una volta. La donna colse nel suo sguardo il suo malessere, che era un po’ anche il suo, e si stupì che il veleno somministrato facesse già effetto. Poi tornò a concentrarsi su quella musica. Oh baby Oh baby You’re having a bad dream Here in my arms «Davvero non la senti?» chiese. «Ma di che parli? No, non sento niente». Allora lei si sollevò un poco dalla sedia e, allungando le braccia, strinse con forza i polsi dell’uomo. «Mi dispiace» disse. «Che significa?». La donna ebbe un sussulto e perse l’equilibrio, rovesciando lo sgabello e finendo rovinosamente per terra. Le vibrazioni della caduta fecero cascare anche il ritratto di Victor Hugo, con il vetro della cornice che, proprio come lei, andò in mille pezzi. L’uomo, spaventato, provò a soccorrerla ma non appena le fu vicino la vide tremare come in preda a convulsioni mentre dalla bocca le usciva un filo di bava. Respirava a malapena, col viso gonfio e gli occhi iniettati di sangue. Allora l’uomo urlò al ragazzo del locale di chiamare subito un’ambulanza. Il giovane, terrorizzato, prese il cellulare e telefonò al 118, mentre lui le teneva la testa sollevata. Ma ormai era tardi. Con la testa appoggiata sulle ginocchia dell’uomo e gli occhi socchiusi, riuscì a dirigere lo sguardo annebbiato dal veleno 26 verso l’unico specchio posto sulla parete del locale. Da quell’angolazione osservò il bel volto di lui, inconsolabile e impotente davanti a quello che stava accadendo. Nonostante tutto quel dolore lo amava ancora e sentì indistintamente di appartenergli. Poi, mentre la vita le roteava davanti come una porta girevole, le tornò alla mente una frase di Victor Hugo contenuta in un libro che avevano comprato assieme, e che lui aveva sottolineato a matita: “Nel destino di ogni uomo può esserci una fine del mondo fatta solo per lui. Si chiama disperazione. L’anima è piena di stelle cadenti”. L’ultima cosa che fece fu quella di esprimere un desiderio, ma il buio l’anticipò e, un attimo dopo, calò il silenzio.