Alessandra Camaiani, avvocato in Firenze, nasce a Ponticino, un piccolo paese in provincia di Arezzo. Scrive per mestiere, scrive per diletto e anche un po' per riflettere su se stessa. Ha a cuore i diritti civili e sociali, per cui lotta insieme a Generazioni Future Rodotá.

L’estate a Follonica

Di Alessandra Camaiani

La giornata era limpida, le prime calure dell’estate si affacciavano nella campagna aretina a soffocare le fatiche dei contadini, tra i filari. Li impegnava la potatura di giugno, quella che rinvigorisce il fogliame e permette al vino di essere più buono, perché più dolce, alla prossima vendemmia. Ognuno con le proprie forbici, tutti intenti a spelucchiare le fronde, togliere gramigne e pettinare la pianta ignara, che correva sinuosa tra i fili di lega. C’era chi fumava, assorto nei propri pensieri, chi invece fischiettava e si lasciava sfuggire qualche nota, intonando di tanto in tanto una canzone: Maramao, perché sei morto? Pane e vin non ti mancava! Alcuni brontolavano, discutendo col tempo e se la pigliavano con Dio, colpevole di non far piovere da oltre un mese; toccava star dietro all’orto, preparando solchi per l’acqua e mettendone via grosse cisterne, finché c’era, ché poi d’agosto non si sa mica.

Il sole delle undici è il più bel sole del giorno, fresco e azzurro, disegna contorni nitidi e stacca le nuvole dal cielo, come su piani differenti, ce le avvicina; l’aria si poggia sulle cose leggera e pizzicorina, offre un vivo senso di possibilità e di aspettativa. La fame risveglia -immediata- e già stringe lo stomaco, a quasi sei ore dalla sveglia. Ogni occasione è buona per un goccio di vita dentro a tante tribolazioni. Mario si stacca per primo dal filare e raggiunge il paniere rosso, in cima.

E’ rimasto lì dalla vendemmia e ormai si mischia con l’erba bionda, completamente ricoperto di foglie e di spighe. Lo solleva e grazie al suo coltellino, sempre in tasca ai calzoni, lo libera con vigore da quel nodo naturale, sistemandolo con modo vicino ai tre scalini di pietra che separano il campo dalla strada. Lo infila in un anfratto del resede dove può nascondere il manico e mantenerlo piatto, poi va verso il trattore e dalla cabina raccoglie una borsa.

“Io fo colazione!”, grida a voce piena verso gli altri, certo di essere subito raggiunto.

Si siede sul gradino di mezzo e avvia ad aprire la borsa. Tira fuori, anzitutto, un pezzo di pane, amorevolmente avvolto in un fazzoletto di panno, che impiega a tovaglia, distendendolo sopra al culo del paniere. Vi sdraia sopra anche un pezzo di spalla e un salamino avviato, una bottiglia di vetro col tappo di sughero e un paio di bicchieri sul collo. Fruga e trova un tocco di formaggio bell’e stagionato, duro e saporito, che non resiste a scalfire con la lama. Inghiottisce il cacio mentre Pietro e Piero, lasciate le forbici e raccattate le camicie dal capotesta, risalgono la vigna.

“A che ora andate via?” fa Pietro a Piero, intento ad accendersi una sigaretta.

“Dopo pranzo. Volevo vedere se si finiva di potare almeno questa parte di filari qui, ché poi rimangono quelli al Monte e per farli ci vogliono tre o quattro giorni..e se non piove è male”.

“La cìtta chi la porta giù, la va a prendere la Mirella?” fa allora Pietro buttandosi all’ombra del ciliegio fiorito, nell’umido fresco del terreno mattutino.

“Penso di sì; dovrebbe anzi essere già partita, perché vedo che la macchina non c’è” e si cala un goccio nel bicchiere a vu.

“Comunque s’è quasi finito, manca quel pezzo laggiù verso Beppe e poi basta. Io dico che per pranzo è fatta!” fa Mario indicando col dito il campo del cugino confinante.

I tre si mettono, quindi, a mordere il pane che intanto hanno riempito con l’affettato e il formaggio, tagliati con la lama della tasca e perdono lo sguardo nel pendio che conduce a valle della proprietà, proprio sotto al bosco scuro, a contrasto col biondo della terra coltrata. Qualche rondine si affaccia all’orizzonte e l’aria prende a ravvivare il suo fuoco: non c’è tempo! E’ quasi mezzogiorno e si deve finire.

“Piero!” si sente gridare.

“Piero affrettati, dobbiamo partire, altrimenti facciamo tardi e poi si arriva a buio! Vado a prendere la cìtta e appena torno si parte. Fatti trovare pronto!”. E’ Mirella, la moglie di Piero, che corre ad annunciare i tempi: un’ora scarsa per tirare a completare la piccola porzione di vigna.

“Mario” -prosegue Mirella- “te ci raggiungi a Follonica, allora?”

E Mario col suo solito fare borbottante: “Mah, vedremo. Semmai nel fine settimana”, dice con distacco per celare la gioia che invece provava nel poter stare tutti insieme. Da diversi anni, ormai, viveva da solo e non aveva altra compagnia che quella di Piero e Mirella. Certo, c’era suo figlio; ma si sa, i figli crescono e prendono le loro direzioni, lasciando i genitori alla finestra ad aspettarne trasognanti il ritorno.

Da quelle finestre si guarda il mondo in cerca di una novella di buona ventura, un annuncio lieto o inaspettato. Dai vetri si respira il profumo del pomodoro bollito e la vista è composta da dolci pendici lungo colli di bottiglie di birra. Il vetro usato per la conserva tratteggia una rete rosso sangue tra la casa e l’orizzonte: al di qua della finestra c’è il sicuro e genuino poco, oltre, invece, c’è l’incerto pericolo della scommessa. Gli occhi e i pensieri viaggiano impazziti cavalcando chimere e draghi, scintillano quelli dei bambini mentre si perdono laggiù, sopra a un rotolo di fieno. Dietro, corre una macchina lungo l’autostrada e mentre nessuno se ne accorge l’eterno irrompe tra le mura di casa, consegnando a ciascuno dei presenti un ricordo indelebile da scalfire -senza accorgersi- nel cuore.

“Mirella! Tutte le volte la stessa storia! Ti ho già detto che voglio finire qui prima di partire e finché non si finisce, non si parte. Non piove da giorni; lo sai cosa significa andare via per dieci giorni lasciando tutto com’è? Vuol dire buttare via tutto. Vai a pigliare la cìtta e quando s’è finito si va!”.

Così dice Piero con risolutezza alla moglie. Lei, ogni volta che lo sentiva reagire con quel vigore e tempra, rimaneva di stucco: si meravigliava, reinnamorandosi ogni volta, di quel piccolo uomo minuto e silenzioso, che con lo sguardo ficcante l’aveva rapita quando era ancora una bambina.

“Va bene”, dice, e parte con la sua Polo Wolksvagen ormai attempata.

Il lavoro prosegue tra i filari, tra un commento e l’altro. I tre personaggi ridono, s’infervorano e bestemmiano mentre portano a termine il lavoro. La calura aumenta e si fa insopportabile, ma tanto l’orologio batte le tredici e quaranta, la Mirella è tornata e ci si prepara a partire.

L’immagine di copertina è Spiaggia di Follonica, di Paul Nichols (Immagine trovata in rete sul sito pamono.it)