Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

Gli amori impossibili nella Gerusalemme Liberata di Tasso tra opposizioni e devianza.

Di Graziella Enna

Il termine erranti, presente nel proemio, è fondamentale per comprendere la Gerusalemme del Tasso e ci dà la chiave di lettura non solo del poema ma anche della concezione dell’amore. Quel vocabolo che secoli dopo Leopardi avrebbe usato per il suo pastore asiatico tormentato dall’erranza materiale e spirituale, rivela anche in Tasso la varietà del suo campo semantico. I compagni d’arme di Goffredo dopo tanti anni di guerra hanno bisogno di coltivarle loro aspirazioni lontano da quelle mura da tempo assediate, rincorrono i sogni di amore e di gloria, come ogni uomo rinascimentale, il poeta stesso, dopo aver definito loro erranti, chiama anche se stesso “peregrino errante”. Esiste, infatti, una contraddizione palese in Tasso: la multiformità, che egli aborre in nome del formalismo e della ricerca di unità, si dissolve di fronte all’erranza e alla devianza. Da questo scaturisce l’impossibilità di rendere concreto qualunque storia d’amore perché comporta l’allontanamento dalla missione bellica dell’eroe combattente che vive per difendere la fede. In un certo senso la figura di molti crociati è un ritorno alle origini, alla nascita della Chanson de geste, in cui l’amore non era annoverato tra le prerogative del paladino che agiva come un vero martire della fede. La commistione tra vicende d’armi e storie d’amore, (operata da Boiardo e da Ariosto), introduce l’amore perché consona allo spirito umanistico – rinascimentale,  Tasso però è costretto a rinunciarvi, pur vagheggiandola, per uniformarsi alla rigida spiritualità controriformistica. Da questo conflitto nascono amori infelici e irrealizzabili. L’altra cifra degli amori tassiani è l’opposizione, i cristiani s’innamorano di donne pagane e viceversa, oppure sono attratti da amori svincolati da leggi morali e finalizzati alla ricerca dei sensi. Molti personaggi della Gerusalemme perciò nel loro agire tentano di soffocare, nascondere e dissimulare le loro passioni amorose che sono caratterizzate da ostacoli o impedimenti spesso insormontabili. Il primo personaggio che si prende in esame è la pagana Erminia che ama, non corrisposta, il cristiano Tancredi, parte di un triangolo amoroso impossibile da realizzarsi in cui l’uomo a sua volta ama un’altra pagana cioè Clorinda. E’ evidente fin da subito come Tasso voglia mettere in luce l’impraticabilità di un simile rapporto, anche se è consapevole che l’amore sarebbe capace di annullare le differenze di cultura e di religione e i ruoli imposti dalla guerra. Esso s’indirizza, infatti, verso rivali, nemici ed entra subito in contrasto con i doveri dei guerrieri che divengono per questo “erranti” e incuranti dei “celesti ardori” che dovrebbero perseguire. L’amore, come una forza centrifuga irresistibile li allontana dal loro alto compito e diventa un elemento di devianza. L’ambivalenza tassiana è frutto del suo tempo, di quel cosiddetto bifrontismo spirituale che lo caratterizza con il quale si fa portavoce delle contraddizioni di un’epoca. Il conflitto cristiano-pagano s’identifica pertanto non in una guerra di religione ma come conflitto insanabile tra le istanze controriformistiche e l’edonismo rinascimentale. Gli amori infelici ne sono dunque la diretta e ovvia conseguenza.  Il primo esempio è collocato nel terzo canto in un episodio chiamato, con riferimento all’Iliade, teichoscopia: Erminia e il re Aladino osservano dall’alto i guerrieri più valorosi, tra cui Tancredi che appare ai loro occhi “feroce e leggiadro” mentre si appresta a una giostra. Quando il re le chieda chi sia, la sua risposta è contraria a quelli che sono i suoi reali sentimenti:

XVIII.

Chi è dunque costui che così bene
S’adatta in giostra, e fero in vista è tanto?
A quella, in vece di risposta, viene
Su le labra un sospir, su gli occhj il pianto.
Pur gli spirti e le lagrime ritiene,
Ma non così che lor non mostri alquanto:
Chè gli occhj pregni un bel purpureo giro
144Tinse, e roco spuntò mezzo il sospiro.

XIX.


Poi gli dice infingevole, e nasconde
Sotto il manto dell’odio altro desio:
Oimè! bene il conosco, ed ho ben donde
Deggia fra mille riconoscerl’io:
Chè spesso il vidi i campi e le profonde
Fosse del sangue empir del popol mio.
Ahi quanto è crudo nel ferire! a piaga
Ch’ei faccia, erba non giova, od arte maga.

I sospiri, gli occhi arrossati sono in netto contrasto con la sua risposta, in cui è costretta a essere “infingevole”, a dissimulare la verità e celare i sentimenti che si agitano nel suo cuore. Sotto l’apparente odio cova, infatti, il suo desiderio d’amore. I versi successivi 149-152 sono caratterizzati dall’ambiguità perché Erminia ricorda i suoi concittadini caduti per mano di Tancredi durante la guerra combattuta presso Antiochia e citando le ferite insanabili inferte da lui  in battaglia allude alla sua piaga d’amore che non può essere guarita né con erbe mediche né con arti magiche. Il topos della ferita d’amore, in questo caso è di ascendenza petrarchesca[1], ma anche Ariosto[2], usa l’immagine della ferita insanabile per esprimere l’afflizione di Bradamante dovuta alla gelosia. Si possono addurre altri episodi in cui Erminia è costretta a fingere per celare i suoi sentimenti adottando l’espediente del travestimento che, insieme con la suddetta dissimulazione, caratterizza il personaggio della donna e del suo lacerante dissidio interiore.  Nel canto VI si vede costretta a indossare l’armatura di Clorinda per cercare di raggiungere e curare Tancredi ferito nel duello con Argante. Neppure la profonda amicizia che la lega a Clorinda fa sì che le possa rivelare il suo tormentoso segreto. Il travestimento e la sortita di Erminia sono tutti giocati attraverso un lessico e oggetti che attengono all’ambito guerresco, esempio eclatante è appunto l’armatura. Nelle ottave CIII e seguenti esprime tutta la sua passione d’amore in termini elegiaci e si abbandona al suo lamento, complice una suggestiva notte rischiarata dalla luna di derivazione virgiliana e petrarchesca. Quando passa nell’accampamento cristiano, pensa a Tancredi come suo signore ricordando i tempi in cui era stata sua prigioniera e prova l’illusione di poter trovare pace tra le armi, palese ossimoro, per indicare dove si trovi il suo amato. 

Era la notte, e ’l suo stellato velo
chiaro spiegava e senza nube alcuna,
e già spargea rai luminosi e gelo
di vive perle la sorgente luna.
L’innamorata donna iva co ’l cielo
le sue fiamme sfogando ad una ad una,
e secretari del suo amore antico
fea i muti campi e quel silenzio amico.
CIV
Poi rimirando il campo ella dicea:
– O belle a gli occhi miei tende latine!
Aura spira da voi che mi ricrea
e mi conforta pur che m’avicine;
così a mia vita combattuta e rea
qualche onesto riposo il Ciel destine,

come in voi solo il cerco, e solo parmi
che trovar pace io possa in mezzo a l’armi.


CV
Raccogliete me dunque, e in voi si trove
quella pietà che mi promise Amore
e ch’io già vidi, prigioniera altrove,
nel mansueto mio dolce signore.
Né già desio di racquistar mi move
co ’l favor vostro il mio regale onore;
quando ciò non avenga, assai felice
io mi terrò se ’n voi servir mi lice. –

Purtroppo Erminia non sa che la sua illusione sta per svanire e la ritroviamo nel canto VII in un episodio la cui peculiarità è sempre quella del travestimento. Inseguita dai cavalieri cristiani che la credono Clorinda, dopo una precipitosa fuga, giunge in una comunità di pastori in cui è amorevolmente accolta. Qui, deposta l’armatura, si veste di umili abiti pastorali e cerca di smorzare gli ardori amorosi immergendosi nella vita bucolica e dedicandosi a inconsuete attività pastorali. Nemmeno in questo frangente il suo cuore straziato trova pace, mentre pascola le pecore incide nelle cortecce degli alberi il nome amato di Tancredi in mille modi e rileggendolo versa calde lacrime. In questi gesti compiuti da Erminia, Tasso utilizza un topos letterario della lirica pastorale, ma l’antecedente prossimo cui fa riferimento è l’episodio dell’Orlando Furioso (XIX, 36), in cui Angelica e Medoro intagliano i loro nomi nelle scorze delle piante. Ci sono però delle differenze sostanziali tra i due episodi, la più evidente è senza dubbio il fatto che nei personaggi ariosteschi si parla di un amore felice, qui invece di un amore impossibile da cui scaturisce un tormento interiore, sottolineato dall’aggettivo “strani” che  significa che Tancredi è straniero, pure  nemico e gli sviluppi della vicenda si presentano poi alquanto contorti e inconsueti.

XIX.


  Sovente, allor che su gli estivi ardori
Giacean le pecorelle all’ombra assise,
Nella scorza de’ faggj e degli allori
Segnò l’amato nome in mille guise:
E de’ suoi strani ed infelici amori
Gli aspri successi in mille piante incise:
E in rileggendo poi le proprie note
Rigò di belle lagrime le gote.

Nelle ottave successive ricorre ancora il motivo del pianto che costituisce la caratterizzazione intrinseca del personaggio di Erminia e svela anche la proiezione autobiografica del Tasso sulla figura della donna dall’animo fragile e tormentato. L’apice del tono patetico si raggiunge quando Erminia immagina che dopo aver posto fine alle sue sofferenze riceverà la visita di Tancredi  al suo tumulo e onorerà la sua sepoltura con “lagrimette e sospiri” termini con cui richiama il verso petrarchesco “di qualche lagrimetta, o d’un sospiro” (CVIII). Almeno da morta potrà godere di ciò che non ha avuto in vita, la pietà e l’amore di Tancredi, giusta ricompensa per le sue sofferenze. Anche in questo frangente tuttavia si può notare il contrasto tra le lagrimette di Tancredi e il disperato pianto di Erminia che “fonti di pianto da’ begli occhj elíce”. Tancredi evocato dalle fantasie di Erminia nello stesso tempo insegue quella che lui pensa sia Clorinda, entrambi sono spinti dalla necessità di rincorrere il loro sogno, nella fuga invece se ne allontanano.

XX.

 Indi dicea piangendo: in voi serbate
Questa dolente istoria, amiche piante:
Perchè se fia ch’alle vostr’ombre grate
Giammai soggiorni alcun fedele amante,
Senta svegliarsi al cor dolce pietate
Delle sventure mie sì varie e tante:
E dica: ah troppo ingiusta empia mercede
Diè Fortuna ed Amore a sì gran fede!

XXI.


 Forse avverrà, se ’l Ciel benigno ascolta
Affettuoso alcun prego mortale,
Che venga in queste selve anco tal volta
Quegli, a cui di me forse or nulla cale:
E rivolgendo gli occhj ove sepolta
Giacerà questa spoglia inferma e frale,
Tardo premio conceda a’ miei martiri
Di poche lagrimette, e di sospiri.

XXII.


 Onde, se in vita il cor misero fue,
Sia lo spirito in morte almen felice:
E ’l cener freddo delle fiamme sue
Goda quel ch’or godere a me non lice.
Così ragiona ai sordi tronchi, e due
Fonti di pianto da’ begli occhj elíce.
Tancredi intanto, ove fortuna il tira
Lunge da lei, per lei seguir, s’aggira.

Risalta nell’ottava XXI soprattutto il richiamo ai versi petrarcheschi della canzone CXXVI in cui il poeta immagina che Laura un giorno tornerà in quei luoghi dove il suo corpo sarà sepolto e finalmente sarà ispirata dall’Amore e della pietà.

Tempo verrà anchor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella et mansüeta,
30et là ’v’ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi; et, o pietà!,
già terra in fra le pietre
35vedendo, Amor l’inspiri.

Nel XII canto, si consuma la tragedia d’amore per eccellenza del poema, Tancredi e Clorinda si scontrano in un duello caratterizzato dall’ambiguità e paradossalmente giocato sulla cifra della sensualità, come se Tasso, consapevole dell’amore impossibile, trasferisse la fisicità del sentimento sulla lotta. L’episodio si svolge durante la notte e l’oscurità accentua e amplifica il momento in cui la ragione dei due guerrieri è obnubilata dalla pregnanza dell’ira e del furore guerriero. Combattono a corpo a corpo la loro singolar tenzone, i colpi diventano sempre più violenti nonostante l’oscurità impedisca di mettere in atto le loro abilità di spadaccini. Nell’ottava LVII i tre abbracci che dovrebbero essere d’amore, divengono invece nodi tenaci di un fiero nemico e non di un amante da cui ella si divincola. Non a caso Tasso richiama i celebri versi omerici[3], virgiliani[4] e danteschi[5] dell’abbraccio impossibile.

LVII

Tre volte il cavalier la donna stringe

 con le robuste braccia, ed altrettante

da que’ nodi tenaci ella si scinge,

nodi di fer nemico e non d’amante.

Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge

 con molte piaghe; e stanco ed anelante

e questi e quegli al fin pur si ritira,

e dopo lungo faticar respira

Mentre la lotta si fa sempre più accesa e ormai sono divenuti accaniti rivali, Tancredi deplora che il buio nasconda agli occhi di tutti un duello tanto esemplare, ma in realtà la sua vera sventura è di non riconoscere l’amata. L’erotismo velato della scena è evidenziato nell’ottava LXIV con dei termini da cui emerge la femminilità della donna: la spada avida che s’immerge di punta nel bel seno la veste trapuntata d’oro che protegge con dolcezza le mammelle.

LXIV

Ma ecco omai l’ora fatale è giunta

che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.

Spinge egli il ferro nel bel sen di punta

che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;

e la veste, che d’or vago trapunta

le mammelle stringea tenera e leve,

l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente

morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.

Anche la trafitta vergine dell’ottava LXV richiama a un’ambigua unione d’amore. Nel momento in cui la bella donna si accorge che sta morendo, la sua sensualità e i suoi ardori terreni si spostano su un altro piano, la spiritualità, mentre sopraggiungono le luci dell’alba, emblema di catarsi e illuminazione rispetto alla notte caratterizzata dal male e dall’oscurità da cui scaturiscono la cecità delle azioni umane.

LXV

Segue egli la vittoria, e la trafitta

vergine minacciando incalza e preme.

Ella, mentre cadea, la voce amitta

 movendo, disse le parole estreme;

parole ch’a lei novo un spirto ditta,

 spirto di fé, di carità, di speme:

 virtù ch’or Dio le    infonde, e        se rubella

 in vita fu, la vuole in morte ancella

Giacché l’amore è impraticabile e impossibile, Tasso lo trasfigura e lo sublima in una conversione della donna in punto di morte in cui è spinta da una forza fatale che fa emergere dai meandri reconditi del suo spirito un anelito verso Dio in cui ella ritrova la sua vera identità: Dio la rende sua ancella, anche se in vita fu ribelle alla fede. Tutto questo è suggellato nel momento del trapasso, quando Tancredi sente la richiesta del suo nemico di ricevere il battesimo e togliendole l’elmo scopre la dura e inaccettabile realtà. E qui si rivela tutta la potente ironia tragica della sorte nel momento in cui Tancredi la riconosce proprio quando lei, ormai morente, mostra il suo pallido sembiante con gli occhi rivolti al cielo e gli dà pegno di pace con la mano ormai fredda.

LXIX

D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,

come a’ gigli sarian miste viole,

e gli occhi al cielo a±sa, e in lei converso

 sembra per la pietate il cielo e ’l sole;

e la man nuda e fredda alzando verso

 il cavaliero in vece di parole

 gli dà pegno di pace.In questa forma

 passa la bella donna, e par che dorma.

S’inserisce nella narrazione la disperazione di Tancredi distrutto dal dolore, egli prende in odio la sua vita, niente e nessuno può arrecare un barlume di conforto all’animo straziato. Goffredo e i suoi più fidati amici tentano con severi rimproveri o con amorevoli preghiere di lenire la sua sofferenza. Il venerabile Pietro l’Eremita, che si preoccupa di Tancredi come avrebbe fatto un pastore con un agnello ferito, lo redarguisce e lo esorta ad assumere nuovamente il suo ruolo di guerriero e non lasciarsi più traviare dall’amore, forza centrifuga che porta i guerrieri lontani dal loro obiettivo. Il suo errore è stato appunto il vaneggiare, la devianza dal suo precipuo ufficio di cavaliere di Cristo, che egli ha abbandonato per diventare il disonorevole amante di una donna pagana. E’ utilizzato, infatti, il termine “drudo” proprio nella sua accezione negativa di amante illegittimo. Nonostante ciò può avvalersi dell’accaduto come forma di provvida sventura, perché egli ha ancora l’opportunità di salvarsi, dono che Dio gli offre se smette di inseguire i suoi vani desideri.

LXXXVII

A gli atti del primiero ufficio degno

di cavalier di Cristo ei ti rappella,

che lasciasti per farti (ahi cambio indegno!)

 drudo d’una fanciulla a Dio rubella.

Seconda aversità, pietoso sdegno

 con leve sferza di là su flagella

 tua folle colpa, e fa di tua salute

te medesmo ministro; e tu ’l rifiute?

Come una visione petrarchesca o dantesca (di cui peraltro Tasso offre ampie e frequenti citazioni in ogni verso), Clorinda gli appare in sogno molto più bella, innalzata nella luce divina, nel gesto pietoso di asciugargli le lacrime. Anche lei ha avuto la sua disgrazia salvifica, grazie alla morte che lui le ha causato per errore, ma ora è felice in mezzo agli angeli e ai beati. Lo spirito di Clorinda auspica per il suo amato, in nome del sentimento che la lega a lui, un ricongiungimento molto più nobile di quello terreno nella dimensione celeste, che sarà fonte di estrema elevazione spirituale e della salvezza dell’anima. Condizione essenziale perché ciò si realizziè una condotta che escluda il vaneggiare dietro alle passioni umane e terrene. In questo modo Tasso riesce a sanare tutti i conflitti trasfigurandoli nella dimensione ultraterrena dove l’amore terreno si sublima e diviene un tutt’uno con l’amore per Dio.

XCII.


 Tale i’ son, tua mercè: tu me da i vivi
Del mortal mondo, per error, togliesti:
Tu in grembo a Dio fra gl’immortali e divi,
Per pietà, di salir degna mi festi.
Quivi io beata amando godo, e quivi
Spero che per te loco anco s’appresti;
Ove al gran Sole e nell’eterno die
Vagheggerai le sue bellezze e mie.

XCIII.


 Se tu medesmo non t’invídi il Cielo,
E non travii col vaneggiar de’ sensi,
Vivi, e sappi ch’io t’amo, e non te ’l celo,
Quanto più creatura amar conviensi.
Così dicendo, fiammeggiò di zelo
Per gli occhj, fuor del mortal uso, accensi:
Poi nel profondo de’ suoi rai si chiuse
E sparve, e novo in lui conforto infuse.

Un’altra vicenda d’amore che solo inizialmente appare realizzata è quella tra Rinaldo e la maga Armida ambientata nel giardino della bellissima donna (canto XVI), in cui Rinaldo vive dimentico dei suoi doveri completamente ammaliato e rapito in un incantesimo d’amore. Tasso, utilizza molti topoi rinascimentali, la descrizione edenica del giardino incantato sulla scorta del locus amoenus classicheggiante e pagano, le parole del pappagallo parlante che esortano a “cogliere la rosa”, (evidente il riferimento a Poliziano[6] e ad Ariosto nel discorso di Sacripante)[7], tutto ciò ha lo scopo di presentare il luogo incantato, oltre che fittizio poiché frutto di un sortilegio, sotto una luce negativa, tuttavia il Tasso ne è morbosamente attratto e prova quasi compiacimento nell’indulgere alla descrizione della sensualità dei colloqui intimi dei due amanti.

XIX

E i famelici sguardi avidamente
In lei pascendo si consuma e strugge.
S’inchina, e i dolci baci ella sovente 
Liba or dagli occhi e da le labbra or sugge,
ed in quel punto ei sospirar si sente
Profondo si’ che pensi:”or L’alma fugge
E ‘n lei trapassa peregrina”. Ascosi
Mirano i duo guerrieri gli atti amorosi.

I due guerrieri dell’ultimo verso sono Carlo e Ubaldo che rappresentano la razionalità, il dovere, gli obblighi morali che Rinaldo deve rispettare, gli mostrano uno scudo adamantino in cui si rispecchia.  Riconosciuta la propria identità perduta, disdegnato il suo aspetto effeminato, lascivo e ornato d’inutili orpelli, si affretta a uscire “dalla torta confusione del labirinto”. Ridestato dal soggiogamento erotico della maga, è pronto ad affrontare la guerra e spezzare l’incantesimo della selva di Saron. Armida da maga diventa donna, delusa e abbandonata, il suo lamento d’amore può essere paragonato a quello della Didone virgiliana[8], quando la regina scopre la partenza che Enea prepara a sua insaputa, o all’Arianna di Catullo, abbandonata da Teseo sulla spiaggia deserta[9].

LVII
«Né te Sofia produsse e non sei nato
de l’azio sangue tu; te l’onda insana
del mar produsse e ‘l Caucaso gelato,
e le mamme allattàr di tigre ircana.
Che dissimulo io piú? l’uomo spietato
pur un segno non diè di mente umana.
Forse cambiò color? forse al mio duolo
bagnò almen gli occhi o sparse un sospir solo?

LXIII
Quali cose tralascio o quai ridico?
S’offre per mio, mi fugge e m’abbandona;
quasi buon vincitor, di reo nemico
oblia le offese, i falli aspri perdona.
Odi come consiglia! odi il pudico
Senocrate d’amor come ragiona!
O Cielo, o dèi, perché soffrir questi empi
fulminar poi le torri e i vostri tèmpi?

LIX
Vattene pur, crudel, con quella pace
che lasci a me; vattene, iniquo, omai.
Me tosto ignudo spirto, ombra seguace
indivisibilmente a tergo avrai.
Nova furia, co’ serpi e con la face
tanto t’agiterò quanto t’amai.
E s’è destin ch’esca del mar, che schivi
gli scogli e l’onde e che a la pugna arrivi,


LX
là tra ‘l sangue e le morti egro giacente
mi pagherai le pene, empio guerriero.

Per nome Armida chiamerai sovente
ne gli ultimi singulti: udir ciò spero.»
Or qui mancò lo spirto a la dolente,
né quest’ultimo suono espresse intero;
e cadde tramortita e si diffuse
di gelato sudore, e i lumi chiuse.

Nel canto VI Armida era apparsa astuta e irresistibile seduttrice, capace di irretire e incantare i crociati, come la Circe omerica, ma una volta abbandonata da Rinaldo nel canto XVI, si abbandona al sentimento d’amore autentico e si presenta come un’eroina del mito, abbandonata, fragile, indifesa. Armida è forse il personaggio più dinamico della Gerusalemme e subisce una trasformazione da infida maga a donna disperata e delirante. Il suo cambiamento non termina però con questo episodio, ma raggiunge il suo apice alla fine del poema con una metamorfosi completa, nel canto XX. Dopo aver odiato Rinaldo ed essersi schierata a combattere contro di lui, si rende conto di amarlo ancora e tenta di uccidersi ma è salvata dall’amato. Pur di stargli accanto abbraccia la fede cristiana pronunciando parole che nella sua bocca appaiono blasfeme “Ecco l’ancilla tua”, perché ricalcano la formula usata dalla Vergine per rivolgersi all’arcangelo Gabriele che le annunciava la nascita di Gesù.

CXXXV
Mira ne gli occhi miei, s’al dir non vuoi
fede prestar, de la mia fede il zelo.
Nel soglio, ove regnàr gli avoli tuoi,
riporti giuro; ed oh piacesse al Cielo
ch’a la tua mente alcun de’ raggi suoi
del paganesmo dissolvesse il velo,
com’io farei che ‘n Oriente alcuna
non t’agguagliasse di regal fortuna.”

CXXXVI
Sí parla e prega, e i preghi bagna e scalda
or di lagrime rare, or di sospiri;
onde sí come suol nevosa falda
dov’arda il sole o tepid’aura spiri,
cosí l’ira che ‘n lei parea sí salda
solvesi e restan sol gli altri desiri.
“Ecco l’ancilla tua; d’essa a tuo senno
dispon,” gli disse “e le fia legge il cenno.”

Da amante sensuale a donna disperata finisce per rinnegare la sua natura d’incantatrice per approdare alla spiritualità cristiana, il suo percorso trova dunque fine nella totale dedizione al suo amato. Ancora una volta Tasso riesce a stemperare le passioni terrene e conflitti interiori da esse generati e scioglie il conflitto tra le armi e l’amore nella fede in Dio. L’amore dunque può riscattarsi da opposizioni e devianze e divenire strumento salvifico solo nella sublimazione della religione, unica modalità che rimane a Tasso per poterlo celebrare in modo consono al periodo controriformistico.

[1] Petrarca, Canzoniere, LXXV

[2] Ariosto, Orl. Fur. XXXI, 5

[3] Hom, Odissea, XI, vv.206-208

[4] Verg, Aeneis VI, vv.700-703

[5] Dante,  Purg. II vv, 76-81

[6] Poliziano “I’ mi trovai fanciulle un bel mattino” vv.21-26

[7] Orl. Fur. I, ottava XLII

[8]Verg,  Aeneis IV, vv. 365 e seg.

[9] Catullus, Carmina, LXIV, 132 e seg.

Questo articolo è apparso anche sulla rivista Euterpe

In copertina Torquato Tasso da wikipedia