Fa l'avvocato ed è stato calciatore nelle giovanili della Juventus.

LA LANCIATRICE DELLA LUNA

Di Teodoro Lorenzo. Racconto tratto dal libro Le formiche rosse

Non aveva saputo dire no alle sue compagne di squadra e aveva ceduto alle loro insistenze lasciandosi trascinare in quella caverna psichedelica.

La discoteca non le era mai piaciuta.

Non amava quel buio sotterraneo rotto da vampate di luce e quella musica prodotta in serie, ridotta ad un unico indistinguibile rumore, amplificato e assordante.

Le dava fastidio anche la confusione, il forzato contatto con gli altri, quel continuo e obbligato sfregarsi, strusciarsi, toccarsi, scusa permesso, odori che invadono le narici, zaffate nauseanti di profumo, deodorante, lacca, sudore.

Ridicoli le apparivano poi quelli che ballavano sulla pista, acefali burattini disarticolati affaccendati in ancheggi, dondolii, convulsioni di braccia e gambe tra smorfie e ammiccamenti.

Ma lei, Silvia De Angelis, genovese, vent’anni appena compiuti, era certo un caso a parte, anomalo rispetto ai suoi coetanei, e nei suoi pensieri, lei stessa ne era consapevole, c’era sicuramente una buona dose di esagerazione.

Del resto l’esagerazione era divenuta il suo tratto distintivo. Di tutto aveva qualcosa in più del normale, anche fisicamente.

Per correggere una piccola malformazione della colonna vertebrale e bloccare un accenno di linfatismo aveva iniziato a lanciare il disco.

Gli allenamenti intensi sulla pista uniti a faticose sedute di pesi in palestra avevano provocato l’esplosione del suo corpo.

Ogni muscolo, ogni arto, il seno, i glutei, il collo improvvisamente erano lievitati come ciambelle nel forno e oggi si trovava un corpo da virago sotto un viso che aveva mantenuto i delicati lineamenti dell’infanzia, gli occhi chiari e i capelli colore del miele.

Dopo appena un quarto d’ora dal suo ingresso, Silvia si era già ritirata in un angolo della terrazza.

Da lì scorgeva le compagne che ballavano in cerchio, sorridendosi, godendo unicamente dei movimenti che imprimevano ai loro corpi.

Per una volta si sorprese di invidiarle.

In quel momento avrebbe voluto staccarsi dal parapetto, dimenticare il suo odiato corpaccione e unirsi alle sue amiche, lanciarsi in quel canestro luminoso di serpenti umani e mischiarsi a loro, contorcersi, emettere versi e gridolini di piacere, sibilare con lingua e bocca, farsi serpente anche lei.

Ma era soltanto un palpito più accelerato del cuore: carne e cervello la tenevano inchiodata al parapetto di quella terrazza, sotto quel cielo da presepe, fitto di stelle.

In fondo si sentiva bene e ringraziava tra sé le insistenze delle compagne che l’avevano spinta fino alle Vele.

E ringraziava anche la luce di quel cielo ed il mare che si stendeva come seta nera sotto di lei.

Miracolosamente quel desiderio di infinito, che a tratti emergeva dagli strati bui dei suoi precordi come una vaghezza nostalgica, si era fatto materia.

Lontana e dimentica della volgarità della gente, in un’ansia appagata di cosmica unicità, le sembrava che quello stesso soffio di vita che alitava nello spazio e dava luce alle stelle, profondità al mare, trasparenza all’aria fluisse nelle sue vene e si sentiva affine alle stelle, al mare, all’aria.

Silvia De Angelis volle credere per un istante che la balugine di fuoco di cui percepiva il calore dentro di sè, e che sapeva essere la sua vera ed unica forza, si fosse trasformata in un immenso falò capace finalmente di bruciare tutta la sua carne.

Lei odiava il suo corpo, quel corpo diventato largo in una notte, come se il diavolo stesso lo avesse gonfiato soffiandoci dentro il suo fiato pestilenziale.

Il corpo e l’anima di Silvia viaggiavano lontani. Nessun punto di contatto poteva stabilirsi tra i due: l’anima non si riconosceva, non poteva riconoscersi in quel corpo.

Così fragile e delicata la prima, così goffo e pesante il secondo; così aerea e nobile l’una, così denso e prosaico l’altro.

Silvia voleva essere solo anima mentre tutti invece ne vedevano solo il corpo. Non andavano al di là di quel fisico imponente e la trattavano per quello che vedevano, soprattutto i ragazzi.

Alcuni di fronte a lei si mostravano imbarazzati, altri si avvicinavano con timore, altri ancora, ed erano i più, la coinvolgevano impudicamente nei loro lazzi osceni, come se fosse uno di loro.

Ma Silvia non sopportava quel loro cameratismo fatto di pacche sulle spalle e di risate sguaiate, soffriva in silenzio per quelle volgarità.

Immersa nella notte e nei suoi pensieri non si era accorta dell’ombra silenziosa che le si era avvicinata: “Che armonia vero? “

Una voce suadente, leggermente sporca di fumo, frantumò il guscio di cristallo dentro il quale Silvia aveva sentito respirare l’universo.

“Guarda laggiù, le luci sparpagliate dei paesi. Sembrano stelle lanciate come dadi dalla mano di Dio dall’alto della montagna e rimaste lì, sul suo fianco, dopo aver finito di rotolare”

Silvia girò gli occhi per osservare quell’ombra e colse una massa disordinata di capelli, lo scintillio di una lente.

“Mi chiamo Miriam. È tanto che ti osservo ma eri talmente assorta che non volevo disturbarti. L’ho fatto? “

Silvia strinse quella mano: la sentì calda e sottile come una sfoglia di pasta.

“Allora, ti ho disturbato?”

La ragazza emergeva ora in tutta la sua nettezza; gli occhi scuri dietro gli occhiali, la piega colma della camicetta, le gambe nervose strette nei jeans e slanciate dai tacchi. Silvia la osservava con curiosità.

Sarebbe stato facile per lei far cadere nel nulla quella domanda e allontanarsi con un pretesto qualsiasi ma una strana attrazione, una misteriosa forza sconosciuta la tratteneva. Del resto, si disse, l’incanto è svanito, tanta vale scambiare due parole.

“No anzi. Io sono Silvia, piacere “

“A cosa pensavi di tanto importante da rimanere tutto questo tempo in contemplazione del mare? Sembrava che qualcosa ti attirasse, ti spingevi oltre il parapetto”.

“Mi sentivo un aquilone. Ho sperato che il soffio della notte mi staccasse da queste pietre e mi trascinasse con sé a fare capriole tra le stelle. Ma il mio corpo mi ha tenuto attaccata alla terra, ancora una volta”

La risposta illuminò il volto di Miriam di una fila smagliante di perle.

“Avevo paura che mi rispondessi qualche stronzata delle solite, tipo un fidanzato lontano o gli esami all’università. Voleva dire che avevo fatto male ad avvicinarmi e che avevo sbagliato tutto “

“Invece sei soddisfatta? “

“Devo dire di sì, sei senza dubbio una ragazza non comune”

“Beh, non hai fatto quella gran scoperta. Basta guardarmi“

“Non lo dicevo per il fisico, quello non mi interessa. Se vuoi saperlo credo anzi che il corpo sia soltanto una gabbia fastidiosa del pensiero. Un’anomalia che ci inchioda alla terra e ci incatena alla quotidiana soddisfazione dei suoi sporchi appetiti. La zavorra che ci impedisce di volare, la carcassa di un aereo che in qualche epoca lontana ha solcato i cieli. E lo ha fatto sicuramente perché ce ne portiamo appresso il ricordo indelebile. Di tanto in tanto, rarissime volte purtroppo, ci guizza dentro il riverbero di una luce, il ricordo del sole che batte sui vetri della carlinga e sentiamo viva la sensazione che finalmente tutto l’orizzonte e le sue verità, si spalancheranno davanti ai nostri occhi. Ma è solo un attimo fugace, un barbaglio del cuore subito risucchiato dalla nostra carne”

Questa volta toccò a Silvia sorprendersi.

In una sola immagine quella ragazza aveva reso chiare le confuse sensazioni che si arruffavano sempre più spesso nella sua coscienza.

Il suo viso, la pienezza del seno che spingeva contro i bottoni della camicia, le avevano provocato una strana inquietudine; strana ma palpabile e concreta, non più vaga e confusa come le era capitato in altre occasioni.

Per la prima volta, distintamente, aveva sentito il desiderio che quelle mani si appoggiassero sul suo corpo; solo la freschezza di quella sfoglia di pasta avrebbe lenito il bruciore della sua carne.

“Sei di Alassio Silvia?”

“No, di Genova”

“Sei qui per le vacanze allora “

“No, sono qui per partecipare ad una gara di atletica. Dopodomani, nello stadio di Savona. Sono la lanciatrice del disco”

“Una disciplina non comune per una ragazza non comune, tutto torna. Ma perché proprio il disco? Voglio dire, una volta deciso che volevi essere una lanciatrice perché hai scelto il disco e non invece il peso, o magari il martello?”

“È un discorso lungo. Forse il ragionamento da fare è quello inverso; non sei tu che scegli lo sport ma è lo sport che sceglie te. I miei genitori avevano deciso quando ero poco più di una bambina, che l’atletica sarebbe stato l’ideale per correggere una malformazione congenita. Accompagnai allora al campo di allenamento una mia compagna di classe e mentre gironzolavo per la pista vidi un bagliore provenire dalla sabbia del salto in lungo. Mi avvicinai e vidi che era un disco dimenticato li e semisepolto. Rimasi incantata a guardarlo. Quell’oggetto metallico suscitava in me un fascino tutto speciale. Mi venne in mente, chissà perché, un meteorite caduto per incredibili combinazioni meccaniche proprio lì,su quel fazzoletto di sabbia, dopo aver attraversato infiniti spazi siderali e decine di costellazioni. Lo presi in mano delicatamente, lo ripulii dalla sabbia. Ero emozionata; mi sembrava di avere in mano un frammento di universo: un pezzo di stella che mi legava all’infinito.

Da quel giorno decisi che mi sarei impegnata a lanciare quel disco, sempre più in alto, sempre più lontano per ricollocarlo nel circuito dell’universo, per rimandarlo a casa. E quell’illusione di bambina non mi ha più abbandonato, e ogni volta che eseguo il lancio e vedo il mio disco prendere il volo, allontanarsi sempre più da me fino a diventare un puntino nero nell’azzurro, ho la sensazione che non toccherà più l’erba del campo ma continuerà la sua parabola fino a perdersi nel cielo”.

Miriam intanto aveva appoggiato i gomiti sul parapetto della terrazza seguendo con attenzione le sue parole.

Anche Silvia si piegò accanto a lei.

Non aveva più voglia di parlare, di confessare che comunque l’amore per il lancio conviveva dolorosamente con l’odio che nutriva per uno sport che aveva contribuito a rendere così goffo il suo corpo.

Raccontarle poi delle sue difficili relazioni con i ragazzi, rivelare il disgusto che loro le suscitavano, confidarle il suo bisogno di comprensione e di tenerezza?  No, questo era decisamente troppo, non poteva spingersi fin là.

Magari poteva mantenere la conversazione sui binari di un educato scambio di convenevoli, e tu cosa fai perché sei qui eccetera eccetera.

No, neanche questo, non aveva più voglia di finti galatei. Voleva finalmente essere se stessa.

Tra loro calò il silenzio. Furono attimi, minuti, ore? Il tempo aveva ingarbugliato i suoi fili. Forse quella era veramente una serata magica, nella quale erano state cancellate le leggi di questo mondo, comprese quelle dello spazio e del tempo.

Una luna piccola, ormai alta nel cielo, stranamente opaca per una notte così chiara le guardava.

“Guarda la luna Silvia. Non sembra uno dei dischi che lanci? Non ti piacerebbe lanciare lei invece dei tuoi meteoriti? Vedi Silvia, ho sempre pensato che la luna è come noi, la luna è donna. È bella, dolce, soffice come panna. Ti culla tra le sue braccia, ti accarezza, se vuoi, è delicata, ti rispetta.”

Poi, come se all’improvviso si fosse ricordata di qualcosa, Miriam sollevò il busto dal parapetto. “Adesso devo andare Silvia. Verrò alla tua gara.Farò il tifo per te” e le appoggiò teneramente la mano sulla guancia in una affettuosa carezza prima di volgerle le spalle ed essere inghiottita dalla gente.

Silvia la seguì con gli occhi fin dove poté e rimase per un pezzo attonita ad osservare l’ultimo punto dove Miriam le fu visibile; sentiva che lì era rimasta la sua presenza, invisibile a tutti ma non a lei.

Sentì bruciare la guancia come se le dita di Miriam le avessero impresso per sempre un marchio di fuoco.

L’indomani la pensò molto. Rifletté sulla singolare affinità che le aveva unite fin dal primo istante, su quella strana inquietudine carnale, ripensò alle sue parole, ripensò alla luna. Sentì nuovamente sulla guancia il tocco leggero delle sue dita e si accorse con spavento che cresceva dentro di sé il bisogno di rivederla.

Fu felice perciò quando arrivò il giorno della gara, perché l’avrebbe rivista.

Un sole rovente e tracotante lanciava quel pomeriggio i suoi strali impazziti su teste e schiene di spettatori e atleti.

Silvia con una canottiera che conteneva a stento il premere del suo corpo, in attesa del suo turno di lancio, eseguiva gli esercizi di riscaldamento ma gli occhi erano sempre rivolti alla tribuna.

Scorse Miriam proprio quando, affondate le mani nella polvere di magnesio, si stava avviando alla pedana accarezzando il suo disco.

Si accorse che lei aveva scelto il posto più vicino alla gabbia dei lanci, quello davanti al quale sarebbe dovuta necessariamente passare per raggiungere la pedana di gara. Ne fu lieta.

Quando furono a poca distanza l’una dall’altra i loro occhi si salutarono. Fu Miriam a parlare: “La luna Silvia, ricordalo. Stai per lanciare la luna.”

Silvia le sorrise, grata per quelle parole che interpretò solo come un partecipe incoraggiamento.

I suoi occhi ora, mentre raggiungeva la pedana, si posavano soltanto sul disco. Aveva bisogno di raccogliere dentro di sé, nel breve spazio di quei pochi metri, ogni stilla di energia, energia che si sarebbe liberata nell’aria in una deflagrazione di nervi e tendini.

Silvia sorrise per un attimo guardando il suo disco e pensando alla luna di Miriam. A furia di accarezzarlo, di passarselo da una mano all’altra era diventato completamente bianco. Proprio come la luna.

Improvvisamente, come una folgorazione, le furono chiare le ultime parole di Miriam quella sera in discoteca: le fece riemergere dalla sua memoria, riecheggiarono nella sua mente come un’eco lontana: “La luna è come noi, la luna è donna. È bella, è dolce, è soffice come panna. Ti culla tra le braccia, ti accarezza, se vuoi, ti tiene tra le braccia, è delicata, ti rispetta”

Ricordò la calda sfoglia di pasta chiusa nella sua mano e sentì più forte il desiderio di abbracciarla, di stringerla forte a sé, ripensò alle dita sulla sua guancia, il brivido di calore che aveva provato.

Poi gli occhi sorridenti le scesero un’ultima volta sul disco, lo sistemò nella sua mano con una delicata carezza, bilanciò le gambe, inarcò la schiena e lanciò: con un urlo di gioia, di liberazione.

Lanciò la luna verso il sole, lanciò la luna contro il sole.

Ciò che voleva veramente era colpirlo, ridurlo in schegge inoffensive. Così da cancellarlo finalmente dalla sua vita epoter dire basta, per sempre.

Silvia non riuscì a vedere il suo disco perché quei feroci raggi di luce entravano implacabilmente nei suoi occhi ma sapeva, sapeva con il cuore, che stava volando, volando alto.

Così alto che ad un certo punto, per un solo, meraviglioso, magico istante le sembrò di vederlo davanti al sole. In una eclissi finalmente sua.

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