Nato a Como, di origine salentina, Alessandro Vergari vive da diversi anni a Bari dopo essersi laureato in Filosofia all'Università Statale di Milano, con una tesi sul rapporto tra guerra e giustizia. Una geografia complicata? Forse. Alessandro scrive recensioni e articoli su diversi blog. Cinema, letteratura, musica e cucina (in qualità di consumatore finale) le sue principali passioni. Ama il sole e il mare. Sulla politica attualmente non si pronuncia. "Ho dato abbastanza", queste le sue dichiarazioni in materia.

Un uomo in una casa. La poesia assertiva di Ron Padgett

Di Alessandro Vergari

È il cinema a far conoscere Ron Padgett al pubblico italiano. Le sue poesie compaiono letteralmente sullo schermo in Paterson, film di Jim Jarmusch del 2016. Il protagonista, interpretato da Adam Driver, è un autista cui si adatta la definizione di sé data da Padgett in occasione del conferimento della prestigiosa Frost Medal, “una persona che scrive qualcosa che chiama poesia”. Paterson è anche, prima di tutto, il titolo di un poema in sette libri scritto da William Carlos Williams, un fondamentale tassello del Novecento poetico americano e non solo. Cento poesie di Padgett sono state ora raccolte da Del Vecchio Editore, dopo attenta e non facile selezione, in un volume che reca il curioso titolo Non praticare il cannibalismo. Se per Williams un uomo in sé è una città e il verso, oggetto verbale, traduce questa simbiosi, Ron Padgett, nato a Tulsa nel 1942, erede e prosecutore della cosiddetta prima generazione di New York (opportuno ricordare, in particolare, Kenneth Koch, uno dei principali punti di riferimento dell’autore), vede se stesso, per citare un’altra definizione offerta di sé, come “un uomo in una casa”. È da questa angolatura, situata nell’immediatezza del quotidiano, che Padgett dispiega il suo flusso di parole, o meglio si dispiega in esso. “Le persone mi dicono che sono un poeta e io continuo a credergli”. Per Padgett la poesia sconcerta, destabilizza e comporta riposizionamento, rinascita, trasgressione di regole, in nome di un rinnovamento continuo. “L’unico vero programma che abbia mai fatto è provare a rompere i miei schemi, le mie abitudini, i miei automatismi nella scrittura”.

Non praticare il cannibalismo è frutto di uno sforzo editoriale encomiabile, risultato di un lavoro corale, e affettuoso, attorno al poeta, attivamente coinvolto nel progetto. La casa editrice Del Vecchio presenta Ron Padgett al lettore italiano avvalendosi, in apertura di volume, in successione, di una sua testimonianza diretta sul Perché scrivere poesia, di un’intervista all’autore firmata da Eric Lorberer, direttore della rivista online Rain Taxi Review of Books edi un’introduzione della curatrice Paola Del Zoppo. Nei contributi a chiusura della raccolta, il traduttore Riccardo Frolloni esamina il taglio felicemente assertivo della poesia di Padgett e la co-curatrice, nonché traduttrice, Cristina Consiglio si sofferma sui principali aspetti biografico-esistenziali dell’autore. Alla base della ragionata scelta di testi, appartenenti a un arco temporale recente, dal 2001 a oggi, “è l’atto di scrittura”, che crea “il lettore e il poeta, al punto che nessuno dei due esiste prima di esso”, seguendo la preziosa puntualizzazione di Paola Del Zoppo nel suo testo introduttivo.

“Era come se / mentre stessi guidando giù per una strada bianca ad una corsia / con pini alti su entrambi i lati / e il paesaggio avesse una sintassi / simile a quella del nostro linguaggio / e mentre mi spostavo / una lunga frase venisse pronunciata / sulla destra ed un’altra sulla sinistra / e pensai / Forse il paesaggio / può capire anche quello che dico. / Di fronte c’era una fattoria / con bambini che giocavano vicino alla strada / così rallentai / e feci un cenno. / Erano giovani abbastanza / da sorridere e ricambiare il cenno” [Strutture sintattiche].

Il nucleo intimo della poesia di Padgett è l’ordinarietà della vita, poesia che pronuncia le cose e cose che si lasciano pronunciare dalla poesia o, meglio ancora, che nella poesia sola incontrano il proprio pronunciamento. Come sottolinea ancora Paola Del Zoppo, “i testi entrano nel mondo, il mondo si fonde con la testualità”. Poesia, quindi, che innalza la barriera nominalistica (e il nome può indicare e insieme essere tutto, albero, fiore, piatto, corpo, donna, ricordo, personaggio storico, genio della letteratura, eroe dei fumetti, videogioco) per superarla, abbatterla, parodiarla. A proposito di Apollinaire, autore da lui tradotto in inglese, Padgett rivela di aver pensato per molti anni che la sua poesia intitolata Il pleut fosse, in linea con la lettura più diffusa, una rappresentazione visiva della pioggia che cade, finché un commento di uno studioso non l’ha fatto ricredere: “pensava si trattasse davvero di pioggia che scendeva lungo il vetro di una finestra, e mi ha colpito, era assolutamente vero”. Poesia, quindi, che conosce i limiti, compresi i limiti umani, e vi si innesta. L’a-priori dell’opera di Padgett è la potenziale traducibilità in poesia, verso come versatilità, di tutto ciò che sta nei pressi, negli angoli, negli interstizi di tempo e di spazio, intorno, addosso e a tiro di scrittura di colui che scrive, incluso il prosaico, il triviale, il concreto, il denso, il banale, il kitsch, il volgare. Nel transito dalla realtà alla parola sta il tentativo di elevazione ideale di un mondo da accogliere e vedere (imparare a vedere è fondamentale per Padgett!) nella sua cosalità. La trasposizione poetica espone continuamente a questa tensione comunicativa, nonché morale, tra il sé e la realtà.

“Chi è qui con me? / Mia madre e un uomo indiano. / (Sto scrivendo questo nel passato.) / L’uomo indiano non è un uomo, / ma una statua di legno appena sul / limitare dei boschi. Mia madre / è fatta di madre. Tocca il legno / con i suoi occhi e gli occhi / della statua si rivolgono a lei, cioè, / diventano i suoi. (Non sto sognando. / Non sono nemmeno ancora nato.)” [da Mattina].

Presente, ed evidente, è il tema della mortalità, sperimentata dal poeta in molteplici modi, nel ricordo, nel pensiero (del morire, atto, azione, destinazione) che rende nervosi, come in Patto di morte, poesia in cui Padgett rivela di essersi prodigato, nel trentesimo anno di bachmanniana memoria, nel fare una lista di possibili cause,colpito da un’auto, sparato / in testa da un casuale rimbalzo, / schiacciato sotto un masso, / vittima di una fuga di gas” per concludere, nell’esito ironico che spesso lo contraddistingue, “now for lunch”, ora a pranzo, con il giorno che impone i suoi orari e fugge via con l’esistenza stessa. Altrove, il dolore per la perdita di un amico si contorce nelle forme di una domanda semplice, “Dunque che farai domani / ora che lui è morto oggi?”, un interrogativo fragile, cedevole al comando imperativo dei gesti abitudinari, “Perché, ti vestirai e preparerai / la colazione come sempre, / poi farai il caffè per tua moglie / e glielo porterai a letto, e dirà / Grazie – il momento più dolce della giornata, / per me, ad ogni modo” [da In Memoriam K.]. O ancora, la morte spinge al giudizio paradossale sulla propria persona: “La cosa migliore che ho fatto / per mia madre / è stato sopravviverle / cosa per cui non ho meriti” [da La cosa migliore].

“Oggi sono il boia di me stesso”, scrive il poeta, ghigliottinando un componimento [Dove ho la testa?]. Ron Padgett ama le contraddizioni. Ron Padgett è contraddizione. Contraddirsi equivale a: negarsi, giocare con il proprio ego, smontare ogni minima presunzione, non prendersi sul serio, accettare l’umana finitudine, sottomettersi alla regola dell’eccezione, in un balletto di sguardi cadenzato da un principio di indeterminazione, laddove “pentola guardata non bolle mai / a meno che non la guardi quando già bolle, / e allora tutta l’acqua è scomparsa, / in fumo, come uno spirito” [da Eccezioni alla regola]. E allora Padgett, al margine di una dissoluzione che è presa di sé, promette al mistico del Trecento Meister Eckart di esplorare il vuoto, un omaggio che contiene alcuni tra i versi più profondi dell’intera raccolta: “aspetto in una stanza / che la stanza si trasformi in un’idea che un fiore potrebbe avere”. Riccardo Frolloni, nella sua postfazione, segnala l’emersione nella poesia di Padgett di “un nuovo senso lirico, dove l’io non è affatto rinnegato, anzi, si moltiplica in più dimensioni, ritrova una sua naturalezza” e, al contempo, evidenzia il ruolo “liminale” di Dio nella vita umana. Dio, se c’è, ha concesso all’uomo, amarissimo dono, la possibilità di giungere alla consapevolezza del proprio essere-sul-punto-di-svanire in qualunque momento. Se Dio c’è. Nella celeberrima invocazione di Cristo sulla croce al Padre inerte, Padgett legge il dolore atroce provocato dall’assenza: “rappresentò la storia / di chiunque improvvisamente realizzi / che non lui o lei è stato abbandonato / ma che non è mai esistito / un abbandonatore” [da Lo scherzo].

Poesia di un poeta colto, che fa i conti con l’intera tradizione lirica americana (a partire da Whitman), con la filosofia dell’epoca moderna (Cartesio, Spinoza), con gli avvenimenti epocali e le voci del calendario (la presa della Bastiglia, gli anni Settanta dell’Ottocento), con la poesia e  la letteratura francese (Apollinaire, Cendrars), con l’arte contemporanea (Willem De Kooning), con il genio in musica (Glenn Gould), con l’Italia (Dante, il ponte di Rialto, una tomba in Toscana), con gli spettri del materialismo e dell’evoluzionismo (Marx, Darwin), con la rivoluzione e la rottura formale (Majakovskij, Blok)… In alcuni casi, Padgett, poeta delle infinite situazioni, rende esplicito questo situarsi e si immagina: vergine austriaca dell’Ottocento persa nelle malinconiche note di Schubert, ospite invisibile nel contesto mattutino di una dinamica familiare di Pechino, ritaglio ininfluente nel vasto fluire storico, “facciamo cloppiti-clop / perché siamo ferri di cavallo / sul selciato” [da Londra, 1815]. L’anti-accademico Padgett, figlio di due contrabbandieri di whisky, approdato alla scrittura grazie all’interessamento di buoni e generosi insegnanti, è poeta devoto alla memoria, allo spirituale che soffia sui davanzali. “Sono venuto a trovarti, vecchio. / Ma ora solleverò le ali e loro batteranno, / perché volare è il mio grande trillo, / e dove si spalancano le ali / mi chiama a saltare e volare. / Addio” [da Piccola elegia].

Padgett poeta politico? Influenzato dalla controcultura beat, Padgett è di certo poeta ostile agli autoritarismi, alle gerarchie, al paternalismo, alle convenzioni sociali, al culto contemporaneo dell’immagine. “E allora / a che serve / generalizzare? / Ah, ti fa sentire / bene dire cose / del genere di / tanto in tanto, / come se in effetti / e davvero e sinceramente / sapessi qualcosa!” [da Per un momento]. Tuttavia, la dimensione politica di Padgett, per sua stessa ammissione autore di brutte poesie antimilitariste negli anni della guerra del Vietnam, si palesa soprattutto nell’arte di dissentire da se stesso. “Cosa fa uno scrittore? Uno scrittore si siede e attraversa l’inferno. Non sto propriamente attraversando l’inferno, e poi, non sono guidato dalla convinzione che il mondo stia aspettando la prossima briciola di genio faticosamente guadagnata” (da La colazione del poeta). Padgett poeta d’amore? “Sono un tipo piuttosto sentimentale”, dice di sé nell’intervista a Eric Lorberer. Padgett è un lucido demistificatore che lubrifica le valvole del sentimento, incrostate da troppa retorica, per arrivare così all’ironico e scanzonato fondo di verità che riposa intangibile, impalpabile, dietro la cortina di fumo del tempo. “La amo. Ma cosa significa? / Significa qualcosa che tu, se sei giovane, / potrai essere abbastanza fortunato da sentire un giorno / sebbene tu, come mai, non lo saprai mai / cos’è. Ti sveglierai e penserai / Ora so cosa intendeva dire / non sapendolo affatto, e ti sentirai bene” [da Valzer d’anniversario]. Disponiamoci all’ascolto dell’altro, ci dice Padgett. È sempre possibile trovare qualcosa d’inaspettato, anche se non arriva.

La sedia pieghevole di legno “con le sue larghe strisce di tessuto a formare una gentile imbracatura dall’alto in basso, resta immobile”, a sfidare, con il suo dissolversi nell’eternità, il comportamento incoerente di molti mobili da giardino. Ma gli uomini in che modo possono sconfiggere l’incoerenza ed essere perfetti? Padgett propone una precettistica laica, distaccata, saggia, semplice, non cinica. “Canta, ogni tanto. / Sii puntuale, ma se sei in ritardo non dare giustificazioni lunghe e dettagliate. / Non essere troppo critico o troppo autocelebrativo. / Non pensare che il progresso esista. Non è così. / Fai le scale a piedi.” Il precetto superiore è il rispetto della specie… appunto, metaforicamente, ma non troppo: “non praticare il cannibalismo”.

Non praticare il cannibalismo. 100 poesie Book Cover Non praticare il cannibalismo. 100 poesie
Ron Padgett. A cura di Paola Del Zoppo e Cristina Consiglio. Trad. di Riccardo Frolloni
Poesia
Del Vecchio
2021
368 p.,