Vivo in Calabria, ho appena varcato la soglia dei 50 anni e lavoro come copywriter e creativo pubblicitario. Narrano le cronache che all'esame di quinta elementare mi presentai al tavolo degli insegnanti con una striscia di fumetti da me disegnata e sceneggiata come "tesina" di introduzione, provocando nel corpo docente sentimenti tra il visibilio e il disprezzo più profondo. Da allora non ho mai smesso di scrivere, alternandomi tra sceneggiature pubblicitarie e racconti di vario genere. Alcuni di questi ultimi hanno partecipato a vari concorsi letterari in giro per l'Italia, venendo in seguito pubblicati su collane online e addirittura su raccolte di libri di vera carta, dissipando i miei dubbi sulla loro reale esistenza. Da qualche anno raccolgo i miei racconti in un blog nel quale compaio come autore sotto pseudonimo. Molti dei miei racconti sono ispirati a storie vere, dalle quali scortico via il superfluo per fare venire alla luce lo scorrere della vita. O almeno ci provo.

Fiaba di capodanno

Di Gennaro Lento

La strada è una lingua nera e compatta che scivola rapida sotto le ruote dell’automobile in mezzo al panorama indistinto delle tre e venticinque del mattino. Fuori l’oscurità ha inghiottito il resto del mondo in una melassa scura e impenetrabile, ferita temporaneamente dal fascio di luce dei fari. Buio, fari, buio. Da una striscia di finestrino aperto penetra l’aria gelida della notte e in cambio ne esce il fumo di una sigaretta appena accesa. La radio trasmette Watching me fall dei Cure, ad un volume così basso da fondersi con il rumore del motore. Cazzo, che tempismo, penso. In questo momento non saprei dire se è l’auto a muoversi oppure tutto il resto del paesaggio a scappare di sotto. Con la sigaretta ancora accesa volto lo sguardo di lato, da dove proviene un gorgoglio simile al rumore di un sifone. Cappio giace immobile come prima, piegato su un fianco con la faccia rivolta al finestrino. Ogni tanto lancia un rantolo ma senza convinzione, più per inerzia che altro.
Notte di merda. Cominciata male, non volevo neanche uscire, avevo promesso a me stesso di cambiare vita. Come un borghesuccio qualsiasi avevo fatto i miei buoni proponimenti per l’anno nuovo e deciso di dare un taglio a quella vita inutile, fatta di vicoli ciechi e muri contro i quali andare a consumare la testa. Basta, l’anno prossimo sarò più buono, basta violenza, basta droga, basta con l’autodistruzione. Per qualche istante ci avevo anche creduto. Coglione. Era bastata una telefonata, steso sul divano di casa mia, solo e al buio e Cappio a urlarmi nell’orecchio, mentre fuori la gente festeggiava l’ennesimo capodanno.

Cazzo stai a casa la notte di capodanno? Tirati giù da quel divano e scendi che sono qua sotto.

Dove andiamo?

Cazzo ne so, andiamo a far casino, c’è tutto il mondo fuori stanotte.

Si vabbé però senza cercare guai che non ho voglia, per una cazzo di volta vorrei starmene tranquillo a godermi la serata.

In un attimo eravamo sullo stradone, insieme ad altre anime sperdute in cerca della notte giusta per ritrovarsi. O perdersi definitivamente.

Veloce come un derviscio Cappio arrotolò due kebab farciti alle erbe medicinali porgendomene uno già acceso. Fanculo ai buoni propositi.

Passiamo dal Cesso a prendere Memi, disse soffiando fuori fumo e parole, ci sta già aspettando.

Il Cesso era un orribile edificio in stile impressionista, nel senso che dopo averlo visto la prima volta ti si imprimeva nella testa e diventava parte integrante dei tuoi incubi peggiori. Concepito da un architetto probabilmente malato di mente, consisteva in un cubo di cemento e acciaio completamente ricoperto da piccole mattonelle smaltate bianche. Il tutto dava l’impressione di un enorme cesso, appunto. Dentro uno dei cubicoli del Cesso abitava Memi, amica di Cappio, sempre sballata e sbilenca a parte di giorno, quando aveva un rispettabile lavoro presso uno studio associato di avvocati. Un amabile club di pezzi di merda. E lei ci lavorava come apprendista pezzo di merda. Cappio s’incazzava sempre quando glielo dicevo, per lui Memi era una giusta. Per Cappio tutti erano giusti, bastava che fumassero come ciminiere e non rompessero i coglioni. E che fossero bianchi, naturalmente. Cappio ci teneva alla salvaguardia della razza, si era perfino fatto tatuare la scritta DVX sul collo. Un vero patriota d’altri tempi. Io invece avevo idee più sfumate. Si, i negri e gli zingari mi stavano sul cazzo ma non ci pensavo continuamente come faceva lui, se non davano fastidio potevano restare tranquillamente nelle loro fogne. Ma niente tatuaggi, per me erano come il marchio che stampano sul bestiame per riconoscerlo. E non ero tipo da mandria.

Memi era in strada, già fatta di suo. Aveva deciso di portarsi avanti con il lavoro. Fermai la macchina per farla montare dietro. Prima ancora di salire già straparlava.

Ragazzi, non avete idea che palle il capodanno con la famiglia, la tivù fissa su canale cinque a sentire quei rincoglioniti che fanno il conto alla rovescia, stavo soffocando, disse veloce.

Fidati, tra un paio d’anni ti piacerà, risposi con un ghigno.

Sei il solito stronzo, replicò acida.

Se avete finito con i convenevoli potremmo cominciare a darci una mossa che qui si crepa, intervenne ecumenico Cappio.

Andiamo dalle parti della città vecchia, conosco un locale nuovissimo, il Cruelty, a quest’ora sarà pieno di gente, garantì Memi.

Già, me l’immagino, roba da leccarsi i baffi.

E dai Moro dacci un taglio e parti.

Va bene. Subito Cappio alzò la radio a manetta, dopo aver messo un cd di un gruppo di svitati amici suoi che pensavano di suonare e invece picchiavano senza pietà gli strumenti come se questi gli avessero fatto qualche torto. Roba inascoltabile per me.

Togli sta merda, dissi spegnendo la radio.

Cazzo vuoi capire tu di musica, saranno belli i tuoi cd fighetti.

Saranno fighetti ma nella mia macchina si ascolta solo la mia musica.

Ma dai Moro, quella roba è fortissima, in giro non c’è niente di simile.

Dici? Al mattatoio ho sentito di meglio.

Lascialo perdere Memi, quando gli attacca così è capace di menarla fino all’alba.

Stronzo.

Continuammo a discutere in maniera così amabile per almeno mezzora, fino a che arrivammo in vista del centro storico. M’inerpicai per una stradina stretta lastricata di pietroni degna di una Parigi-Roubaix e ingombra di automobili da entrambi i lati.

Ripensandoci adesso mi pento di aver lasciato scorrere gli eventi senza fare nulla. Già in quel momento avrei dovuto fermare l’auto e tornare indietro, dando ascolto alla nausea che sentivo salirmi dentro al solo pensiero di andare a ficcarmi in quel formicaio di anime belle. Lo sapevo che mi stavo mettendo in qualche guaio ma non ebbi la forza di evitarlo. Mi sono guardato cadere per così tanto che devono essere anni, sussurra Robert Smith dalla radio. Stavo precipitando, al rallentatore. E non riuscivo a fare niente altro che guardarmi mentre cadevo. Preferivo guardarmi cadere, piuttosto che fare qualcosa per fermare il volo. Non riesco neanche a ricordare bene com’è cominciato tutto. Da un certo punto in poi c’è solo nebbia.

Dopo aver percorso quel pezzo di pavé arrivammo in cima alla salita dove c’era uno slargo abbastanza ampio e in piano. All’altezza del locale Memi aveva urlato, Ferma! Ferma! C’è un buco! e subito mi fiondai verso il posto libero, proprio nel momento in cui dal lato opposto arrivava sparata un’altra auto ingolosita dallo stesso bottino. Non ero riuscito a frenare. Forse non avevo voluto frenare. Le auto si urtarono, mandando in frantumi i rispettivi fanali in un tripudio di cristalleria. Una cascata di swaroski. Da quel momento tutto divenne sfocato. Scesi dall’auto e feci appena in tempo a vedere Cappio fiondarsi verso l’altra macchina con un martello in mano (dove cazzo l’aveva preso?), provai a raggiungerlo ma già sapevo di non potercela fare. Cappio tirò una martellata sul cofano dell’altra macchina dalla quale, come un meccanismo a molla, ne vennero fuori due pupazzetti mansueti come tori. Il primo prese Cappio per il collo e lo sollevò in aria come fosse un fuscello, mentre con l’altra mano cominciò a colpirlo sull’addome con un piccolo coltellino svizzero di quelli multiuso che subito si ricoprì di sangue macchiandogli la mano e la manica del bomber. Ad ogni botta Cappio sembrava sgonfiarsi come un copertone bucato. L’altro pupazzetto si precipitò verso di me per impedirmi di intervenire e con uno spintone mi fece ruzzolare dietro l’auto. Memi intanto gridava come impazzita, sembrava la stessero sgozzando, anche se nessuno gli si era avvicinato. Intorno già si era formato il consueto capannello di spettatori non paganti. Bastardi. Mi diressi verso il cofano, già sapevo esattamente cosa avrei fatto, in un attimo ritornai davanti imbracciando il cric come una mazza da baseball e quando l’altro se ne accorse era ormai troppo tardi. Non riuscì nemmeno a mettere le mani avanti per parare il colpo, istintivamente cercò la fuga voltando la testa verso la sua sinistra e fu proprio quel movimento ad ammazzarlo perché il cric impattò violentemente contro la sua tempia destra e il rumore che fece era come quello di un melone marcio quando si spacca, un rumore che ti fa gelare il sangue a sentirlo se non è tuo il cranio, quando invece è proprio il tuo senti poco, solo un dolore fortissimo, un grande flash e poi più nulla. E infatti crollò al suolo inanimato e subito una pozza di sangue si allargò sotto la testa, sembrava un santo con la sua bella aureola, chissà se si sarebbe presentato così all’inferno, avrebbe fatto ridere Satana in persona. Quello che teneva Cappio lo mollò di colpo, lasciandolo andare come uno straccio vecchio, incrociò per un attimo il mio sguardo e ci dovette leggere qualcosa di spaventoso perché ruotò su se stesso e cominciò a correre via come se avesse un branco di lupi alle calcagna. Mi girai dalla parte di Cappio e lo vidi contorcersi in terra come un serpente, aveva la camicia bianca sporca di sangue. Senza esitazioni lo presi da sotto le braccia e lo caricai in auto dallo sportello lasciato aperto, con molta calma lo sistemai in modo da poter chiudere la portiera e tornai dall’altro lato, mentre la testa mi ronzava come un reostato e non riuscivo a distinguere i rumori. Vedevo Memi aprire e chiudere la bocca ma non capivo quello che diceva. Misi in moto e mi dileguai con un gran stridore di gomme.

  
Lo sapevo, dico piano tra me, lo sapevo, ma calmo, senza agitazione. Come se la cosa non mi riguardasse. Guido attraverso la città vecchia fino alla rotonda della circonvallazione e senza pensarci due volte imbocco la provinciale che porta al litorale.

Mi vedo scomparire ed un giorno, lo so, non tornerò indietro del tutto.

Voglio andare al mare, voglio andare al mare.

Voglio andare al mare, penso.