Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

Ragione, libero arbitrio e amore “nel mezzo del cammin” del Purgatorio

Di Graziella Enna

“…Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto, sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno

per ch’io te sovra te corono e mitrio”

 Con queste parole che concludono il XXVII canto del Purgatorio, Virgilio suggella con tono solenne la nuova condizione di Dante alla ricerca della libertà spirituale al lume della ragione. Il compito dell’antico poeta è terminato, ha mostrato a Dante tutto quello che era in suo potere, da quel momento in poi non avrà più né cenni né ordini da lui perché la sua volontà è libera, giusta e incorrotta. Dante finalmente è padrone di se stesso e potrà completare il suo cammino di purificazione nel Paradiso Terrestre. Egli ha percorso le cornici del monte ed espiato con le anime purganti le tendenze peccaminose simboleggiate dalle sette P incise sulla sua fronte dall’angelo portiere al suo ingresso nel secondo regno. Ora ha raggiunto l’agognata libertà dal peccato (come Virgilio aveva detto esplicitamente a Catone nel primo canto), acquistando la completa padronanza di sé. Per conseguire questo traguardo è stato indispensabile l’ausilio della ragione, alias Virgilio, e si sono rivelate di estremo valore le spiegazioni e i chiarimenti che Dante ha ricevuto nella sua ascesa al monte. Determinanti, a tal proposito, i canti XVI-XVIII non a caso posti proprio al centro della cantica. Nel XVI canto Dante si inoltra in un’atmosfera quasi infernale caratterizzata dal buio d’inferno e quello di una notte senza luna. Qui espiano la loro pena gli iracondi, che procedono avvolti da un fumo denso e acre che impedisce loro la vista. E’ evidente il significato allegorico, tipicamente medievale, che supera il livello letterale: il fumo non è solo il simbolo e la materializzazione dell’ira ma l’elemento che priva l’uomo dalla luce della ragione e se la trascina dietro incapace di contenere i moti violenti dello spirito. Questo concetto sembra ribadire l’affermazione di Seneca nel trattato in cui descrive l’ira come un funesto impulso che oltrepassa il raziocinio. Solo la ragione dunque può soccorrere  l’uomo per fargli recuperare la sua lucidità e infatti Virgilio offre il suo braccio a Dante per guidarlo e lo ammonisce a non separarsi mai da lui. Dante incontra il personaggio chiave del canto, Marco Lombardo. Sollecitato dal poeta a presentarsi, egli si descrive in maniera sintetica definendosi di origine lombarda, ricco di esperienza del mondo e amante della virtù che ormai non interessa a nessuno. A questo punto Dante è invischiato in un duplice dubbio e prega l’anima di aiutarlo: dal momento che il mondo è spoglio di ogni valore e pieno di malvagità, (Dante vuole conoscerne le cause per poterle poi rivelare agli altri), tale condizione si può attribuire agli influssi astrali o è ascrivibile alla volontà umana?

(vv.58-63)

Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;

ma priego che m’addite la cagione,
sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone”.

L’anima emette un gran sospiro in segno di pietà per la cecità umana e spiega a Dante che il mondo terreno è cieco, ossia vi regna l’ignoranza del bene. Lui stesso rivolgendogli una simile domanda si dimostra suo degno abitante. Gli esseri umani attribuiscono agli influssi del cielo tutto ciò che accade, ma se così fosse non esisterebbe il libero arbitrio e non sarebbe giusto essere premiati per il bene compiuto o puniti per il male commesso. (vv.64-72)

Alto sospir, che duolo strinse in “uhi!”,
mise fuor prima; e poi cominciò: “Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.

Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.

Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.

L’influsso degli astri determina le prime azioni degli uomini, a loro tuttavia è concessa la ragione per discernere il bene dal male e in seguito anche il libero arbitrio che incontra delle difficoltà in opposizione al suddetto influsso, ma se si alimenta con la virtù vince completamente. (73-78)


Lo cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,
lume v’è dato a bene e a malizia,

e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica.

Gli uomini pur essendo liberi sono soggetti a una forza più grande e a una natura migliore di quella degli astri, cioè Dio. Quella forza e natura creano negli uomini l’anima razionale che non è influenzata dal cielo. Se però gli uomini si allontanano dalla retta via e originano i mali della società, la causa è in loro e in loro si deve ricercare. Ora Marco Lombardo fornirà una spiegazione.

 (vv.79-84)


A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria

la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura.

Però, se ’l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia.

L’anima esce dalle mani di Dio che la ama già prima di averla creata come una fanciulletta che ride, piange e si comporta in modo puerile, è semplice e ingenua, ma essendo creata da Dio è inclinata per natura verso il bene. Inizialmente prova gusto per i beni di scarsa importanza, ma poi, ingannata, corre dietro a essi, a meno che una guida o un freno non raddrizzino verso il bene la sua naturale propensione ad amare.

(vv.85-93)


Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,


l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.


Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.

La risposta di Marco Lombardo assume dei connotati filosofici tipici del metodo scolastico perché prende spunto dalla questione posta da Dante, passa attraverso una discussione, per arrivare a una soluzione. La mancanza delle antiche virtù, punto di partenza del discorso, si arricchisce anche di risvolti politici nel resto del canto. La prima accusa che Marco Lombardo muove è l’abitudine degli uomini di attribuire la responsabilità degli eventi umani alle stelle e ciò annulla il libero arbitrio che toglie valore ai premi e alle punizioni ricevuti per la loro condotta. Seppur esista qualche lieve influsso astrale, deve comunque subentrare negli esseri umani l’uso della ragione per discernere il bene dal male. La logica conclusione è che se gli uomini agiscono in modo scorretto la colpa è solo loro. A questo punto subentra la questione politica che riguarda la presenza di una guida terrena, cioè l’imperatore, e un freno, cioè la legge, dalla cui sinergia l’animo umano è riportato sulla retta via. Il discorso si incentra via via su temi politici per giungere all’enunciazione della teoria dantesca “dei due soli”, (presente nel “De monarchia”), le due guide, l’imperatore e il papa che devono garantire all’uomo la realizzazione della vita attiva e contemplativa, ossia la felicità terrena e spirituale.

Ne due canti successivi, il XVII e il XVIII è completata la teoria dell’amore e del libero arbitrio che riguarda in primis il modo in cui l’uomo si serve della sua libertà nei confronti del male. Occorre porre un discrimine tra la ripartizione dei peccati presente nell’Inferno che è basata sulla tripartizione aristotelica in incontinenza, violenza e frode che determinano i peccati, mentre nel Purgatorio si espiano tendenze peccaminose che sono fondate sulla devianza dall’amore frutto di una libera scelta dell’uomo secondo le teorie dei padri della Chiesa.

I due poeti salgono nella quinta cornice dove si espia il peccato di accidia. Virgilio su richiesta di Dante che vuole spiegazioni sul luogo dove si trovano, inizia ad esporre la dottrina dell’amore che sta alla base dell’ordinamento morale del Purgatorio.

Né il creatore né alcuna creatura, dice Virgilio, furono mai privi d’amore, o istintivo e naturale, oppure originato da una libera scelta. L’amore naturale non può mai sbagliare, invece l’altro può sbagliare in tre modi: o perché è rivolto al male, o per eccessivo attaccamento verso i beni terreni, o per la poca energia verso il bene. Mentre l’amore naturale o d’animo è rivolto a Dio, primo bene, e moderato verso i beni del mondo, non può causare un piacere peccaminoso, ma quando si rivolge al male cioè aspira ai beni terreni con più premura del dovuto, la creatura opera contro il suo creatore.

(vv 91-102)

“Né creator né creatura mai”,
cominciò el, “figliuol, fu sanza amore,
o naturale o d’animo; e tu ’l sai.


Lo naturale è sempre sanza errore,
ma l’altro puote errar per malo obietto
o per troppo o per poco di vigore.


Mentre ch’elli è nel primo ben diretto,
e ne’ secondi sé stesso misura,
esser non può cagion di mal diletto;


ma quando al mal si torce, o con più cura
o con men che non dee corre nel bene,
contra ’l fattore adovra sua fattura.

Perciò si può capire che negli uomini l’amore è origine di ogni virtù ma anche di ogni male. Ogni essere, che non è separato rispetto a Dio, amando se stesso non può odiare Dio che l’ha creato perché sarebbe come odiare se stesso. Questo tipo di amore, nasce in tre modi diversi nella natura umana.

(vv.103-114)

Quinci comprender puoi ch’esser convene
amor sementa in voi d’ogne virtute
e d’ogne operazion che merta pene.


Or, perché mai non può da la salute
amor del suo subietto volger viso,
da l’odio proprio son le cose tute;


e perché intender non si può diviso,
e per sé stante, alcuno esser dal primo,
da quello odiare ogne effetto è deciso.


Resta, se dividendo bene stimo,
che ’l mal che s’ama è del prossimo; ed esso
amor nasce in tre modi in vostro limo.

A questi versi segue l’enunciazione  e la spiegazione delle tendenze peccaminose conseguenti all’errare per “malo obietto”, quando si desiderail male del prossimo che si traduce in superbia, invidia e ira, per “poco di vigore” che  corrisponde all’accidia, cioè  negligenza dell’amore per Dio, per “troppo di vigore” che indica l’eccessivo attaccamento verso i beni terreni e genera avarizia, gola e lussuria, (che Dante dovrà capire da solo percorrendo le cornici superiori).

Il discorso sull’amore non si esaurisce in questo canto ma prosegue in quello successivo, quando Virgilio guarda Dante per capire se è soddisfatto e si accorge che ha ancora un dubbio: quale sia la natura dell’amore e come si possa conciliare con il libero arbitrio. Virgilio spiega così il processo che porta l’uomo ad amare. L’animo per sua natura è creato incline ad amare e si dirige verso qualsiasi piacere che gli consente di mettere in atto le sue potenzialità. La facoltà conoscitiva umana trae dalle cose reali un’immagine e fa sì che l’animo le si rivolga: se l’animo si protende interamente a questa immagine, quello è amore, fatto naturale e istintivo che si annida nell’animo per la prima volta. Come il fuoco che tende naturalmente verso l’alto, l’animo, preso dall’amore, comincia a desiderare ciò che ama e non se ne allontana mai finché prova felicità dall’oggetto del suo amore. Sono lontani dalla verità coloro che affermano che ogni amore è una cosa buona, se è vero che la sua essenza è buona, non tutte le forme che assume lo sono, sebbene la cera su cui sono impressi sia nobile.

(vv. 19-33)


L’animo, ch’è creato ad amar presto,
ad ogne cosa è mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto.


Vostra apprensiva da esser verace
tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
sì che l’animo ad essa volger face;


e se, rivolto, inver’ di lei si piega,
quel piegare è amor, quell’è natura
che per piacer di novo in voi si lega.


Poi, come ’l foco movesi in altura
per la sua forma ch’è nata a salire
là dove più in sua matera dura,
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così l’animo preso entra in disire,
ch’è moto spiritale, e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire.

Or ti puote apparer quant’è nascosa
la veritate a la gente ch’avvera
ciascun amore in sé laudabil cosa;36


però che forse appar la sua matera
sempre esser buona, ma non ciascun segno
è buono, ancor che buona sia la cera”.

Nei versi  40-69, dopo la suddetta spiegazione, Dante si mostra ancora molto dubbioso perché se l’amore è offerto dalla realtà esterna e l’anima per natura vi si indirizza, l’uomo non ha responsabilità Virgilio afferma che può dare una spiegazione solo per quanto è consentito alla ragione e alla filosofia, mentre per una conoscenza completa si dovrà affidare a Beatrice cioè alla teologia. L’uomo non sa da dove provenga la sua disposizione a conoscere e ad amare, perché sono sue caratteristiche innate, come è innato nelle api l’istinto di fare il miele. Perché i desideri si accordino all’istinto naturale l’uomo è dotato di ragione che consiglia la volontà e deve fare da guardiana per assecondare solo i desideri buoni. Pertanto la ragione è il principio da cui derivano i meriti dell’uomo a seconda che accolga amori buoni o rifiuti quelli cattivi. I filosofi e gli antichi sapienti  che indagarono su questi argomenti, si resero conto della libertà intrinseca all’uomo e gli lasciarono in eredità le dottrine morali. La disquisizione termina con i versi 70-75 in cui  Virgilio afferma che, se si ammette che ogni amore nasca per necessità dalla natura umana, ognuno ha il potere di trattenerlo o di respingerlo. Beatrice, cioè la teologia, chiama questa nobile virtù libero arbitrio e Dante dovrà tenerlo bene a mente se lei gliene parlerà. Risulta evidente da questa lunga dissertazione che senza il libero arbitrio la morale dei filosofi sarebbe impossibile perché la giustizia divina non potrebbe ricompensare o punire le azioni umane, come aveva si era detto anche nel canto precedente.

Onde, poniam che di necessitate
surga ogne amor che dentro a voi s’accende,
di ritenerlo è in voi la podestate.


La nobile virtù Beatrice intende
per lo libero arbitrio, e però guarda
che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende”.

 In questo canto dunque ci viene presentata una visione dell’amore come potenza innata nell’animo, ma altrettanto innata è anche la ragione che deve distinguere il bene dal male. In potenza, l’amore è “laudabil cosa” ma attuandosi può indirizzarsi verso beni fallaci ed essere quindi riprovevole. Sono negati pertanto i principi cardine dello Stilnovo, l’amore visto come forza a cui è impossibile resistere, come oscuramento della ragione. Insomma non è possibile, alla luce delle affermazioni di questo canto, concepire l’amore che “al cor gentil ratto s’apprende”, tantomeno “ch’a nullo amato amar perdona”: il cuore deve obbedire alla ragione e basta. Dante riesce a superare e sconfessare gli elementi costitutivi dello Stilnovo sublimando e staccando l’amore da ogni vicenda passionale e terrena e lasciandogli solo la prerogativa di una forza capace di elevarlo spiritualmente. Pertanto Dante, dopo aver portato a termine l’ascesa del monte purgatoriale, quando giunge nel Paradiso terrestre viene reputato da Virgilio finalmente pronto per un’ultima salita ben più ardita. Dopo gli ultimi riti di purificazione e l’incontro con Beatrice la sua anima è libera da ogni impedimento, ha superato ogni soglia umana e può finalmente “trasumanar”. La sua ascesa non sarà un miracolo come gli spiegherà Beatrice perché egli, avvalendosi come tutte le creature del libero arbitrio, ha conseguito la libertà dal peccato e dalle passioni terrene per scegliere la via del bene.