Arianna Pau, nata a Oristano nel 1987, laureata in Lettere moderne all’Università degli studi di Cagliari, laureanda in Filologia Moderna.

Di Arianna Pau

Il viaggio compiuto da Dedalo e Leccafondi nel VII Canto dei Paralipomeni
della Batracomiomachia di Giacomo Leopardi coincide con il volo, lo spostamento aereo dei corpi di due esseri viventi appartenenti a due nature differenti, quella animale e quella umana, che, attraverso l’utilizzo di ali costruite e adattate alle dimensioni delle loro corporature, sono trasformati in «due volanti peregrini» e hanno modo di sorvolare gli spazi e le epoche del mondo naturale, con il fine ultimo di raggiungere le porte dell’isola infernale.

Il topos del volo, in letteratura, è stato trattato in termini diversi e disparati ma, in questo caso specifico, nel particolare, il tema deve essere considerato ed essere messo in relazione con elementi che, attraverso il gioco ironico leopardiano, elevano e allo stesso tempo degradano alcuni fondamenti letterari e filosofici propri di una lunga tradizione. Nei Paralipomeni il motivo del volo può essere letto in termini di viaggio, come spostamento da un luogo all’altro il quale, già anticamente, come ricorda Segre, nella letteratura occidentale, assolveva molto spesso alla funzione archetipica di
significare uno stacco deciso tra la vita e la morte1; e, infatti, anche nei Paralipomeni il termine del volo coincide con il confine tra la vita e la morte. Inoltre, il volo di Dedalo e Leccafondi apre un filone di riflessione verso il concetto di elevarsi “al di sopra” del mondo sensibile, in funzione del desiderio umano di avvicinarsi alla condizione degli animali già naturalmente dotati degli strumenti adatti a volare, gli uccelli, che garantisce loro uno stacco deciso dalle preoccupazioni e limitazioni terrene; il volo, peraltro, coincide con la conformazione caratteristica assunta convenzionalmente dalle anime che si sollevano in aria e tentano di giungere all’aldilà, alla felicità ultraterrena, sempre per mezzo delle ali; altrettanto importante e centrale risulta essere la meta che i due personaggi intendono raggiungere attraverso il viaggio aereo, soprattutto in relazione al fatto che l’unico modo per accedere all’isola infernale, che nell’immaginario collettivo è comunemente collocata nelle viscere della terra, e dunque nel posto più in basso possibile, è quella di giungervi attraverso il volo, poiché l’accesso alla feral montagna è possibile solamente dal cielo che, fisicamente, si trova nella posizione diametralmente
opposta; il viaggio in sé, inoltre, conduce a una riflessione sugli oggetti, gli spazi e i tempi che i protagonisti, trasformati in esseri alati simili ad anime o uccelli, e quindi superiori secondo l’impostazione leopardiana, hanno modo di sorvolare dando forma alla loro illusione di dominio sull’intera Natura; e si parla giustamente di illusione poiché in realtà il viaggio in volo dei protagonisti mostrerà loro la caducità della loro esistenza di fronte alla forza perenne della Natura. Ultimo, ma non meno influente, risulta essere, inoltre, il fatto della riproposizione del tema del volo e della condizione
umana che, per diventare migliore o almeno sopportabile, deve avvicinarsi al modo di vivere degli uccelli, in diverse opere dell’autore recanatese: dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, all’Elogio degli uccelli, fino ai ben noti cenni nelle varie produzioni liriche, supportate dalle argomentazioni prosastiche, solo per fare degli esempi, sono dei casi in cui padroneggia il tema della grande invidiabilità umana per la condizione di esistenza propria degli esseri alati.

Nei Paralipomeni della Batracomiomachia, il conte Leccafondi incontra Dedalo nel corso del VI Canto del poema; l’autore tiene a delineare, fin da subito, una separazione netta tra il suo Dedalo, «più moderno», e quello mitico, e dunque «per fama oggi sì chiaro», dando subito un’idea di profondità temporale alle conoscenze trattate nell’opera; lo stesso meccanismo di separazione precisa tra i due personaggi viene
riproposto anche in seguito, nella Stanza 23 del VII Canto («Dedalo, io dico il nostro») e, ironicamente, non fa altro che sottolineare i legami tra le due figure omonime, costringendo, di fatto, il lettore a ristabilire continuamente il nesso tra i due personaggi. Procedendo nella lettura e man mano che si costruisce il profilo descrittivo del personaggio leopardiano, ci si rende conto, infatti, di come Dedalo impersoni diverse allegorie di collegamento al mito classico: è ingegnoso architetto («Dedalo egli ebbe nome, e fu per l’arte/ simile a quel che fece il laberinto»2), ma anche la guida per
un’anima perduta che cerca la salvezza.

Il topo, dopo essersi perduto durante il suo viaggio da esiliato, fra le avversità di una forte tempesta, giunge al «solitario ostello» abitato dall’unico essere umano che appare nei Paralipomeni, il quale, cortesemente, gli offre cure, ristoro e rifugio. Proprio nel corso del VII Canto, invece, si svolgono le premesse al viaggio infernale. Dedalo, fra i
«molti volumi» dello studio «di libri preziosi adorno», presenta al conte Leccafondi il suo regno della conoscenza che, già da subito, si configura con dei riferimenti precisi al mondo degli uccelli e del volo, condizione di vita che costantemente, negli scritti leopardiani, è associata all’idea di diletto oltre che di libertà fisica e mentale. Dedalo comincia il suo viaggio dal «nido»:
8 E disse com’ancor presso al confine
di pubertà quel nido avendo eletto,
di fisiche e meccaniche dottrine
preso aveva in quegli ozi un gran diletto,
tal che diverse cose e peregrine

avea per mezzo lor poste ad effetto,
e correndo di poi molti paesi,
molti novi trovati aveva appresi.

9 E sommamente divenuto esperto
della storia che detta è naturale,
ben già fin dal principio essendo certo
dello stato civil d’ogni animale,
gl’idiomi di molti avea scoperto

quale ascoltando intentamente e quale
per volumi trovati:

[…]3
Il legame profondo tra il Dedalo studioso «della storia che detta è naturale» che, in seguito, insieme a Leccafondi, sorvolerà diversi luoghi e tempi del mondo sensibile e il volo è reso esplicito fin da subito: in entrambe le presentazioni del personaggio, è chiara la stretta correlazione con il mondo animale e in particolare con quello dei volatili, coloro che, scrutando il mondo dall’alto, nella libertà aerea, hanno accesso più facilmente alla conoscenza e alla felicità proprie del cielo. La prima immagine di Dedalo è statica: lo inquadra nel suo “nido” di cultura, da dove accede ad ogni tipo di
conoscenza cui intenda avvicinarsi per suo volere; l’altra immagine lo presenta in azione mentre indossa le ali che gli garantiranno sembianze d’uccello: portandosi dietro il bagaglio di conoscenza appresa nel nido, Dedalo può compiere il viaggio aereo e svolgere il ruolo di guida per il suo compagno al quale propone di visitare «l’immortal soggiorno de’ topi estinti».
Dopo l’iniziale titubanza, il conte Leccafondi, impaurito dall’imponenza della proposta di Dedalo, si convince ad intraprendere il viaggio della discesa agli inferi, grazie all’opera di persuasione della sua guida, che gli fornisce anche lo strumento pratico per affrontare il volo che sarà propedeutico alla discesa: le ali.

21 E inanimito ed all’impresa indotto
avendol facilmente, e confortato
d’alcun de’ cibi di che il topo è ghiotto,
d’alucce armogli l’uno e l’altro lato
.4

A proposito della mitica impresa, al lettore non può certamente sfuggire l’ironico accostamento della figura del topo a quella dei grandi personaggi epici che, in letteratura, hanno affrontato il passaggio tra mondo dei vivi e aldilà. Ma Leopardi intende presentare Leccafondi come un pioniere, un mitico insegnante che, anteriormente perfino rispetto a Orfeo, Teseo, Psiche, Ercole o Enea, offre al mondo la speranza di poter compiere l’impresa eroica:
20 Strana questa in principio e fera impresa
Al conte e piena di terror parea.
Non avean fatta simile discesa
Orfeo, Teseo, la Psiche, Ercole, Enea,
Che vantàr poscia, e forse l’arte appresa
Da topi o talpe alcun di loro avea
.5

Resta curioso il fatto che, nel momento in cui, all’interno dei Paralipomeni della Batracomiomachia, appare il primo essere umano, fra la restante totalità dei personaggi di natura animale, Leopardi gli faccia studiare i testi intrisi di conoscenza topesca, ma anche e soprattutto indossare i panni del «grande uccello» e svolgere, allo stesso tempo, l’opera di promozione della discesa agli inferi e anche ciò che per natura agli uomini non è concesso, sebbene lo desiderino ardentemente, e a cui possono accedere soltanto
tramite l’ausilio di marchingegni: volare, appunto. Dedalo, l’unico essere umano del poema, ma uomo ingegnoso, viaggia e conduce Leccafondi al limite estremo della vita e della terra attraverso l’utilizzo di un paio di ali. Questi preziosi strumenti permettono la trasformazione dell’uomo e del suo compagno di viaggio e li rendono simili l’uno all’altro, regalando al lettore uno straniamento dovuto alla sovrapposizione tra specie viventi diverse. E non è certamente un caso che proprio a un uomo di nome Dedalo, lo
stesso col quale è conosciuto il mitico inventore del labirinto, nonché il primo inventore umano che costruì e usò le ali (anche se l’autore tiene ad ribadire con chiarezza che non si tratti dello stesso personaggio), sia affidato il compito di effettuare la trasfomazione, dotando se stesso di «ale accomodate alla statura umana» e fornendo al topo le «alucce»
adatte all’impresa.

Ma, il motivo del dotarsi di ali da parte di un uomo, e dotarne un topo, è
sicuramente indice di contaminazione letteraria e, in relazione al topo, suggerisce anche quella tra diverse specie animali. La contaminazione letteraria ci riporta immediatamente al mito di Dedalo e Icaro, al tema del ricorso all’ingegno da parte dell’uomo che desidera liberarsi in aria e sfidare le leggi della Natura. Il mitico Dedalo, vissuto secoli dopo l’abitante del «solitario ostello», secondo quanto confermato da Ovidio nei versi dell’VIII Libro delle Metamorfosi, tenta di rivoluzionare e superare le
funzioni naturali del corpo umano e si avventura in orizzonti sconosciuti, affidandosi al suo ingegno: «ignotas animum dimittit in artes naturamque novat» (vv. 188-9); nel mito, l’uomo assolve al suo compito costruendo le ali per sé («geminas opifex libravit in alas ipse suum corpus», vv. 201-2) e per suo figlio («ignotas umeris accomodat alas» v. 209), prima di guidarlo alla volta del cielo («me duce carpe viam»)6 . La fedeltà della ricostruzione del motivo letterario, nei Paralipomeni, è piuttosto evidente; le stesse operazioni, quasi identiche, sono svolte anche dal Dedalo leopardiano: anch’egli si affida all’ingegno, indossa e fa indossare le ali, e funge da guida a beneficio del suo compagno inesperto. In letteratura, altri noti riferimenti a Dedalo e all’ingegno umano che si misura con se stesso e tenta di esplorare la volta del cielo sono fatti da Luciano di Samosata nel suo
Icaromenippo, un dialogo nel quale il filosofo Menippo racconta di aver compiuto l’impresa del volo aereo con lo scopo di giungere sulla luna e salire in cielo tra gli dèi, seguendo proprio l’esempio di Dedalo, costruttore di ali. Attraverso un sapiente dialogo interletterario, il lettore viene a sapere che il personaggio lucianeo è, però, ben conscio di dover evitare la tragedia di Icaro:« Menippo. Vedo che mi canzoni. Ma io non mi maraviglio che, dicendoti una sì nuova cosa, la ti paia una favola. Eppure per salire lassù non ho avuto bisogno nè di scale, nè di visino baciato dall’aquila; chè io ci son volato con le penne mie.
Amico. Oh! cotesta è più gran cosa di quella che fece Dedalo, ed io non
sapevo che d’uomo se’ divenuto nibbio o cornacchia.
Menippo. Bene, tu quasi t’apponi, o amico. Quell’ingegno delle ali di
Dedalo l’ho adoperato anch’io.
Amico. E non hai temuto, o gran temerario, di cadere in mare anche tu, e
farci dire il mar Menippeo, come diciamo l’Icario?
Menippo. Niente. Perchè Icaro s’appiccò le ali con la cera, che al sole tosto
si liquefece, ed ei rimasto spennacchiato dovette cadere: ma le mie brave ali non avevano cera.
Amico. Come va cotesto? Oh, tu a poco a poco mi farai creder vero ciò che
mi dici.
Menippo. Ecco come. Presi una grande aquila, ed un forte avoltoio, e
tagliate loro le ali…. Ma è meglio raccontarti da capo tutta questa invenzione, se
vuoi udirmi».7
Luciano, citando fonti letterarie precise, che Menippo dà prova di conoscere piuttosto bene, fornisce riferimenti mirati sulle strategie migliori che hanno permesso al suo personaggio la buona riuscita dell’impresa aerea. Anzi, le informazioni riprese dalle favole di Esopo, e dunque dalla letteratura, che in questo modo diviene preziosa fonte di conoscenza, aggiungendosi all’ingegno e all’esperienza, costituiscono una garanzia per la vittoria del suo uomo, Menippo, che riesce a rielaborare un metodo pseudoscientifico atto al volo e lo descrive nei dettagli:

« Menippo. […] E mi dava qualche speranza il gran desiderio che n’avevo, ed Esopo che nelle sue favole ci conta come aquile e scarafaggi e camelli ancora seppero trovare per dove si va in cielo. Ma perchè vedevo che l’ali non mi nascerebbero mai, pensai di appiccarmi le ali d’un avoltoio o di un’aquila, le sole proporzionate al corpo d’un uomo, e così tentare una pruova. Presi adunque questi uccelli, e tagliai accuratamente l’ala destra dell’aquila e la sinistra dell’avoltoio, le congiunsi, me le attaccai agli omeri con forti corregge, adattai alle punte un ingegno per tenerle con le mani, e feci la prima pruova, saltellando ed aiutandomi con le mani, e come le oche che appena si levan di terra, io andavo su le punte de’ piedi e dibattevo l’ali. Accortomi che riuscivo, divenni più ardito, e montato su la cittadella mi diedi in giù, e venni fin sopra il teatro. Fatto questo volo senza
pericolo, ne tentai altri più lontani e più alti…»

Se Luciano di Samosata risulta piuttosto preciso nella descrizione della composizione del marchingegno utile al volo del suo personaggio, al contrario, nei Paralipomeni, per quanto l’autore tenga a sottolineare che l’intera vicenda sia raccontata dietro un’attenta ricostruzione erudita, il narratore spiega di non conoscere in alcun modo quale sia il meccanismo di produzione della coppia di ali, poiché «l’istoria non fa motto di quello
onde l’ordigno era formato». Ma, allo stesso tempo, Leopardi non perde l’occasione per citare nuovamente il mito e dimostrare che il suo costruttore di ali ha svolto con successo il suo lavoro, rendendole efficienti, non come colui che producendole di cera, e dunque in difetto, causò la tragedia di Icaro:
21 Più non so dir, l’istoria non fa motto
di quello onde l’ordigno era formato,
non degl’ingegni e non dell’artifizio
per la virtù del qual facea l’uffizio.

22 Palesemente dimostrò l’effetto
che queste d’ali inusitate some
di quell’altre non ebbero il difetto
ond’Icaro volando al mar diè nome:
di quelle, sia per incidenza detto,
che venner men dal caldo io non so come,
poiché nell’alta region del cielo
non suole il caldo soverchiar ma il gelo
.9

Il processo avviato da Leopardi coincide, inoltre, con un riferimento letterario che ha lo scopo della demitizzazione in quanto, tramite la citazione, l’autore trova l’espediente, di connotazione tecnico-scientifica, per scardinare le motivazioni stesse della tragedia di Icaro poiché, dice, «nell’alta region del cielo non suole il caldo soverchiar ma il gelo» e,
dunque, scoraggiare la posizione evidentemente illogica e anti-scientifica del mito. Al contrario, egli rassicura il lettore sul fatto che, nonostante non conosca gli esatti artifici «di specie alquanto strana» che hanno permesso l’esecuzione del volo, è assolutamente fuori discussione che garantiscano la fattibilità dell’impresa:
23 Dubitar non convien di queste cose
perocché sien di specie alquanto strana.
Udiam fra molte che l’età nascose
la macchina vantar del padre Lana,
e il globo aerostatico ottien fede
non per udir ma perocché si vede.
10
Tramite questi versi che richiamano le invenzioni del pallone aerostatico e della macchina volante la narrazione è arricchita da evidenti componenti tecnico-scientifiche; ancora una volta, l’autore trova un espediente differente per conferire al testo straniamento e ironia facendo ricorso a elementi realistici che collidono con l’impostazione prevalentemente favolistico-mitologica dell’opera in genereale, o della trattazione del topos del volo nel dettaglio. Lo scopo primario dell’ingegnoso costruttore di ali è quello di provare gioia, felicità, diletto dall’esecuzione del volo, di raggiungere una superiorità estranea alle possibilità terrene, di guadagnare la libertà dell’infinito. Se già dai testi pocanzi citati è chiaro l’intento parodico nei confronti della rappresentazione letteraria del tema,
Leopardi, come già detto, nei Paralipomeni, estremizza la nota ironica aggiungendo alla contaminazione letteraria, la contaminazione tra specie animali. Nei Paralipomeni, l’individuo umano non è l’unico essere dotato di ali; a lui si aggiunge il topo che, con le sue alucce, rimanda necessariamente ad un altro animale: il pipistrello. Attraverso l’investitura delle ali, portando a compimento il desiderio umano di avvicinarsi e conformarsi agli uccelli (o agli angeli), i personaggi subiscono un’importante trasformazione:
24 Così d’ali ambedue vestito il dosso,
su pe’ terrazzi del romito ostello
il novo carco in pria tentato e scosso,
preser le vie che proprie ebbe l’uccello.
Parea Dedalo appunto un uccel grosso,
l’altro al suo lato appunto un pipistrello;
volàr per tratto immenso ed infiniti
vider gioghi dall’alto e mari e liti.
11
Nella trasformazione l’uomo realizza, appunto, il desiderio di essere simile a un uccello o ad un angelo, e lo somma alla funzione protettiva e di guida che l’«uccello grosso», Dedalo, svolge nei confronti del topo-uccello; Leccafondi, invece, nell’indossare le ali, si trasfigura in pipistrello, richiamando una relazione già comunemente accettata da chi legge: l’autore sa bene che, nella mente del lettore, il pipistrello è già associato
all’immagine del “topo che vola”; così ché, in questo caso, la parodia assume una connotazione particolare poiché l’allusione al legame tra topo e pipistrello, creata nella similitudine tra i due esseri che volano, porta necessariamente ad un’analogia realisticam che non può sconvolgere completamente il lettore e non ha il potere di trasportarlo in un’atmosfera totalmente fantastica e di straniamento; inoltre, non bisogna dimenticare
che tutto ciò si realizza già all’interno di una situazione di intento ironico nella quale il roditore impersona le caratteristiche umane nel corso di tutta l’opera, rinviando a una serie di sovrapposizioni tra personalità differenti, anche se tutte inerenti il mondo naturale. Nel riferimento leopardiano al pipistrello, però, si vuole raggiungere il limite estremo della degradazione parodica, anche in relazione alla concezione negativa riguardo i piccoli mammiferi alati abbondantemente diffusa nell’antica Grecia: i pipistrelli erano visti, infatti, come degli uccelli strettamente legati all’inquietudine
tipica della sfera degli inferi, così come traspare, ad esempio, dai noti versi iniziali del XXIV Canto dell’Odissea dove, proprio allo scopo di dare una connotazione negativa al movimento degli spiriti, sono paragonati ai pipistrelli:
«E come appunto
Vipistrelli nottivaghi nel cupo
Fondo talor d’una solenne grotta,
Se avvien che alcun dal sasso, ove congiunti 10
L’uno appo l’altro s’atteneano, caschi,
Tutti stridendo allor volano in folla:
Così movean gli spirti, e per la fosca
Via precedeali il mansueto Ermete».12
Inoltre, Leopardi, per rafforzare ulteriormente la degradazione risultante dall’utilizzo dell’immagine dei “topi che volano” e allo scopo di aumentare e caricare lo straniamento ironico, la rilancia attraverso la tecnica della ripetizione e della riproposizione plurima; infatti, ritroviamo il riferimento al pipistrello anche nel canto successivo, dove le ali del topo non sono concepite come posticce neppure dagli autentici “topi con le ali” che scambiano il roditore alato per loro “fratello”:
35 Rapido sì che non cedeva al vento
ver Topaia drizzàr subito il volo,
portando l’occhio per seguire intento
i due lumi ch’ha sempre il nostro polo.
D’isole sparso il liquido elemento
scoprian passando, e su l’oscuro suolo
volare allocchi, e più d’un pipistrello
che al topo s’accostò come fratello
.13
Ma aldilà delle allusioni ironiche al tema del volo e all’operato dei protagonisti, per sperimentare il potere di innalzamento o di degradazione dell’immagine dei volatili, è inevitabile, e comunque sicuramente voluto dall’autore, il collegamento del viaggio aereo con il concetto dello spostamento spirituale dell’anima, convenzionalmente associata a un’essenza angelica che tenta di raggiungere lo spazio celeste per mezzo
delle ali. Il tema dell’anima dotata di ali è costantemente trattato nella letteratura classica in relazione al concetto di libertà; si narra quasi sempre di una vera e propria liberazione dell’anima dalla pesantezza terrena, nel momento in cui diviene capace di dominare dall’alto la sua condizione precedente, librandosi in volo. Le rivisitazioni plurisecolari del tema, nella letteratura, comprese quelle in chiave parodica, in parte già citate, partono molto spesso dai riferimenti al mito della Biga alata, esposto nel famoso
dialogo di Platone, il Fedro. Nel testo appare evidente la funzione centrale dello strumento propedeutico al volo che, testualmente, «partecipa del divino»:«Cosí, quando sia perfetta ed alata, l’anima spazia nell’alto e governa il mondo».[…] «La funzione naturale dell’ala è di sollevare ciò che è peso e di innalzarlo là dove dimora la comunità degli dèi; e in qualche modo essa partecipa del divino piú delle altre cose che hanno attinenza con il corpo. Il divino è [e] bellezza, sapienza, bontà ed ogni altra virtú affine. Ora, proprio di queste cose si nutre e si arricchisce l’ala dell’anima, mentre dalla turpitudine, dalla malvagità e da altri vizi, si corrompe e si
perde. Ed eccoti Zeus, il potente sovrano del cielo, guidando la pariglia alata, per primo procede, ed ordina ogni cosa provvedendo a tutto».14
Il testo chiarisce molto bene come le ali svolgano la funzione di elevare il personaggio che ha la fortuna di indossarle, in quanto rappresentano uno strumento di accesso alla superiorità celeste, di potenza divina. La condizione descritta coincide esattamente con quella delle anime finalmente affrancate dalla loro dimensione terrena e limitante. Le
anime incontrate da Dedalo e Leccafondi all’interno dei Paralipomeni, non a caso, sono presentate in volo; e l’autore conferma che il volo coincide con una proprietà caratteristica, una “virtude” delle anime prive di corporeità:
47 Cervi, bufali, scimmie, orsi e cavalli,
ostriche, seppie, muggini ed ombrine,
oche, struzzi, pavoni e pappagalli,
vipere e bacherozzi e chioccioline,
forme affollate per gli aerei calli
empiean del tetro loco ogni confine,
volando, perché il volo anche è virtude
propria dell’alme di lor membra ignude.
48 Ben quivi discernean Dedalo e il conte

queste forme che al Sol non avean viste,
bench’alle spalle ai fianchi ed alla fronte
sempre al lor volo assai ne fur commiste,
che d’ogni valle, o poggio, o selva, o fonte
van per l’alto ad ogni ora anime triste,
verso quel loco che l’eterna sorte
lor seggio destinò dopo la morte.
15

Proseguendo nella lettura, la caratterizzazione delle anime viene perfezionata e avvicinata a quella platonica in quanto, elevandosi verso l’alto e liberandosi del «vel che vivendo le costringe», le anime leopardiane divengono «assottigliate e pure» (cfr. stanza 49). Il metodo più efficace che Dedalo e il conte Leccafondi possono sfruttare per avvicinarsi, da vivi, alla felicità propria delle anime alate è quello di prendere «le vie che proprie ebbe l’uccello». La frase appena citata offre lo spunto per collegare il testo
dei Paralipomeni alla poetica leopardiana esposta anche attraverso altre sue opere letterarie. Appaiono prevalentemente due spunti di riflessione: la costante considerazione dell’esistenza dei volatili come esempio di vita privilegiata e da imitare per raggiungere la liberazione dalle incombenze terrene che affliggono la specie umana, da un lato; l’analisi dei luoghi, delle “vie” attraversate dai protagonisti, che si risolve in una riflessione sulla natura che circonda gli esseri viventi e domina su di essi in ogni
spazio e tempo, dall’altro. I parallelismi col testo dei Paralipomeni sono riscontrabili, ad esempio, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia dove è chiaramente leggibile l’auspicio che l’uomo possa sollevarsi verso una dimensione aerea e leggera e trasformarsi in quella creatura la cui natura sarebbe poco condizionata dal peso della materialità, della
necessità e della sofferenza, per porre fine alle incombenze della «vita mortale» :
Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una

O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
16

Ancora una volta si propone la forza dello strumento delle ali e della pratica del volo come soluzione alle incombenze della realtà fenomenica. Ma il parallelismo più riuscito tra i Paralipomeni e un altro testo leopardiano, in
relazione all’esaltazione della facoltà del volo, è quello che affianca il personaggio di Dedalo al narratore dell’Elogio degli uccelli, Amelio. Molti studiosi hanno sottolineato la stretta correlazione tra i due personaggi; oltre al chiaro collegamento sull’oggetto di questo testo riguardo la pratica del volo, evidente già dal titolo, infatti, le prime righe del testo sottolineano che la caratteristica che accomuna maggiormente i due personaggi leopardiani è quella che porta a descrivere entrambi attraverso la figura del «filosofo
solitario»: anche Amelio, come Dedalo, che «ridotto s’era solitario in villa/ a condur vita libera e tranquilla»17, trascorre le sue giornate studiando in solitudine, condizione giudicata capace di rimettere in contatto l’uomo e la natura. L’incipit del componimento , incluso fra le Operette morali, lo presenta in questi termini: «Amelio filosofo solitario, stando una mattina di primavera, co’ suoi libri, seduto all’ombra di una sua casa in villa, e leggendo; scosso dal cantare degli uccelli per la campagna, a poco a poco datosi ad ascoltare e pensare, e lasciato il leggere; all’ultimo pose mano alla penna, e in quel medesimo luogo scrisse le cose che seguono».18
Il quadro iniziale dà l’immagine di un personaggio molto simile al «Dedalo nostro». Paragonando le due figure di filosofi solitari, è utile proporre l’approfondimento della concezione leopardiana di solitudine, la quale si scopre essere profondamente congiunta al modo di interpretare il rapporto tra uomo e natura; il nesso tra solitudine e natura è chiarito da quanto esposto nello Zibaldone, dove Leopardi afferma che:

«La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell’uomo ancora. Quindi non è meraviglia se, nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacché il maggior bene degli uomini deriva dall’ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il nostro primo destino».19

In poche parole, la solitudine regala all’uomo un felice, anche se non completo, ritorno alla natura, uno stacco dalla mondanità: «Ma la natura e le cose inanimate sono sempre le stesse. Non parlano all’uomo come prima: la scienza e l’esperienza coprono la loro voce: ma pur nella solitudine,
in mezzo alla campagna, l’uomo stanco del mondo, dopo un certo tempo, può tornare in relazione con loro benché assai meno stretta e costante e sicura». 20
Attraverso i chiarimenti concettuali dello Zibaldone risulta più efficace anche la lettura dei legami tra l’Elogio e i Paralipomeni: confrontando i due testi emergono degli elementi costanti, oltre alla solitudine e alla sete di conoscenza dei protagonisti, che rinviano al pensiero generale; dalle prime due discende, ovviamente, il riferimento alla natura e, già dal titolo dell’Elogio, è chiara la considerazione di preminenza data a chi ha la capacità di vivere la felicità del volo, malauguratamente non assegnata dalla Natura anche al genere umano che può partecipare solo marginalmente di queste invidiabili gioie: «certo fu notabile provvedimento della natura l’assegnare a un medesimo genere di animali il canto e il volo». Le ragioni della felicità degli uccelli sono da ricercare in diversi elementi, non ultimo il fatto che abbiano la possibilità di vagare per spazi
immensi, in pochissimo tempo, ad esempio, o sfruttare la perfezione dei sensi che la natura ha riservato loro e poterla, in qualche modo, dominare, alla stessa maniera in cui tentano di fare Dedalo e Leccafondi:
«E che gli uccelli sieno e si mostrino lieti più che gli altri animali, non è senza ragione grande. Perché veramente, come ho accennato a principio, sono di natura meglio accomodati a godere e ad essere felici. Primieramente, non pare che sieno sottoposti alla noia. Cangiano luogo a ogni tratto; passano da paese a paese quanto tu vuoi lontano, e dall’infima alla somma parte dell’aria, in poco spazio di tempo, e con facilità mirabile»[…]
«Gli uccelli, per lo contrario, pochissimo soprastanno in un medesimo luogo; vanno e vengono di continuo senza necessità veruna; usano il volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più centinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, il dì medesimo in sul vespro vi si riducono. Anche nel piccolo tempo che soprasseggono in un luogo, tu non li vedi stare mai fermi della persona; sempre si volgono qua e là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si crollano, si dimenano; con quella vispezza, quell’agilità, quella prestezza di moti indicibile. […] e dall’alto scuoprono, a un tempo solo, tanto spazio di terra, e distintamente scorgono tanti paesi coll’occhio, quanti, pur colla mente, appena si possono
comprendere dall’uomo in un tratto»
[…]
«A parer mio, la natura degli uccelli, se noi la consideriamo in certi modi, avanza di perfezione quelle degli altri animali. Per maniera di esempio, se consideriamo che l’uccello vince di gran lunga tutti gli altri nella facoltà del vedere e dell’udire, che secondo l’ordine naturale appartenente al genere delle creature animate, sono i sentimenti principali; in questo modo seguita che la natura dell’uccello sia cosa più perfetta che sieno le altre nature di detto genere». 21
Da queste considerazioni di comparazione letteraria si può evincere che, sia
attraverso lo studio solitario che attraverso l’emulazione degli esseri alati, l’uomo possa provare a connettersi meglio con la natura che lo circonda: il folle volo di Dedalo e Leccafondi dà modo di approfondire ulteriormente il rapporto tra uomo e natura secondo un punto di vista particolare che lo porta ad assecondare il suo desiderio di provare a dominarla da un lato, per poi scoprirsi piccolo di fronte a ciò a cui lo porterà necessariamente, ossia la morte. Procedendo con ordine e tornando ai Paralipomeni, dunque, abbiamo visto come Leopardi dà modo al topo-pipistrello e all’uomo alato di scoprirsi nella libertà e leggerezza con cui possono tentare di superare i limiti della propria natura e di emulare gli uccelli per elevarsi in un volo sia orizzontale che verticale inaudito: il volo è orizzontale perché sembra procedere in avanti sopra i paesaggi terrestri, ma insieme è verticale poiché conduce, ironicamente, tramite il punto più alto raggiungibile dagli esseri viventi, il cielo, verso le viscere della terra, il punto più basso in assoluto. In altre parole, l’ingresso della montagna, o l’«inamabil soglia», attraversabile, per dimensioni, solamente dal roditore alato, costituisce il punto orizzontale di discontinuità tra vita e morte attraverso cui deve passare chi può intraprendere la discesa verticale verso gli inferi. Il viaggio orizzontale, con la visione dall’alto e del tutto, regala ai «volanti peregrini» l’illusione del dominio sull’intera Natura. I due viaggiatori hanno modo di procedere
«per tratto immenso» e di vedere «gioghi dall’alto e mari e liti», oltre a città, distese d’acqua, «vulcani ardenti» e molto altro. Accanto alla vastità spaziale, sulla quale predominano i protagonisti, è subito presentata anche la profondità temporale che hanno modo di attraversare e ammirare dall’alto: il tempo del volo permette al lettore di passare dal presente, al passato remoto, al futuro; inoltre, i tempi sono riconsiderati ogni
volta in relazione ai personaggi, alla vicenda o al narratore configurandosi come una sorta di tempo mitico o tempo aurorale senza definizioni precise. Come già detto, ma è opportuno rivalutarlo alla luce delle considerazioni temporali, ad esempio, i protagonisti del volo sono situati anteriormente rispetto al Dedalo mitico o ai celebri eroi delle discese infernali. Le informazioni cronologiche più dettagliate riguardo il volo sono raccolte, però, tramite le visioni panoramiche dei protagonisti: il tempo non scorre in
modo lineare e naturale ma è scandito da un avvicendamento disordinato di epoche storiche, ere geologiche e mitiche; i due «volanti peregrini» possono osservare dinosauri e sentirsi, dall’alto, più grandi degli elefanti, ma anche ammirare l’imponenza della torre di Babele o la vastità di Atlantide, scorgere le piramidi egizie, scrutare l’Italia preistorica, quasi incontaminata, dalla conformazione geografica differente rispetto a
quella che conosciamo, e quella romana, oltre ai luoghi ancora deserti e selvaggi dalla vegetazione non ancora turbata dall’irruenza tipica degli insediamenti umani contemporanei al narratore; ciò che rimane invariato è che, su tutti i tempi e gli spazi, sovrasta, incontrastata, la Natura, seppure essa stessa sia descritta in trasformazione continua e sempre rinnovata in tutte le sue forme e in tutti i suoi modi di essere nel tempo e nello spazio. In questa maniera, il volo di Dedalo e Leccafondi diviene un vero
e proprio viaggio nel tempo che si configura come scoperta della Storia della Natura e delle diverse Storie Naturali di cui l’uomo fa parte, ma di cui è soprattutto spettatore e vittima. Il volo non conduce i protagonisti e i lettori in un tempo propriamente altro, ma permette loro di entrare in una dimensione spazio-temporale che mostra l’azione del tempo sulle cose che sono o sono state. Infatti, coincide con un autentico innalzamento
ma anche straordinario alleggerimento e approfondimento delle scoperte, visto che, oltre alla geografia o allo spazio, esse riguardano persino i cambiamenti subiti dalla natura nel corso della storia. Nei Paralipomeni, i riferimenti storici e i grandiosi fenomeni naturali sono le coordinate entro cui Leopardi inserisce l’essere umano e la sua opera. Ciò che Dedalo e Leccafondi hanno modo di osservare durante il volo, condizione che
coincide con la massima aspirazione umana in positivo, è uno specchio della realtà umana, della civiltà, ma in negativo, poiché mostra la loro condizione effimera di fronte alla grandezza e alla sempiternità della Natura; il concetto della caducità della gloria umana, e non solo umana, costituisce, infatti, il centro concettuale della venticinquesima stanza:
25 Vider città di cui non pur l’aspetto,
ma la memoria ancor copron le zolle,
e vider campo o fitta selva o letto
d’acque palustri limaccioso e molle
ove ad altre città fu luogo eletto
di poi, ch’anco fioriro, anco atterrolle
il tempo, ed or del loro stato avanza
peritura del par la rinomanza
.22
I protagonisti sorvolano un campo di rovine consumate dal tempo, delle quali non resterà neanche la memoria ma sulle quali continua a dominare eternamente la Natura. L’uomo alato dall’alto le ammira ma, sia lui che tutte le altre specie viventi, compresi i grandi dinosauri, per esempio, subiranno lo stesso trattamento, vivranno la stessa sorte: ne saranno sopraffatti. La conoscenza della storia e della natura stanno dunque alla base del viaggio aereo dei due protagonisti in scena. Non bisogna sottovalutare, infatti, il modo in cui era stato presentato il personaggio di Dedalo in relazione alla sua conoscenza della «storia che detta è naturale»: i suoi studi nel «solitario ostello», luogo in cui si era ritirato per
vivere in solitudine, ossia ciò che è concepito come stato naturale per eccellenza, si incentravano proprio sulla scienza naturale. La natura stessa, così come esaltata tramite gli studi scientifici o le descrizioni dall’alto, diviene comunque oggetto della costante, sottile ironia leopardiana dato che il viaggio in volo dei due protagonisti conduce, in realtà, di nuovo alle viscere della terra, dove, guarda caso, si trova l’inferno dei topi, il cui destino è che, sia da vivi che da morti, stiano sottoterra e che quindi siano
condannati a non partecipare delle trasformazioni tra vita terrena e ultraterrena riservate agli altri esseri. La sola unica condizione che ha permesso a Leccafondi di essere diverso da se stesso e dalle sue possibilità è stata quella del volo, seppure con le limitazioni imposte dalla sua imprescindibile somiglianza al pipistrello e alle conseguenti implicazioni negative che questo comporta al suo personaggio il quale, è bene non dimenticarlo, rappresenta satiricamente l’uomo. Ma il volo stesso, la funzione di guida di Dedalo, la realizzazione dell’aspirazione alla leggerezza si risolvono in una completa disfatta poiché conducono alla coscienza della caducità umana, così come confermato nel saggio di Francesca Irene Sensini che, attraverso un excursus letterario
incentrato sulla parabola della figura del Dedalo leopardiano, giunge alle stesse conclusioni:
«[…] Alla luce di queste considerazioni, possiamo affermare che il Dedalo
leopardiano rappresenti, rispetto al modello antropologico che Leccafondi satirizza e nella più ampia prospettiva dell’umanesimo critico dell’autore, una guida superiore, paterna e insieme pericolosa, perché guida verso la coscienza del nulla».23
Il Dedalo leopardiano ha costruito, fedelmente alla scienza e al mito, delle ali che potessero condurre il topo Leccafondi in «quel loco ove al morir passando /vivesse l’io degli animali eterno»24, ma il viaggio in volo, contrariamente alle aspettative, si è rivelato pericoloso per la coscienza del protagonista. Il topo, rappresentante della degradazione dell’essere umano e realizzatore dei suoi desideri, si è imbattuto nei limiti della sua esistenza proprio mentre aveva l’impressione di aver compiuto un’impresa e di
essere riuscito a guadagnare la libertà, la felicità e il dominio sulla Natura

Testo di riferimento:
Leopardi, Giacomo, Paralipomeni della Batracomiomachia, a cura di Marco
Antonio Bazzocchi e Riccardo Bonavita, Roma, Carocci, 2002.
Altre opere leopardiane:
«Canto notturno di un pastore errante dell’Asia», Canti.
«Elogio degli uccelli», Operette morali.
Zibaldone.

Classici:
Luciano di Samosata, Icaromenippo.
Omero, Odissea, tradotta da Ippolito Pindemonte, 1822
Ovidio, Metamorfosi
Platone, Fedro.
Riferimenti bibliografici:
Drago, Angela Gigliola, Il poeta nell’Ade. Commento ai Canti VII e VIII dei
Paralipomeni della Batracomiomachia di Giacomo Leopardi, Pisa, Giardini, 2004.
Natali, Andrea, «Il volo e la discesa agli inferi di Leccafondi: quasi un viaggio nel tempo», Italies, 17-18, 2014, pp. 593-611.
Pani, Maria Luisa, Gli animali nei Paralipomeni di Giacomo Leopardi e le Scienze Naturali, Tesi di dottorato in Studi Filologici e Letterari, Università degli Studi di Cagliari, A.A. 2015-2016.
Segre, Cesare, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino, 1990.
Sensini, Francesca Irene, «Dedalo delle origini. Il mito dell’homo sapiens e faber nei Paralipomeni della Batracomiomachia», da Actes du colloque international d’Aix-enProvence, 5-8 febbraio 2014, in Abbrugiati Perle, a cura di, Le mythe repensé dans l’oeuvre de Giacomo Leoopardi, Presses Universitaires de Provence, 2016.

Note

1 Segre, Cesare, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino, 1990, pp. 13-23.

2 Paralipomeni, VII, 2, vv.1-2.

3 Leopardi, Giacomo, Paralipomeni della Batracomiomachia, a cura di Marco Antonio Bazzocchi e Riccardo Bonavita, Roma, Carocci, 2002, VII, 8, vv.1-8 – VII, 9, vv. 1-6.

4 Paralipomeni della Batracomiomachia, VII, 21, vv. 1-4.
5 Paralipomeni, VII, 20, vv.1-6.

6 Ovidio, Metamorfosi, VIII.

7 Luciano di Samosata, Icaromenippo,http://www.filosofico.net/lucicaromenippo.htm

8 Ibidem.
9 Paralipomeni della Batracomiomachia, VII, 21, vv.4-8 – 22, vv.1-8.

10 Paralipomeni della Batracomiomachia, VII, 23, vv. 3-8.

11 Paralipomeni della Batracomiomachia, VII, 24, vv.1-8.

12 Odissea di Omero, tradotta da Ippolito Pindemonte, 1822, XXIV, vv. 7-14.
13 Paralipomeni della Batracomiomachia, VIII, 35, vv.1-8.

14 Platone, Fedro (mito della Biga alata), 246-c,d,e.

15 Paralipomeni della Batracomiomachia, VII, 47, vv. 1-8 – VII, 48, vv. 1- 8.

16 Leopardi, Giacomo, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv.133-138.
17 Paralipomeni, VII, 4, vv.6-8.
18 Leopardi, Giacomo, Operette morali, Elogio degli uccelli.

19 Leopardi Giacomo, Zibaldone di pensieri, cit. tratta da note a I Paralipomeni della Batracomiomachia, a cura di di Marco Antonio Bazzocchi e Riccardo Bonavita, Roma, Carocci editore, 2002, VI, 37, I, p. 185.
20 Zib., ibidem.

21 Leopardi, Giacomo, Elogio degli uccelli

22 Paralipomeni della Batracomiomachia, VII, 25, vv. 1-8

23 Sensini, Francesca Irene, «Dedalo delle origini. Il mito dell’homo sapiens e faber nei Paralipomeni della Batracomiomachia», da Actes du colloque international d’Aix-en-Provence, 5-8 février 2014, in Abbrugiati Perle, a cura di, Le mythe repensé dans l’oeuvre de Giacomo Leoopardi, Presses
Universitaires de Provence, 2016, p. 220.
24 Paralipomeni, VII, 11, vv.5-6.