Leonardo Guzzo, nato a Napoli nel 1979, vive tra Sapri (quella della Spigolatrice) e Roma, dove collabora come esperto di organizzazione internazionale con la Libera Università Maria Santissima Assunta di Roma. Fa parte della redazione del mensile «50&più» e scrive per vari giornali e riviste, tra cui «L’Editoriale», «La Città», «Il Mattino» e «Il Corriere del Mezzogiorno». Suoi racconti sono stati pubblicati su «Nuovi Argomenti» e sulla rivista Il primo amore a cura di Tiziano Scarpa e Antonio Moresco. Nel febbraio del 2015 è uscito per Italic Pequod il suo libro d’esordio, una raccolta di racconti intitolata Le radici del mare. Il suo ultimo libro è Terre emerse, pubblicato da Pequod

La pulsione della poesia contro l’assalto dell’assurdo

Di Leonardo Guzzo

Contro l’assalto dell’assurdo – la botola dell’orrore che si apre all’improvviso  sotto la nostra “quieta” normalità – serrare le fila della poesia. È questa l’idea, facile e difficile al tempo stesso, che sta alla base dell’antologia Dal sottovuoto. Poesia assetate d’aria, curata da Matteo Bianchi per la collana Scilla di Samuele Editore. La realtà di un mondo in quarantena, improvvisamente ripiegato su se stesso, ne risulta come straniamento, sfinimento, malinconia e testamento, rifugio e assedio. Voci di trentacinque poeti – reazioni istantanee all’emergenza o profetiche intuizioni in tempi non sospetti – compongono un mosaico che vale assai più di una cronaca in versi del presente. “Una testimonianza storica, oltre che sociale”, sottolinea Matteo Bianchi nella prefazione al libro, e il tenore si precisa fin dalla poesia d’esordio.

Suggestivo è il paesaggio dipinto da Giancarlo Pontiggia: lo sgomento della solitudine, della città fatta isola, esposta ai venti di un’improvvisa, impietosa tempesta emotiva che pure induce a riscoprire la dimensione più profonda – più precaria ma anche più essenziale – dell’esistenza umana. Mentre la città si ritrae “in qualche buco dell’etere”, il camminatore solitario, privato di ogni risposta o consolazione dai simili, si sente spogliato di se stesso. Trasmigra dal suo corpo, dalla sua vita in un limbo di inanità e sospensione eppure, al tempo stesso, avverte finalmente con chiarezza la notte “che entra nello scuro di sempre”. Il mostro del virus è un’infezione di silenzio e insieme uno sterminatore angelico, apocalittico, che ci mette di fronte al senso della morte. Al significato, al sapore. Serve chiamare a raccolta ogni sentimento della vita, per reazione, e cercare di esorcizzare ogni spettro di dolore. “Per tirarmi via, da parte”, come dice Alberto Bertoni, “nella fine straniera delle cose”. Dentro la vita ridotta a quinta, in un paesaggio di colpo vuoto e liquido, aleggia sovrana la paura: Maurizio Cucchi la declassa ironicamente a “fifa”, mette in guardia dalla “infinita, spaventata chiacchiera”; Franco Arminio la rappresenta come atavica “città natale”, marchio di fuoco sulla carne di questi giorni. Reagire è scalare il crinale del senso: se è assurda la fiducia, difficile la speranza, resta ancora – ultimo rifugio – la fragranza del vivere. “A tutti spettano gioie e sventure,/ che almeno siano coraggiose e sincere”.

Leonardo Guzzo (Foto da labalenabianca.com)

Si affaccia, più o meno pressante, la necessità di trovare una spiegazione al contagio. È forse, come suggerisce Anna Maria Carpi, la natura che “ha deciso di rinnovare il mondo”? Si tratta di un processo evolutivo che ci trascende? Uno scarto che ci sorprende “qui, ben vestiti, pronti per l’estinzione”, secondo la lettura di Fabrizio Lombardo… Gian Mario Villalta rincara la dose: “Leopardi, che pure aveva ragione,/ non ha considerato che il piacere/ duraturo ci avrebbe come specie/ destinati d’emblée all’estinzione”. Valentino Ronchi si spinge ad attribuire alla pandemia il ruolo di beffardo castigo verso il materialismo, il paradigma che tutto riduce ad “avere troppo, avere poco, avere molto, avere tutto”. Echi di Fromm si innestano nello scenario surreale – la rare fazione azzurra in cui “il sonno ti somiglia” – descritto da Anna Ruotolo; nel serraglio di Paolo Ruffilli, dove il tempo circolare si trova sempre a sbattere, all’inizio e alla fine, contro una parete; nella domanda disarmata di Federico Rossignoli, quel “dove andrà chi vorrà scappare?” che esprime tutta l’incombenza inesorabile del contagio. Echi di Antonioni e Buzzati porta il “deserto rosso” evocato da Maria Borio; filosofico è il suo paradosso del punto: segno a un tempo dell’estrema dispersione e dell’assoluta concentrazione, inizio di un pensarsi insieme, di un sentirsi presenti, un tenersi uniti tutti, dentro. Cupo e languido si alza, in Rossella Pretto, lo stridore tra il contagio che “tutt’attorno s’allarga” e il “nido certo” dove s’addensa amore “e diventa cura gesto fiore selvaggio”.

C’è forse un antidoto al vagare “in contumacia di se stesso” che definisce – parole di Stefano Simoncelli – l’uomo ai tempi del Covid-19. Mariagiorgia Ulbar lo suggerisce: “Io non ho voluto più niente/ di giorno la pace di vento/ la notte che stringe come un tetto spiovente”. Tiziano Fratus lo descrive come una calma tibetana, pace da bonzo (“guardiano di un tempo che traspira”) che riflette una saggezza orientale e si riflette nella “figurazione” dei versi, espansi e poi ricondotti alla radice minima, con moto di fisarmonica e forma di foglia. Ogni antidoto è forse labile; ogni senso, anche afferrato, sembra sfuggire. “La realtà è un albergo a ore”, decreta Flaminia Cruciani. La poesia è risposta di per sé, nei suoi profondi camminamenti, le sue evoluzioni imperscrutabili e significanti: piccola o grande, è l’unica pulsione capace di fissare “quel millimetro di morte/ che ama la vita”.

Dal sottosuolo. Poesie assetate d'aria Book Cover Dal sottosuolo. Poesie assetate d'aria
AA:VV a cura di Matteo Bianchi
Poesia
Samuele Editore
2020
114 p.,