Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

La memoria negata e l’esodo giuliano

Di Graziella Enna

“Quante croci istriane, fiumane o dalmate sono già state e saranno piantate nel mondo? Trecentocinquantamila! E ci sarà mai un indennizzo equo che potrà risarcirci dell’affronto derivante dal fatto che un nostro ritorno a casa oggi equivale al viaggio di un anonimo turista? Quante e quali pene gravano e peseranno per sempre nell’animo di quell’eterno pellegrino che un giorno scelse la libertà, o altri lo fecero per lui per non essere schiavo in patria?[…]

Noi da molti fummo scrutati e schivati come appestati, da altri giudicati in massa, da tutti identificati come miserabili”.

Questi incalzanti interrogativi e l’amara conclusione sono un breve accenno delle sofferenze racchiuse in questo scritto autobiografico, che l’autrice Marisa Brugna, scrive in età adulta spinta dalla necessità di raccontare il drammatico esodo a cui fu costretta da bambina con la sua famiglia affrontando un destino analogo a quello di  altre migliaia uguali alla sua. Cosa si può provare nell’essere privati della propria dignità nello stesso suolo in cui si è nati e in cui all’improvviso ci si sente estranei e indesiderati? Quale taccia di infamia, quale colpa si portavano dietro migliaia di profughi trattati come reietti nello squallore più abietto di campi profughi? Come sopportare gli sguardi di odio, di intolleranza dei propri compatrioti?

Marisa Brugna (Foto da italianiperscelta.wordpress.com)

Tutto era cominciato in una limpida mattina di febbraio del 1949, quando Marisa Brugna, la sua famiglia e altri profughi,  lasciarono il delizioso borgo marino di Orsera in cui avevano vissuto una vita semplice, modesta e felice. Aveva sei anni Marisa, era il suo primo viaggio in barca, ma non era come aveva sempre sognato e sperato, i suoi genitori con due valigie di legno pitturate di verde in cui erano riposti pochi insignificanti averi erano rimasti in piedi nell’imbarcazione, muti per l’afflizione, a osservare il paese che si allontanava gradualmente dalla loro vista. Appare come un addio monti manzoniano l’immagine della partenza forzata di tutti coloro che lasciavano i loro parenti anziani, rinunciavano alla loro casa, alle loro terre coltivate con impegno, alle attività legate alla pesca. Dall’incipit del romanzo, narrato in terza persona, si evince subito il punto di vista della narrazione che è quello di Marisa che vede il mondo con i suoi occhi innocenti e inizialmente non comprende ciò che sta succedendo ma rimane segnata profondamente dalle esperienze che è costretta ad affrontare. Sradicamento coatto, sofferenza, precarietà, furono le conseguenze di una vera e propria diaspora che portò le popolazioni dalmate e istriane in diverse parti del mondo. Lo storico Raoul Pupo (ne “Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio”, Bur 2006), sottolinea  che l’esodo degli italiani dall’Istria fu la cancellazione di un intero gruppo e delle sue radici e non poté essere sostituito nei decenni successivi dalle popolazioni croate e slovene alle quali risultò impossibile colmare in un breve lasso di tempo il vuoto lasciato dagli esuli sia nel numero di abitanti, sia perché essi si lasciarono alle spalle dei centri abitati spettrali: case, orti, botteghe, campi, pochi abitanti anziani che nel volger di pochi anni scomparvero.

La sostituzione degli esuli richiese decenni e creò una massiccia comunità iugoslava in Istria completamente priva di una tradizione e senza alcun legame col passato. Nella vicenda narrata dalla Brugna si evidenzia più volte nei personaggi la consapevolezza che qualcun altro si sarebbe impadronito delle loro case e delle loro terre,  tuttavia aleggia sempre viva la speranza di un ritorno che nel corso degli anni si affievolisce sempre di più. La prima tappa della famiglia fu Trieste dove, in un capannone di smistamento, il Silos,  venne decisa la sorte dei vari gruppi. Prima destinazione fu un campo profughi a Latina, mezza Italia in treno per approdare a un casermone dormitorio in angusti spazi delimitati da sudice coperte, dove si pativano il freddo e  fame, si acquistava l’amara consapevolezza di una condizione di precarietà mai sperimentata prima, acuita dall’incertezza del futuro. Persino avere del cibo e  possedere dignitosi indumenti era un dramma e un’umiliazione, significava attendere la distribuzione da parte della Croce Rossa. Anche l’aspetto esteriore determinava automaticamente un’etichetta identificativa dello status di profugo che sanciva un processo di emarginazione sociale. Marisa e la sua famiglia vennero trasferiti nel campo profughi di Massa Carrara, dopo un nuovo viaggio in treno e un tragitto in autobus che terminava alla fermata “Paradiso”, nome che evocava nei loro pensieri tutt’altro che quella realtà. Marisa non sapeva che sarebbe uscita dal campo solo a diciassette anni, undici anni dopo. L’esodo avvenne in un’Italia che tirava un sospiro di sollievo dopo la guerra, per questo motivo è stato spesso occultato e ritenuto marginale, appena accennato nei libri di storia, ma il dramma del popolo giuliano-dalmata affonda le sue radici molti decenni prima. Sarebbe troppo lungo esporre tutte le vicissitudini a partire dalla fine dell’Ottocento, ma basta solo risalire a tempi più vicini e citare le infauste conseguenze del cosiddetto “fascismo di confine”, che queste terre martoriate subirono, (come spiega lo storico Gianni Oliva, in “Foibe”, Mondadori, 2015), che stanno alla base degli avvenimenti successivi. L’italianizzazione forzata imposta dal regime portò come conseguenza la persecuzione delle popolazioni slave di confine  con la creazione di campi di concentramento tristemente famosi, (uno per tutti quello di Arbe), in seguito determinò l’eliminazione o nella terribile risiera di San Sabba o la deportazione nei campi di sterminio del nord Europa. Nel disordine che seguì all’otto settembre, poi, si invertirono i ruoli e si creò dapprima ritorsioni e anche una sorta di jacquerie che generò la prima spaventosa rappresaglia contro gli Italiani tramite le foibe. Con l’avvento poi del regime comunista di Tito, le persecuzioni nei confronti degli Italiani continuarono  e si inasprirono con una seconda e più drammatica ondata di infoibamenti. Con il trattato di Parigi del 1947 e la definizione dei confini degli stati,  si ebbe il colpo finale  con l’infelice esodo di migliaia di persone, che per mantenere la propria identità italiana e per non cadere sotto la dittatura comunista, dovettero abbandonare le proprie case, dopo aver subito, come già accennato, prima la violenza nazifascista e poi quella dell’esercito titino, i massacri delle foibe, le deportazioni e il clima di terrore anti-italiano. Questo è il motivo per cui gli esuli, una volta giunti in Italia, erano considerati non come vittime di anni di sopraffazioni e inaudite sofferenze, ma tacciati con etichetta di “fascisti”, mentre per lo più erano  popolazioni inermi, che avevano assistito impotenti all’avvicendarsi di giochi di potere, subito ideologie aberranti e, in modo coatto, spartizioni territoriali decise a tavolino. Per questo motivo gli esodati furono considerati non cittadini italiani da proteggere e aiutare, ma ospiti sgraditi. Nella storia di Marisa Brugna gli anni trascorsi a Carrara, uno dei tanti campi profughi italiani, furono estremamente difficili e duri, nessun ostacolo però poteva impedire a una bambina di sognare, evadere con la fantasia e con i giochi, coltivare il suo mondo spensierato per sottrarsi a quell’abbruttimento spirituale che leggeva negli occhi degli adulti, che, sempre più demotivati da una vita dietro il reticolato del campo ne uscivano solo per svolgere lavori umili che a malapena garantivano la sussistenza. Per Marisa arrivò l’agognato momento di frequentare la prima elementare, non si curò dei locali squallidi che fungevano da scuola, delle pareti ammuffite, dell’oscurità della piccola aula, ma si innamorò subito della maestra, del fatto che sarebbe stata lei a realizzare il suo sogno di imparare a leggere e a scrivere. La possibilità di istruirsi divenne la sua ragione di vita e l’unica ancora di salvezza, finalmente era animata da una motivazione nella sua esistenza grama. Nessun misero grembiulino di due taglie in più dato dalla Croce Rossa, sopra l’unico abitino ormai liso, avrebbe potuto fermare la sua ferrea volontà! Un episodio significativo che fa comprendere al lettore l’odio e la palese avversione che molti provavano per i profughi, riguarda la parentesi di Marisa, quando frequentava la quarta elementare, in un collegio di Cimasappada, dove fu inviata con altre bimbe: fu un atto assistenziale del C.R.P. destinato ai bambini gracili e cagionevoli di salute. Ben presto la sua vivacità e la sua intelligenza le premisero di integrarsi nella comunità e abituarsi alle regole severe del collegio, divenne la bimba più amata dalla maestra che lodava le sue capacità e la sua diligenza. La benevolenza della maestra per la piccola profuga suscitò l’invidia della direttrice che per un intero anno la  emarginò dalle altre bimbe, affidandole l’esecuzione di lavori manuali rischiosi, infliggendole punizioni e umiliazioni di ogni tipo, maltrattamenti psicologici che le cagionarono l’anoressia. Il suo spirito tenace e indomito la sorreggeva ma il  gracile corpo si ribellò a tanto ingiusto accanimento manifestando l’avversione verso il cibo. Trovò consolazione nel rifugiarsi nei magnifici spettacoli naturali che la montagna offriva e si faceva coraggio col pensiero che, passato quell’interminabile anno, sarebbe tornata dai suoi. L’attendeva nuovamente la vita nel campo, con i suoi drammi, le sue sofferenze, la speranza, seppur flebile che prima o poi quella condizione di umiliazione e di miseria sarebbe finita per tutti. Frustrazione e insoddisfazione causavano in Marisa la voglia di trasgredire le regole con azioni e comportamenti inusuali e, tra tante sciocchezze e piccoli atti di ribellione, uno le cambiò la vita e le permise di realizzare il suo sogno, cioè quello di superare l’esame di ammissione per poter frequentare le medie, cosa a priori preclusa dalla sua condizione di profuga e dall’estrema indigenza della famiglia. Studiando con accanimento e zelo, oltre ogni sua possibilità, nella minuscola stanzetta del campo profughi, riuscì a diventare un’alunna modello, ma non cancellò il suo disagio interiore che si accresceva continuamente, voleva ribellarsi alla sua diversità , a quella povertà che si palesava nell’aspetto misero, alla reclusione nel campo, alla commiserazione degli sguardi altrui. Voleva sconfessare le storie su Orsera, sull’Istria, su Pola, su Fiume, non poteva più sopportare che la sua innocenza fosse macchiata dal peccato di istrianità. Essere libera come gli altri, nulla di più, questo era il suo unico desiderio. Eppure, altro elemento estremamente commovente della vita nel CRP, era la contrapposizione tra i volti emaciati e l’aspetto dimesso dei profughi e la loro dignità, la fierezza, l’esistenza di un codice etico inossidabile, (solo un episodio gli si dimostrò contrario), il senso di responsabilità dei genitori nei confronti dell’educazione dei loro figli, l’orgoglio di appartenere a un popolo pulito, onesto, laborioso. Il passato era sempre presente nella loro quotidianità, serviva da collante, era l’origine prima del senso di solidarietà e di fratellanza che li caratterizzava, derivante dalla solidità delle proprie radici, della consapevolezza di possedere una ricchezza di tradizioni e valori alle spalle.

“Come potevano definirli semplicemente poveretti, termine orrendo con quale anche chi non li discriminava, li classificava con aria di sufficienza? Quante intelligenze, quante capacità, creatività, sensibilità sussistevano in quegli individui scappati a violenze e soprusi e una sorta di padronanza, di potere assoluto, che portava a galla antiche schiavitù, per andare incontro al nulla? Vittime sì lo erano, ma lungi dall’ostentare vittimismo”.

Provenire dal campo era un’etichetta sempre più evidente durante l’adolescenza di Marisa, giorno dopo giorno: si palesava negli sguardi imbarazzati degli altri che marchiavano come un timbro a fuoco la sua diversità, pesante zavorra, da cui era impossibile liberarsi, foriera di un indicibile tormento interiore. Neppure i successi scolastici e la borsa di studio vinta riuscirono ad affrancarla dalla sua condizione, conservò la sua umiltà, la sua educazione alla remissività e alla modestia. Solo da giovane adulta capì che la sua “profuganza” non era una taccia ignominiosa ma un qualcosa di cui andare fiera, che avrebbe forse potuto suscitare rispetto e ammirazione da parte di chi, un giorno, l’avesse compresa. Arrivò il 1959, il padre di Marisa, dopo tanti viaggi alla ricerca di un lavoro che consentisse a sé e alla famiglia di lasciare definitivamente il CRP, finalmente trovò una soluzione: sarebbero andati in Sardegna, era un fatto certo non più una speranza. A luglio lasciarono il campo, di nuovo una traversata in mare, di nuovo le due valigie di legno pitturate di verde con poche cose dentro. Fertilia, la meta, villaggio nei pressi di Alghero, lasciato incompiuto nel ventennio e dove già si era installato un gruppo di Istriani e Dalmati sotto la guida del parroco di Orsera. Avrebbero ricevuto un podere in assegnazione da parte dell’Etfas (Ente per la trasformazione fondiaria e agraria in Sardegna), che, come unico difetto, comportava una maggior lontananza dall’Istria. Non si presentava come la migliore terra, appariva argillosa, piena di pietre, ma era pur sempre loro, da coltivare, da amare, e, come un tempo in Istria, l’avrebbero resa fertile e generosa. Si delineava finalmente la prospettiva di una casa, sorgevano nuovi agglomerati di abitazioni nella borgata di Maristella: una casa vera, come a Orsera, che significava intimità, calore, protezione, un punto fermo nella propria vita,  non più un campo, freddo, inospitale, maleodorante. E ben presto la comunità giuliana si integrò perfettamente a Fertilia, tutte le vie ebbero i nomi dei paesi e delle città che un tempo avevano abbandonato, si ritrovò la gioia di vivere, di lavorare con entusiasmo e alacrità, prese piede la voglia di esorcizzare il dolore e l’angoscia di anni di disperazione e segregazione. Quel mare con le sue ripide scogliere, che ora stava di fronte a loro e si apriva immenso e sconfinato regalando meravigliosi tramonti, era molto diverso da quello più rassicurante della costa dalmata, pieno di isolotti, golfi e rientranze, eppure si riconoscevano in quella distesa che aveva assunto il nome di libertà. Marisa finalmente poté diplomarsi e diventò maestra, non senza altre fatiche e disagi. Ma ormai nulla più poteva fermarla, questa fu la sua vittoria sul CRP, finalmente in quelle valigie verdi avrebbe potuto rinchiudere solo i dolori del suo passato, ora la aspettava una vita da vivere intensamente con il suo lavoro di insegnante e nel nuovo ruolo scelto con gioia e consapevolezza, di moglie e madre. Solo dopo la pensione Marisa tornò a Orsera per rivivere in ricordi lontani attimi della sua infanzia felice, ritrovare i luoghi della sua spensierata innocenza, ricercare  l’antico idioma, le mura della sua dimora, di quella della nonna, tuttavia, pur avendo ormai messo le radici ad Alghero, non si sentì una turista, ma terra, acqua, pietra, albero di quella terra che l’aveva generata e accolta come una madre e tale era rimasta nel suo cuore. Con un linguaggio curato, vibrante, a tratti poetico, l’autrice conduce il lettore in un itinerario di sofferenza e redenzione estremamente emozionante e coinvolgente, dettato dall’amore per la terra istriana, dalla gratitudine verso la nuova terra e soprattutto dalla volontà di onorare la memoria della sua famiglia e di un intero popolo.

La memoria negata. Crescere in un centro raccolta per esuli giuliani Book Cover La memoria negata. Crescere in un centro raccolta per esuli giuliani
Marisa Brugna
Saggistica
Editore Condaghes
2002
296 p., brossura