Vladimir D’Amora è nato a Napoli nel 1974. In poesia ha pubblicato Pornogrammia , Edizioni Galleria Mazzoli, 2015 (finalista Premio Fiumicino 2015), Neapolitana Membra , Arcipelago Itaca, 2016 (Premio Itaca 2016) Anima giocattolo (finalista Premio Trivio 2016)

Tre cose tre su un comunismo

Di Vladimir D’Amora

COMUNISMO? COMUNISMO! Alcune note senza arte con parte. Parlare di Marx, e non solo per Marx. Due gli ordini di problemi, al punto che a stento riesco a discernere… Prima, senza che neppure m’intenzioni ad essa, preme una domanda del tipo: Che fare? La lascio aleggiare, io mi ritraggo, anche un po’ impaurito. E rifuggo in un più abbordabile, anche se tutt’altro che gestibile: Che cosa ha detto veramente Marx?
Tuttavia resto tormentato, come da un’eco ben radicata, devo distogliermi, è un’impostazione quella in cui sono caduto. Sforzarsi, scartarsi dall’operatività come dalla scolasticità: è un sentiero, anche questo, già battuto, e credo fortunatamente già interrottosi… Perché forse l’originalità ha a che fare meno col futuro che con l’inizio (sebbene pure qui stia il rischio di una eccentricità molesta, ormai). Comunque spostarsi non è (solo) rimuovere. Ma propriamente ripetere come riformulare, un esercizio analogico. Anche se di analogie, indubbiamente rivoluzionarie, ce n’è sempre a iosa. Sciolgono le aporie, o almeno le illuminano per quello che sono. Forse lo stesso Marx, e sin da laureando, si è imbattuto in un ordine di discorso rinviante all’analogia, o meglio, analogicamente marcato. Anche quando tratta del feticismo, lasciandosene afferrare. Quella relazionalità stravolta che è la merce, ossia l’oggetto capitalistico. O forse già lo stesso oggetto “capitale”. Se feticismo, più che un concetto, è una specie di operatore strategico. Tale, cioè, da marcare ed eccedere merce e capitalismo rimandandoli all’ambito teologico, e alle tecniche interpretative sue proprie — senza però che da qui se ne esca per un nuovo significato. O meglio, per uscire se ne esce. Ma non senza disagio, anzi, portandosi dietro più di quanto previsto…Sebbene la sua teoria sia tanto ferrea nella sua non interpretabilità, certo in Marx non si tratta di un primato del segno sull’evento. Né si va lontano chiedendosi se la posta in gioco sia una duplice, e in sé aporetica, regressione: dall’economia alla teologia e, ad un tempo, dalla teoria alla prassi: per mostrare, in ogni dispositivo che l’economia è, la segnatura teologica che lo qualifica e specifica, e in ogni teoria l’evento che la porta e condiziona.
Se, una buona volta, per un passo indietro ci si decida, non di rinunzia propriamente si tratta. Calcolabile è solo l’apertura ad una indefinita dimora in segni e teorie, quanto ad una semplice indagine della loro relazione vitale con l’esperienza e gli eventi. Mentre la risalita al di là di una scissione, fra segno ed evento come fra teoria e prassi, ossia al di là della differenza, e non già fra valore ed uso, ma fra valore e valore d’uso, è un’esigenza: non ignorare né esorcizzarle, scissioni e differenze, o tollerarle, ma piuttosto lasciarle al loro liminare aver luogo… Forse compiere la differenza, la remissione di un conflitto non è salvaguardarne la possibilità, ma salvaguardarli nella possibilità, nella potenza. Perché, s’è (ormai) certo non si tratti di ricondurre la differenza alla identità, neppure però il conflitto è la purezza della sua molteplicità, ripetizione di null’altro che di ripetizione. Perché si dia differenza dalla differenza, l’identità sta nella custodia del suo essere un pericolo, nella sua capacità di contraddirla, la differenza. Ed una possibilità è per la sua potenza solo in una negatività che le dia non fondamento, ma agio.Intanto, il passo indietro, come prepara al salto oltre la scissione, così è, esso stesso, preparato. E non dalla, ma nella analogicità che sia meno ripetizione, che certa insistenza. La quale aggancia, facendolo apparire innanzitutto per quello che è, ad uno spostamento.
Come quando piove, da ore, da decenni. Senza vuoti. Il padrone, un tempo solo, ora è anch’egli senza riparo. Mentre piove, nelle barche ancorate nelle baie, nelle città dagl’irriconoscibili sentieri. E nei catini di pescivendoli ormai da anni instancati.
Sui lastricati, lisci e lindi, sempre piove. E le facce, d’individui senza masse, manco più stingono. Senza classe né solidarietà, e se si mangia, senza chiedere né ricevere, non si può più addentare, ogni attesa ammollata.
Nei bar, dove un tempo erano i brodi a svendersi, vi scorre acqua. Mentre le porte, ora che non è più acqua di stagione, manco sono divelte. Non c’è più alcun calcolo che tenga.Piove, ed irreparabilmente. Anche se, di tanto in tanto, ancora a qualcuno viene di portare il conto delle ore e degli anni d’acqua. E come i vecchi vi si prestano, così alcune fanciulle, le igee, talvolta si scorgono avviarsi al fiume. Perché i fiumi, almeno essi, si credono aridi, ed i mari svuotati. Ma è solo ‘na diceria. Perché piove, senza posa. Quando i padri non riconoscono i morti, coi figli ridotti a poltiglia, freddati, ormai inabili pure a denudarsi. Qualcuno, forse, accende un fuoco. Però non se ne ha alcuna notizia.Uno di quei vecchi, sempre disponibili, riapre il libro in cui sa narrato un diluvio, con fine e rinascita incluse. Ma le pagine, come i figli, ormai sono poltiglia: non ci sono più occhiali né tanto meno immagini. Leggere non fa più differenza. Piove.
Questo scenario, apocalittico solo nel senso che la fine ci mette il suo tempo a finire, s’è indecifrabile, non è manco sicuro possa riconoscersi. Comunque in esso ne può sempre trasparire un altro, forse meno manierato, ossia diversamente riducibile.Due giapponesi viaggiano su un treno lento, locale. Con sé hanno una valigia, al suo interno un unico doppiofondo. E 180 di miliardi di dollari di titoli.Una pattuglia l’identifica, con la sua solita flemma. Da protocollo sequestra l’enormità chissà a cosa destinata e da chi istruita. I due giapponesi vengono rilasciati e, di lì a poco, saranno gli esperti a verificare i titoli. La stampa non tace la notizia, un trafiletto anonimo in una delle pagine meno avvincenti e più specialistiche. Dai telegiornali, nonostante l’indiscutibile enormità e l’apparente saporosità della vicenda, nulla.
Un arcano, come la merce di marxiano baleno, fa brillare un dispositivo nella sua anarchica meccanicità — inapparentemente. Se ciò non desta almeno una qualche inquietudine, allora l’analogicità è un gioco, di quelli senza soluzione di continuità. Un po’ come l’interpretazione.
Lavorare su Marx, e con Marx, è disporsi in un ricorso ferreo all’analogicità. Rompere il circolo che, inapparentemente nell’an-archia economica (economica, ossia non ontologica ma meramente gestionale), stringe separazione e socializzazione — circolo già marxianamente guadagnato nella mera dislocazione teologico-antinomica —, ciò non è un decidersi per una dimensione autentica, in cui sia restituito un comune fondamento atto a salvare dall’improprietà della separatezza capitalistica… Piuttosto si tratta forse, una volta ammessa l’insalvabile ed inapparente infondatezza dei dispositivi economici, di rinvenire nella prassi la dimensione di un’analogicità originalmente libera dal presupporre ed appropriare.
Ora un esempio, ossia uno scenario la cui normalità stia proprio nel sospenderla. Sia Videocracy, il documentario svedese dell’Italia berlusconiana. Presentato in un festival cinematografico dominato dal rosso di un comunismo siculo tanto smagliante, da venire applaudito dallo stesso Berlusconi finanziatore del prodotto, Videocracy esibisce in bella vista i retroscena del telepotere.
Nel caso di Baarìa, una storia secolare e insieme regionale è intonata ad una epocalità piatta, ogni suo cedimento meno escluso che presupposto. Così che il commosso commento dell’anticomunista Berlusconi gli si attaglia come un vestito stretto e, ciononostante, opportuno, prevedibile.
Il documentarista Gandini, in un’intervista tanto gradita ad una sinistra che non può non compiacersi della censura della tv di stato, rivendica l’obbiettività del suo occhio abile a semplicemente, onestamente informare. Una storia d’immagini che ripete la quotidianità delle immagini televisive, massmediatiche, sarebbe appunto una analogia che chiude, se Gandini non ne rimarcasse l’imparzialità. Ma, a cosa apre tale rivelazione analogica?Aprendo sull’analogicità di film-documentario e realtà-televisione, dominii accomunantisi nella trasparenza dei loro segreti, viene accanto aperta una dimensione disposta a null’altro che ad accumulazione e scambio, nel mercato. La ripresa discorsiva fa dell’intenzione retroscenica un compimento attivante: lascia essere potenziando. Mentre l’analogicità, marxianamente stringentesi fra teologia ed economia, sì che compie, ma a disattivare: lascia essere depotenziando, possibilizzando. La prassi sì è l’operatore strategico dell’apertura analogica, ma è reale tautologicamente.
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La sinistra italiana (…)
La sinistra italiana non ha né una euristica né una logica degli stracci e degli scempi.Se la sinistra italiana troverà mai, nella totalità dei suoi pezzi, un interveniente adeguato; o – e ciò più probabile – se la sinistra italiana, nella sua essenza consenta tale interveniente, addirittura quindi esigendolo. La prima questione ammette solo una soluzione problematica, mentre quella della seconda è apodittica. Solo un’esistenza superficiale, negando il significato indipendente della seconda, le dichiarerà equivalenti. Di fronte alla superficialità è almeno da richiamare l’attenzione sulla relazione. La relazione serba ancora la sua incidenza solo se non è riferita a priori esclusivamente all’uomo che un italiano è. Una vita o un istante sono indimenticabili, anche se tutti gl’italiani l’avessero dimenticati. Poiché se la loro essenza esigesse di non essere dimenticati, quel predicato non conterrebbe nulla di falso, ma solo un’esigenza a cui gl’italiani non corrispondono, e insieme il rinvio a una sfera in cui fosse corrisposta – a un fantasma di comunismo…
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vuoto di comunismo

il primo vuoto
suo padre i comunisti / egli non li odiava /fu senza spazio /nell’odio il padre /non leggeva, mentre già /prima non studiava e non / possedeva libri fatti con la colla delle voci /e della piazza / e di un partito /

secondo vuoto
ché solo stalin / niente lenin /quasi la promozione del diverso / a totalistica /propaganda / di una classe /

il terzo vuoto
non accadde mai il sessantotto

il quarto vuoto
quando iniziarono a mangiare, / a metà degli Ottanta, /era mangiare solo pezzi di un muro /e caddero /altri scippati nell’aperta eloro / esposizione /

quinto vuoto
quando salimmo nel mezzo di un vagone di città /potei parlare come un comunista e fu nel vuoto / comunista /il sesto vuoto /
cioè il suo nome /tu Tania / tu non battevi il ciglio /la domenica a tornare schiava /all’ora: / 
e era sera. /

Immagine di copertina: Karl Marx, foto da Wikipedia

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