Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

Ulisse in Dante, Saba, Kavafis

Di Graziella Enna

L’Ulisse dantesco, reso celebre dal XXVI canto dell’Inferno, nella letteratura del Novecento diviene l’emblema dell’inesausta ricerca della conoscenza e della verità tramite l’industriosa bramosia di esperienze, che permettono all’uomo di colmare la sua inquietudine, di dare una risposta ai suoi eterni quesiti esistenziali.

Nel XXVI canto dell’Inferno Dante e Virgilio giungono nell’ottava bolgia in cui sono puniti i consiglieri fraudolenti, avvolti entro fiammelle. Ma prima il Poeta, si abbandona, con ironiche e dolenti parole dettate dal suo amore-odio per Firenze, ad un’ennesima apostrofe:

Godi Fiorenza, poi che se’ si grande,

Che per mare e per terra batti l’ali,

E per lo’ nferno tuo nome si spande

 nella bolgia precedente aveva infatti incontrato ben cinque ladri fiorentini e qui, con la metafora del volo, mette in luce la cattiva fama della città che si diffonde per l’inferno. Segue poi una profezia di funesti eventi punitivi che le città vicine augurano alla sua. Dante spera che, se proprio debbano accadere, abbiano luogo prima che lui sia troppo vecchio da non poterne più sostenere il dolore. Anche qui, nella consueta tragica ironia, il pathos di Dante e’ palpabile. (vv.4-24,)

A questo punto segue la descrizione del nuovo scenario tramite due similitudini caratterizzate dal campo semantico del fuoco: la prima, dall’atmosfera bucolica, del contadino che nel crepuscolo estivo, osserva i campi punteggiati da miriadi di lucciole simili a piccole fiaccole, la seconda, biblica, del carro di fuoco che rapì il profeta Elia. (vv. 2545)

 Dante, frastornato da uno  spettacolo così particolare,  chiede spiegazioni sulle misteriose fiammelle erranti, in particolare di una atipica, perché biforcuta, simile alla pira funebre dove furono arsi i tebani Eteocle e Polinice che tanto si odiarono in vita da dividerne la fiamma dopo morti. (vv.46-54).

Virgilio subito chiarisce che si tratta di Ulisse e Diomede puniti insieme, sebbene una punta della duplice fiamma sia più alta (“lo maggior corno”), per i misfatti peggiori di Ulisse:

La’ dentro si martira                              

Ulisse e Diomede, e così insieme         

A la vendetta vanno come a l’ira           

E dentro da la lor fiamma si martira

L’agguato del caval che fe’ la porta 

Onde uscì de’ Romani il gentil seme.   

Piangevisi entro l’arte per che, morta,  

Deidamia ancor si duol d’Achille,           

E del Palladio pena ci si porta”.                                                                                                                                 

Il primo, Ulisse,  fu la causa della caduta di Troia, con l’inganno del cavallo, i cui esuli poi fondarono Roma (in due versi Dante riassume i fatti narrati nell’Eneide!), poi scopri’ l’inganno di Achille, travestitosi da donna e lo tolse all’amore di Deidamia, portandolo alla guerra di Troia; l’altro, Diomede partecipo’ a varie imprese con Ulisse tra cui il sacrilego furto della statua di Pallade che si diceva rendesse Troia inespugnabile. Dante chiede a Virgilio, pregandolo in modo accorato, di poter parlare con le anime e lo esprime in un modo così ansioso ed intenso (con artifici retorici) che la richiesta viene accolta e lodata dalla guida:

Maestro assai ten priego 

E ripriego, che ‘l priego vaglia mille….

Usa dei termini simili appartenenti alla stessa area semantica, il primo “priego” un verbo ,” repriego”, con lo stesso significato ma intensivo,  mentre il terzo “priego”e’ un sostantivo. Virgilio, si pone come mediatore perché ha maggiore familiarità con i personaggi del mondo greco, inoltre era proverbiale la superbia e la ritrosia dei Greci verso gli stranieri, e Dante sarebbe apparso tale ai loro occhi.  Così Virgilio esordisce con una sorta di captatio benevolentiae nei loro confronti , sottolineata da un’anafora, chiedendo ad uno di loro (Ulisse) dove fosse andato a morire dopo essersi perso:

O voi che siete due dentro ad un foco, 

S’io meritai di voi, mentre ch’io vissi

S’io meritai di voi assai o poco

Quando nel mondo li alti versi scrissi,

Non vi movete; ma l’un di voi dica

Dove, per lui, perduto a morir gissi.

Prima che Ulisse inizi a parlare, viene descritto il fenomeno fisico delle parole che fuoriescono dalla fiamma facendola crepitare con l’aria emessa, altro dettaglio, non di poco conto, è il fatto che le fiamme si muovano come lingue di cui tali dannati si servirono per operare i loro inganni e procurare il male con l’eloquenza. Probabilmente Dante si rifà all’espressione presente nelle Sacre Scritture “lingua ignis est”.

 La narrazione di Ulisse comincia in medias res, con un’analessi, ovvero il soggiorno presso Circe presso Gaeta (di derivazione virgiliana: si dice infatti nel libro VII dell’Eneide che Enea l’avesse  chiamata così dal nome della nutrice Caieta che morì e fu sepolta li’), poi si evince il suo ritorno in patria, e, nonostante l’attaccamento agli affetti familiari, fu tanto l’insopprimibile ardore di divenire esperto del mondo, dei vizi e delle vite umane, che nulla lo trattenne, perciò riprese il mare aperto con una sola nave ed un piccolo numero di compagni fidati. L’impresa appare subito sproporzionata: l’immensità della distesa marina ignota ed un pugno di uomini seppur assetati di esperienza.

Lo maggior corno de la fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando,

pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,

come fosse la lingua che parlasse,

gittò voce di fuori e disse: “Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse

me più d’un anno là presso a Gaeta,

prima che sì Enëa la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta

del vecchio padre, né ’l debito amore

lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto

e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto

sol con un legno e con quella compagna

picciola da la qual non fui diserto.

Segue la narrazione di Ulisse, il viaggio continua verso Occidente, nelle coste del Mediterraneo, Sardegna, Spagna e Marocco e tutte le isole comprese in quel mare, finché si giunse alle Colonne d’Ercole, considerate il limite oltre il quale nessuno doveva osare spingersi. Ulisse ed i compagni erano ormai vecchi e lenti, ma egli con un discorso, breve ma molto persuasivo, li esorta a non negare a se stessi, vista la caducità della vita, una nuova, ultima esperienza. dopo averli indotti con quell’imperativo “considerate la vostra origine”, ribadisce che il fine dell’uomo non è di essere  destinato ad un’esistenza puramente  istintiva e vegetativa ma a perseguire virtù e conoscenza: questa e’ la sua vera natura. 

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,

fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,

e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi

quando venimmo a quella foce stretta

dov’Ercule segnò li suoi riguardi

acciò che l’uom più oltre non si metta;

da la man destra mi lasciai Sibilia,

da l’altra già m’avea lasciata Setta.

“O frati,” dissi, “che per cento milia

perigli siete giunti a l’occidente,

a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente

non vogliate negar l’esperïenza,

di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza

Ulisse rende i compagni così bramosi di continuare il cammino che sarebbe stato impossibile trattenerli, perciò, volta la poppa ad oriente e la prua ad ovest, inizia il folle viaggio equiparato ad un volo con i remi della nave che diventano ali per enfatizzare questa volontà di superare ogni limite umano. Il resto del percorso viene accennato tramite l’avvicendarsi della luna. Apparve una montagna alta e suscitò gioia subito trasformatasi in disperazione, perché un turbine di vento solleva la nave, per tre volte, numero divino, e la fa inabissare inghiottita dalle acque. Da notare la presenza di due verbi che anticipano la parola acque e la contengono: “nacque” detto del turbine  e “piacque” riferito ad altrui cioè “come Dio volle”.

Li miei compagni fec’io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,

de’ remi facemmo ali al folle volo,

sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l’altro polo

vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,

che non surgëa fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso

lo lume era di sotto da la luna,

poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto

quanto veduta non avëa alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;

ché de la nova terra un turbo nacque

e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;

a la quarta levar la poppa in suso

E la prora ire in giù, come altrui piacque,

Infin che ‘l mar fu sovra noi rinchiuso.

In questo episodio celeberrimo, viene celebrata senza dubbio la sete di conoscenza dell’uomo, ma pure i suoi limiti. Anche Dante, nella sua vita, si lasciò prendere dall’orgoglio e dalla presunzione intellettuale di poter giungere alla verità solo tramite la filosofia senza la Grazia divina, così come Ulisse, che pur partendo da nobilissime motivazioni, fallisce miseramente senza l’aiuto illuminante di Dio. Perciò il suo volo e’ temerario e folle, ma non sacrilego in quanto pagano. Dante, pur considerandolo magnanimo, condanna comunque Ulisse, ma come in tanti altri suoi personaggi, si identifica in lui: Ulisse ha esplorato il mondo reale e fisico, Dante quello oltremondano andando oltre la ragione umana con la teologia che gli ha illuminato il cammino dissipando le tenebre dell’ignoto.

Dante, nel comporre questo canto, non aveva presenti i poemi omerici, (né il testo originario né i riassunti), in  particolare i  versi dell’Odissea sulla discesa agli Inferi in cui l’eroe dal multiforme ingegno incontrò l’indovino Tiresia che gli predisse il suo destino una volta rientrato a Itaca.

E quando i pretendenti nel tuo palazzo avrai spento,

o con l’inganno, o apertamente col bronzo affilato,

allora parti, prendendo il maneggevole remo,

finché a genti tu arrivi che non conoscono il mare,

non mangiano cibi conditi con sale,

non sanno le navi dalle guance di minio,

né i maneggevoli remi che sono ali alle navi.

 E il segno ti dirò, chiarissimo: non può sfuggirti.

Quando, incontrandoti, un altro viatore ti dica

che il ventilabro tu reggi sulla nobile spalla,

allora, in terra piantato il maneggevole remo,

offerti bei sacrifici a Poseidone sovrano

ariete, toro e verro marito di scrofe

torna a casa e celebra sacre ecatombi

ai numi immortali che il cielo vasto possiedono,

a tutti per ordine. Morte dal mare

ti verrà, molto dolce, a ucciderti vinto

da una serena vecchiezza. Intorno a te popoli

beati saranno. Questo con verità ti predico».

Il Poeta prende le mosse da un passo delle Metamorfosi di Ovidio (libro XIV) in cui Macareo, un compagno di Ulisse, racconta ad Enea che l’eroe, dopo il soggiorno presso Circe, volle trascinare i suoi compagni vecchi e stanchi in un viaggio che la maga predisse lungo e irto di pericoli

Impigriti e infiacchiti dall’inattività,

ci fu poi imposto di riprendere il mare spiegando le vele.

Circe ci aveva detto dell’incertezza e lunghezza del percorso,

e dei pericoli che ci attendevano sul mare ostile.

Mi spaventai, lo confesso: trovata questa terra, vi rimasi”.

Macareo aveva finito. E ormai la nutrice di Enea, sepolta

in un’urna di marmo, aveva un tumulo con un breve epitaffio:

Qui riposa Caieta: il mio figlioccio, noto per la sua pietà,

sottrattami alle fiamme argive, per rito, qui mi ha cremato”.

E così Dante tratteggia la figura di Ulisse sulla base di citazioni e rimandi tratti dalla letteratura latina, rielaborando non solo i suddetti  passi ma anche altri  di Orazio e Cicerone che ne esaltavano la figura come exemplar per l’ardore di conoscenza.  Nasce così nella mente di Dante la vicenda dell’ultimo viaggio di Ulisse che rimane scolpita e indelebile nell’immaginario collettivo ed è divenuta l’emblema dell’ inesausta brama di sapere e dell’ardire dell’uomo che lo spingono a superare i propri limiti.

La metafora della vita come navigazione per mare è ripresa da due poeti del Novecento, Saba E Kafavis.

Umberto Saba Ulisse

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele 
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

Il poeta Umberto Saba nel 1948 pubblica questa splendida lirica in cui compendia la sua esistenza facendone un testamento spirituale. Il titolo, oltre ad evocare il topos della navigazione e del mare come metafora del viaggio e della vita, richiama l’Ulisse dantesco con la sua curiositas, la sete di conoscenza che lo spinge verso mete sempre nuove ed inesplorate. Il poeta nella sua giovinezza navigava alla scoperta di isolotti nella costa dalmata pieni di insidie, come lo e’ la vita, ma, giunto alla maturità non desidera un rassicurante e confortevole approdo nel porto consueto, ma il suo “non domato spirto” (come lo “spirto guerriero” foscoliano), lo induce a tornare al largo piuttosto che rinchiudersi, o peggio, accontentarsi di ciò che ha visto e conosciuto: egli vuole indagare, porsi domande, vagheggia nuove sfide e nuovi obiettivi, vuole infrangere ogni limite imposto e, più di ogni altra cosa, continua a perseguire e capire “della vita il doloroso amore”. Mai ossimoro fu più significativo ed emblematico per esprimere la continua tensione dell’uomo verso la conoscenza di se stesso nonostante la consapevolezza della sofferenza.

Analoghe tematiche vengono trattate in una famosa lirica di Kostantinos Kavafis  dal titolo Itaca ,scritta nel 1911, che parimenti paragona il cammino della vita al viaggio mitico di Ulisse verso Itaca che diviene metafora della conoscenza, ambita vetta a cui l’uomo tende. L’autore sottolinea che non si deve affrettare il precorso per giungere all’agognata meta, l’essenziale non è tanto guadagnarla velocemente quanto il viaggio per raggiungerla, i sogni, le aspirazioni di ognuno, la consapevolezza di aver faticato, lottato, conosciuto, fatto esperienze per giungervi in età matura dopo aver affrontato il percorso, talvolta burrascoso, della giovinezza. Si potrebbe pure rimanere delusi dalla nostra personale Itaca, ma l’importante è aver acquisito la coscienza di aver vissuto per uno scopo e di aver affrontato Ciclopi, Lestrigoni, l’avverso Poseidone, che sono i simboli degli ostacoli che si frappongono tra noi e Itaca, che noi dobbiamo superare senza che ai nostri occhi si ingigantiscano e diventino insormontabili. Solo al nostro arrivo avremmo cosi la possibilità di metabolizzare e rielaborare le nostre conoscenze ed esperienze che sono le sole che rendono la nostra esistenza unica e ricca spiritualmente. Solo la sapienza, pur senza beni materiali, è il solo bene che non delude mai.

Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi
o Poseidone incollerito: mai
troverai tali mostri sulla via,
se resta il tuo pensiero alto e squisita
è l’emozione che ci tocca il cuore
e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi
né Poseidone asprigno incontrerai,
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.


Fa voti che ti sia lunga la via.
E siano tanti i mattini d’estate
che ti vedano entrare (e con che gioia
allegra) in porti sconosciuti prima.
Fa scalo negli empori dei Fenici
per acquistare bella mercanzia,
madrepore e coralli, ebani e ambre,
voluttuosi aromi d’ogni sorta,
quanti più puoi voluttuosi aromi.
Recati in molte città dell’Egitto,
a imparare dai sapienti.

Itaca tieni sempre nella mente.
La tua sorte ti segna a quell’approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio
tu finalmente attracchi all’isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.

Itaca t’ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.

E se la ritrovi povera, Itaca non t’ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un’Itaca.

L’immagine di copertina è Ulisse e le sirene, di Herbet James Droper