Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

Pirandello, Ciaula scopre la luna e La carriola

La luna,  non sempre è descritta, sognata o vagheggiata dai grandi poeti, ma in questa novella è vista per la prima volta con occhi innocenti da una creatura dotata di ingenuo e primordiale candore. Nel suo finale, la vicenda suscita un’intensa commozione, la stessa che prova il protagonista. Venne pubblicata sul “Corriere della sera” nel 1912 ed inserita poi nella raccolta “Novelle per un anno”.

La novella si apre in medias res e ci introduce subito nel mondo delle zolfare siciliane, apparentemente ricorda un’ambientazione verghiana, in realtà se ne distacca per tanti elementi (che descriverò via via), il più macroscopico dei quali e’ sicuramente la tecnica narrativa che non prevede più l’eclisse dell’autore e la regressione del punto di vista. Tratto comune, invece, e’ il duro e disumano lavoro nelle gallerie della miniera ed i soprusi perpetrati a danno degli esseri più indifesi. Il protagonista e’ Ciaula, un caruso dai connotati fisici caricaturali: ha gli occhi da ebete, le gambe fini e storte, la bocca larga e sdentata, si esprime con versi simili a quelli di una cornacchia, viene considerato un essere quasi animalesco ed incapace di provare sentimenti umani, la sua età e’ indefinita, poiché si tratta di un minorato mentale , (“aveva più di trent’anni e poteva averne anche sette o settanta, scemo com’era”). Il suo picconiere, zi’ Scarda, ormai anziano e sfiancato dalla fatica, continua a lavorare nelle buie gallerie in cui aveva perso, a causa dello scoppio di una mina, il suo unico figlio che gli aveva lasciato una vedova e sette orfanelli da mantenere. Anche lui nell’esplosione aveva perduto un occhio, ma da quello buono che gli rimaneva colava di continuo una lacrima, che nel buio nero e nella fatica della galleria, era un balsamo per la sua bocca riarsa che egli stiracchiava per raccogliere il prezioso umore con una strana smorfia. Quasi come un risarcimento per l’occhio perduto e la famiglia del figlio da mantenere, l’avevano tenuto a lavorare benché attempato e scavava con alacrità profondendo tutte le sue energie quasi come se gli avessero fatto una carita’, quando viene vessato dal caposquadra, si prende la rivalsa su Ciaula, essere fragile e debole. Come tante descrizioni pirandelliane, questi personaggi risultano talmente grotteschi da suscitare quasi il riso, ma poi subentra la riflessione che genera il cosiddetto “sentimento del contrario”, per cui il comico viene superato quasi dal pianto. Una sera il sorvegliante Cacciagallina, con la pistola in pugno, ordina ai suoi lavoratori di continuare a lavorare tutta la notte per finire il carico della giornata. Mentre tutti i minatori, però, si rifiutano e tornano in paese, solo il vecchio Zi’ Scarda rimane con il suo caruso, che non ha mai visto la notte, poiché lavora dall’alba al tramonto nella miniera e la sera piomba in un sonno profondo da cui viene riscosso dalla pedata del picconiere. Ciàula è invece abituato alla scarsa luce della miniera, dove non ha paura del buio ed anzi si trova perfettamente a proprio agio come un animale nel suo ambiente naturale, o meglio, come una creatura protetta nel ventre materno.

“Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula, non aveva paura: né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in un stagno d’acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno”.

Ciaula ha paura del buio della notte dovuto ad un’esperienza tragica: quando lo scoppio nelle gallerie aveva ferito ad un occhio Zi’ Scarda e ucciso il figlio, Ciàula era scappato a nascondersi in una cavità lontano da tutti, restandovi per molte ore con la lanterna rotta. Quando a tentoni era uscito dalle gallerie deserte nella notte senza luna – quando lui si sarebbe aspettato di trovare la luce del sole, come tutti gli altri giorni – era stato sopraffatto dalla paura della notte buia. Il dover rimanere a scavare nella miniera con Zi’ Scarda diventa un motivo di angoscia per il povero Ciàula, soprattutto quando, schiacciato dal carico pesantissimo che sta trasportando sulle spalle, si avvicina all’ingresso della miniera dove sa che lo coglierà il buio terrificante della notte. In realtà, il finale è a sorpresa: Ciàula esce dalla cava e, per la prima volta, vede la Luna che rischiara ed illumina il paesaggio circostante.

“E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.”
L’esperienza di Ciaula appare dunque qualcosa di irrazionale, perché lui e’ un essere che vive un’esistenza puramente vegetativa e viene considerato privo di ogni consapevolezza. E’ evidente che a Pirandello, al contrario di Verga, non interessa mostrare una condizione sociale degradata, bensì una sorta di epifania lunare che assume il significato simbolico di una nuova nascita. La miniera rappresenta quasi un protettivo ventre materno da cui egli viene fuori attraverso il cunicolo mentre trasporta il suo oneroso carico, la vista della luna lo consola, gli cancella la stanchezza, toglie ogni paura irrazionale dalla sua grama vita. Ecco perché viene superata la visione veristica della realtà che diventa, al contrario, simbolica: le lacrime di Ciaula diventano l’emblema del riscatto di una creatura innocente e primitiva che supera la paura del misterioso buio e si immerge, nella chiarita lunare, in una rinascita e con una fusione panica, nel flusso vitale dell’universo.

L’epifania dell’io.

Mi piace sempre frugare nei ricordi e pensare a quelle pagine letterarie conosciute molti decenni fa, rimaste vive nella memoria, che mi hanno permesso di avere una prima chiave d’accesso per capire la poetica di molti autori approfonditi in maniera più compiuta col passare degli anni. Oggi quando mi ritrovo a spiegare prima ancora che ad altri, a me stessa, l’importanza e la portata di Pirandello, esordisco sempre col pensare e dire che conoscerlo e’, nella nostra vita, una rivoluzione copernicana, per usare le stesse parole dell’autore, che mette in crisi le nostre certezze, un velo di Maya alla maniera di Schopenhauer che, una volta squarciato, ci mette di fronte alla realtà e non più alla sua apparenza: per comprendere tutto ciò, si può anche partire da opere in apparenza semplici e facilmente fruibili, (come le novelle), che comunque sono in grado di palesare la complessa poetica che vi e’ racchiusa. Chissà se qualche volta ognuno di noi si e’ sentito “forestiere della propria vita”, ha capito il gioco beffardo del destino, ha acquisito cioè la percezione di non essere come gli altri ci vedono, mentre, sornione, osserva dibattersi i propri simili nella loro trappola sociale, chissà se ci siamo sentiti addosso scomode etichette e categorie imposte dalle convenzioni, se abbiamo vissuto in modo marginale occultando le nostre autentiche e intrinseche pulsioni vitali, se abbiamo desiderato uscire dalla nostra vita che riconosciamo come un’enorme pupazzata che ci aliena da noi stessi. Ecco, Pirandello vuole offrirci questa consapevolezza, ma, non è facile ottenerla se non in momenti di follia che diventano strumenti conoscitivi in cui si acquista la percezione dell’inconsistenza della forma che cristallizza la nostra vera essenza e la sottrae al flusso vitale dell’esistenza. Una delle tante novelle che può essere paradigmatica e’ “La carriola” che appartiene al volume 13 del 1928. 
Anche questa si apre in medias res; il protagonista, un uomo, stimato professore di diritto, noto avvocato dalla vita piena e convulsa, guarda una fantomatica lei che lo osserva con aria stupita ed e’ custode di un atto segreto che viene reiterato giornalmente, ma non ci viene rivelato. Un giorno mentre egli rientra in treno da un viaggio di lavoro a Perugia, medita di esaminare delle carte, ma all’improvviso il suo sguardo si perde nel vuoto:

“Non pensavo a ciò che vedevo e non pensai più a nulla : restai, per un tempo incalcolabile, come in una sospensione vaga e strana, ma pur chiara e placida. Ariosa. Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichìo d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza ; d’una vita remota, che forse era stata sua, non sapeva come né quando ; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d’atti, non d’aspetti, ma quasi di desiderii prima svaniti che sorti ; con una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto sbocciare ; il brulichìo, insomma, di una vita che era da vivere, là lontano lontano, donde accennava con palpiti e guizzi di luce ; e non era nata ; nella quale esso, lo spirito, allora sì, ah, tutto intero e pieno si sarebbe ritrovato ; anche per soffrire, non per godere soltanto, ma di sofferenze veramente sue.”
Perso in queste riflessioni, si addormenta, fino all’arrivo in stazione. Giunto a casa, vede la targa d’ottone in cui sono incisi il suo nome ed i titoli accademici ed ha un’improvvisa epifania, iniziata in treno, in cui gli appare ancora più chiaro che quella persona lì descritta, che abita quella casa, con quella moglie, con quei figli, è solo una forma, uno status sociale per cui si e’ tanto affannato e che invece non è che la morte dell’io, la sua trappola.

“Il mio caso è anche peggiore. Io vedo non ciò che di me è morto ; vedo che non sono mai stato vivo, vedo la forma che gli altri, non io, mi hanno data, e sento che in questa forma la mia vita, una mia vera vita, non c’è stata mai. Mi hanno preso come una materia qualunque, hanno preso un cervello, un’anima, muscoli, nervi, carne, e li hanno impastati e foggiati a piacer loro, perché compissero un lavoro, facessero atti, obbedissero a obblighi, in cui io mi cerco e non mi trovo. E grido, l’anima mia grida dentro questa forma morta che mai non è stata mia : – Ma come ? io , questo ? io, così ? ma quando mai ? – E ho nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono stato mai io ; di questa forma morta, in cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare.”

Questa e’ l’amara certezza del nostro protagonista, non potersi ribellare a questa forma imposta dalla società, ma gli resta un attimo di follia per farlo. Entrando in casa vede una sua vecchia cagnetta che da 11 anni vive con la sua famiglia, che si rifugia nel suo studio perché non vuole essere molestata dai giochi dei ragazzi. Sarà lei l’oggetto del suo momento di pazzia…
“Non le faccio male ; non le faccio nulla. Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno s’accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto e d’avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone ; e in punta di piedi mi reco all’uscio a spiare nel corridoio, se qualcuno non sopravvenga ; chiudo l’uscio a chiave, per un momentino solo ; gli occhi mi sfavillano di gioia, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, d’uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia ; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto ; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola : le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non più, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro. Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere – ripeto – che non è nulla ; che stia tranquilla, che non mi guardi così. Comprende la bestia, la terribilità dell’atto che compio. Non sarebbe nulla, se per ischerzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa ch’io non posso scherzare ; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo ; e sèguita maledettamente a guardarmi, atterrita.”

Ecco quindi, in una struttura circolare, la novella si chiude e scopriamo che la “lei” che osserva stupita il nostro uomo non è l’amante bensì la cagnetta, che diviene il suo strumento di evasione e di follia con quell’insignificante gioco della carriola. Pirandello ci tiene con il fiato sospeso facendoci credere che il serioso avvocato nasconda chissà quale segreto o perversione ed applica il suo consueto procedimento umoristico che inizialmente quasi suscita il riso ma poi fa subentrare in noi la riflessione per la nostra condizione di prigionieri che hanno bisogno di una fuga dalla realtà. Solo “sdoppiandosi” il protagonista si vede vivere e comprende di non aver mai vissuto: separando lo spirito dal corpo finalmente vede oltre le apparenze e capisce che la forma, ovvero fissità e convenzione, ha sempre sopraffatto il flusso naturale della vita, che e’ invece spontaneità ed azione.