Brunella Sacchetti nasce ad Avellino; frequenta il Liceo Classico cittadino e poi l’Università degli studi di Napoli ”Federico II” presso la facoltà di Lettere e Filosofia, dove si laurea nel 1975 in Filosofia con una tesi sul “Pragmatismo di Giovanni Vailati”, esponente del circolo di Peano; orienta la sua attività didattica verso i Licei Scientifici e poi Classici, nei quali insegna Italiano e Latino. Nell’ambito delle attività scolastiche, si è attivata a lungo a promuovere negli studenti una formazione aperta alla comprensione del Teatro Classico e Contemporaneo; in particolare ha ottenuto di poter mettere in scena a Siracusa, nell’ambito delle iniziative dell’INDA ( Istituto Nazionale del Dramma Antico) un paio di adattamenti teatrali, da lei curati: uno sull’Alcesti di Euripide con innesti dell ‘Alcesti di Marguerite Yourcenar, un altro su “La morte della Pizia”di Friedrich Dürrenmatt. Ha curato ricerche archeologiche legate al territorio irpino, pubblicando “Quaderni di Archeologia”. Gli interessi più forti si sono andati, poi, concentrando sulla poesia contemporanea; in particolare si interessa a poeti meridionali e irpini a cui ha dedicato diversi contributi, sia pubblicati in antologie specifiche, sia esplicitati in convegni e conferenze. Attualmente sta curando per “Lottavo” una rubrica di “Cinema e Storia”, rivolta al decennio del ’68.

Rassegna letteraria del ‘900

    Brunella Sacchetti

Ho provato a scrivere il Paradiso/ Non ti muovere,/ Lascia parlare il vento/ Così è Paradiso/ Lascia che gli Dei perdonino quel che/ Ho costruito /Chi ho amato cerchi di perdonare/Quello che ho costruito

(Drafts & Fragmnets)

EZRA POUND: LA POESIA EPICA DEL ‘900

Pound, Ginsberg, Bach e altre Muse

“La musica imputridisce se si separa troppo dalla danza. La poesia isterilisce se s’allontana troppo dalla musica.” ( Ezra Pound,  da “L’ABC del leggere”, 1934; Garzanti, 1974).

Per Pound la poesia e la musica non erano solo forme affini per la capacità che hanno entrambe di esprimersi nel ritmo, ma erano un unicum artistico che solo a causa della sequela di disastrose perdite e sconfitte nella storia dell’occidente si erano distinte e differenziate al punto da risultare forme espressive diverse, se non contrapposte; la melopea degli antichi lirici greci e quella dei trovadori provenzali hanno, infatti, costituito, per il Poeta americano, il sistema di riferimento di ogni produzione poetica; nel saggio da cui abbiamo tratta la precedente citazione, Pound dice : “Il «miglior fabbro», che è Arnaut Daniel, secondo la formula di Dante, fece cantare gli uccelli nei suoi versi; e non intendo dire che parlava di uccelli che cantavano. Così ( avviene) nella canzone che comincia  «Fals bruoills brancutz…».   E si pensi che Thomas S. Eliot dedica  “La terra desolata” a Pound, definendolo appunto “Il miglior fabbro”; d’altra parte il Poeta gli aveva rivisto e corretto l’opera e Eliot lo omaggia con il riferimento al rimatore provenzale, secondo l’espressione che Dante utilizza nel XXVI del Purgatorio; si tratta, è evidente, di una sofisticata “koinè” di poeti che si scelgono e si riconoscono nelle forme poetiche a loro congeniali.

E congeniale era la melopea , per Pound che, sempre nell’  ”ABC del leggere” asserisce che proprio non esiste un poeta nel quale si possa trovare tutto ( tutta la poesia), come Bach per la musica”; per poter leggere i “Cantos”, dunque, occorre partire dalla forza della musica della poesia e tener presente che Pound non era meno impegnato nella musica di quanto lo fosse nella Poesia: ha scritto, tra le altre opere, il melodramma “Le Testament”, tratto dai versi di François Villon, eseguito in forma concertistica nel 1926 e in forma di balletto, nel 1964, al Festival dei Due Mondi di Spoleto per iniziativa di Gian Carlo Menotti.   Dal 1962 Olga Rudge, la sua ultima compagna, si prese cura di Pound a Venezia e a Rapallo: era una musicista, violinista e concertista famosa, la cui costante presenza, ampiamente documentata fotograficamente attraverso le calli veneziane, rimarcava ulteriormente il senso dell’indissolubile binomio di poesia e musica che il poeta cercava.   

 A tal proposito si guardi a quanto Pound  sostiene nel  “ Trattato d’armonia”, che Pound scrisse nel ’24:  «Un suono di qualsiasi altezza, o qualsiasi combinazione di tali suoni, può essere seguito da un suono di qualsiasi altra altezza, o qualsiasi altra combinazione di tali suoni, a patto che l’intervallo di tempo tra di loro sia adeguatamente calibrato; e questo è vero per qualsiasi serie di suoni, accordi o arpeggi». Pound, dunque, cerca una forma di tempo che abbia ricadute precise  sull’armonia, un’armonia dinamica e non immobile, non  una comune successione di accordi, ma un  movimento alterno e sghembo di suoni; sicchè non è certo difficile scorgere similitudini con la grande musica barocca di Johann Sebastian Bach, dove trova la sua più grande espressione l’uso del contrappunto attraverso l’utilizzo del clavicembalo.

Pound usa, di fatto, proprio il contrappunto nei suoi versi complessi e spezzati,sperimentali, ma antichi, con cui sfiora la perfetta opposizione armonica tra suoni diversi e contrapposti: non la melodia, dunque, ma l’armonia, cercava Ezra Pound, sia nelle difficilissime opere musicali da lui composte, sia nei Cantos : si avverte anche così l’appartenenza dell’artista ad un passato del quale si fa audacemente assertore ed esploratore.

Eppure la contemporaneità, quella degli anni ’60, quella della beat generation, lo scrutava, lo osservava e, forse, lo capiva; si pensi che Allen Ginsberg lo aspettava, nascosto tra le stradine veneziane, cercandolo affannosamente: il principale poeta di quella generazione sentiva nel vecchio e debole, e oltremodo discusso, Pound, il maestro dell’armonia che nasce dalle pause e dal silenzio armonioso. Nel 1951 Ezra Pound era stato confinato nel reparto psichiatrico del St. Elizabeth’s Hospital di Washington. Anni prima, Pound era stato arrestato per tradimento, ma la probabile condanna a morte era stata commutata in detenzione nel manicomio. Trascorse oltre dodici anni a St. Elizabeth’s e il giovane Allen Ginsberg, approfittando dell’immobilità del poeta più anziano, gli scrisse numerose lettere per chiedere consiglio e suggerimenti sulla sua poesia. Pound non rispose mai a Ginsberg durante il periodo trascorso in ospedale, ma lo incontrò quando ritornò libero, in Italia. Ginsberg gli chiedeva con insistenza “il sistema”, cioè la chiave di volta della Poesia, riconoscendo, così, ad Ezra l’autorevolezza straordinaria e l’eccellenza fuori dal tempo; quando i due si incontrarono, infine ( siamo nel 1967), Ginsberg fece ascoltare a Pound i Beatles (!) e il vecchio Poeta , innamorato di Bach e promotore, in Italia, del culto dell’opera di Antonio Vivaldi, portava il ritmo con il suo bastone: si incontrarono in quel momento l’urlo di Ginsberg e il silenzio di Pound… era l’eterno raffinato gioco del contrappunto; sarà per questo che è possibile cercare qualcosa di Pound in un brano famosissimo dei Jethro Tull, Bourée, (ASCOLTO) un brano strumentale del 1969, presente nell’album Stand Up; si tratta di un  riarrangiamento di Ian Anderson della Suite per liuto n°1 BBWV 996di J.S. Bach. (ASCOLTO)

La cover di Stand up dei Jethro Tull

Bourée è sicuramente uno dei pezzi più famosi della band, uno di quei brani scolpiti nella memoria acustica di diverse generazioni;  è un pezzo strumentale e dominato esclusivamente da due strumenti: il flauto traverso e il basso.  Johann Sebastian Bach era uno dei compositori preferiti da Pound, e anche da Ian Anderson, e Bourèe è una danza:“La musica imputridisce se si separa troppo dalla danza. La poesia isterilisce se s’allontana troppo dalla musica.”

Dai “Canti Pisani”, il Canto LXXVI

Dei dodici “Canti pisani”, considerati l’apice della produzione poundiana, si può proporre, forse…, la lettura di uno solo di essi : Pound si deve leggere in dosi piccole, circoscritte, perché la varietà dei temi presenti in uno solo dei suoi canti è tale e tanta che ogni approccio più articolato e vasto risulterebbe inconcludente, se non sleale, nei confronti di un poeta che, in maniera manifesta, lavora sulla musicalità dei singoli suoni; sarebbe come voler capire Dante lavorando per macrosintesi in relazione alle sue cantiche, laddove è necessario attenersi ai singoli endecasillabi, meglio ancora alle due metà metriche di ognuno di essi.

E, per altro, è evidente che Ezra Pound da Dante ha mutuato proprio quella particolare forme di complessità densa di cui, ovviamente , parleremo man mano; lo si evince, per altro,  dalla definizione di “Canto” che è fortemente dantesca, nonché leopardiana. Il canto di Pound, di cui  ci sforzeremo di dare una sofferta interpretazione, è il canto LXXVI, del quale è impossibile non rilevare la voluta alternanza di passi lirico-elegiaci e di passi di ispirazione storico-politica, meglio ancora storico-economica; e non si pensi che si tratta di una mancanza di organicità ideativa, così come non lo è ne “La ginestra” di Leopardi ( dove le lunghe strofe sono ora straordinariamente descrittive ora concettuali e allusive al contesto degli quegli anni), né in tutta la “Commedia” dantesca, dove critici come Croce, per altro indiscutibilmente uno dei brillanti intellettuali del ‘900, forzando la lezione desanctisiana, hanno voluto vedere l’alternarsi della poesia con la non-poesia; in questi casi ci si dimentica che la Poesia è un’operazione complessa che scaturisce sempre dalla contemporaneità e dalla Storia in genere, e che è sempre in relazione con quante accade intorno, e che il Poeta, come tutti gli artisti, non vive di abbandono estatico, ma è impegnato concettualmente nel cercare risposte adeguate alle grandi istanze umane. E’ per questo che ogni lettura va sviluppata sia nell’avvertimento della sensorialità del testo, sia nella rubricazione di ogni elemento che riporti agli anni in cui il poeta scrive; certo non si tratta di un gioco ermeneutico di giustapposizione dei diversi elementi, ma di uno sforzo mirato a cogliere la totalità dell’ispirazione, senza forzature storicistiche, né sprechi filologici.

Ritornando al Canto LXXVI è necessaria una prima attenta lettura dei 200 versi che lo compongono, così come per i Canti di Dante, per i quali la prima lettura è necessariamente unitaria e va riportata sempre anche ai canti precedenti e successivi; in questo tipo di approccio è insito un evidente rispetto della volontà dell’auctor che ci accompagna in una situazione di tipo sincretico, spesso segnalata da circolarità argomentativa; in questo caso la circolarità non è palese ( ma Pound non si sforza di essere “palese”, anche se dice spesso di avere come obiettivo la chiarezza!);    eppure si guardi ai primi versi :

“Il sole nubifero alto sull’orizzonte/ di zafferano accese la corona di nubi/ dove sta memora.// il suo sistema politico, l’annienteranno, disse la signora/ Agresti/, ma quello economico, no.”………….

Gli ultimi versi recitano così:

“…guai a chi conquista con le armate/ cui unico diritto è il potere.”

Dobbiamo, ovviamente, tener presente che Ezra era stato catturato il 3 maggio 1945 dai partigiani e affidato alle truppe americane che lo misero, ad Arena Metato, vicino Pisa, in una gabbia all’aperto, esposto al sole, o alla pioggia, di giorno, e a dei grossi, abbaglianti fari di notte; dopo tre settimane lo trovarono privo di sensi ( Pound era del 1885 e, dunque era già un sessantenne ) e lo trasportarono in infermeria dove ebbe il permesso di scrivere; nacquero qui i “Canti Pisani”, ma erano, però, il frutto dell’ispirazione delineatasi dalla “gabbia” durante quelle tre settimane: si osservi, a questo punto, di nuovo, “il sole nubifero” e “la corona di nubi” accesa “di zafferano”, ne coglieremo ora la livida e tormentosa luminosità; ma si osservi, inoltre, anche l’espressione di una imprecisata signora Agresti che,  riferendosi probabilmente a Mussolini,  dice che non si potrà annientare il suo sistema economico e la si colleghi alla chiusura del Canto, dove compare una sorta di massima universale, dalle risonanze bibliche , nella quale il “guai” in incipit, indubbiamente dantesco, fa percepire tutto il disprezzo di Pound verso il diritto delle sole armi  ed il preciso interesse per una politica economica,  che lui avrebbe voluta fondata sul diritto ad un sano benessere dei cittadini, con una sorta di  sintesi di collettivismo e liberalismo, nonché con riferimenti espliciti al mondo del corporativismo medievale. Certo si tratta della distopia di un intellettuale che è soprattutto artista e non economicista, ma si tratta, pur sempre, di un pensiero forte e ingenuo  per il quale Pound ha pagato un prezzo davvero notevole.

Il poeta in gabbia a Metato

Intanto  il Canto LXXVI è uno dei canti pisani che meglio spiega la complessa natura del Fascismo, o pseudo tale, di Pound: americano fin nel midollo, patriota anche nelle preferenze poetiche ( si pensi al suo sentire alla Whitman ( di cui, con l’età, riprende anche il mood estetico-iconografico della barba bianca), ma  un americano anti-capitalista e che non è, però, marxista ( cosa che gli avrebbe assicurato un posto di riguardo nella caccia alle streghe di quegli anni); invece Ezra era anticapitalista in maniera diversa, al punto da capitare, come dicevamo, negli anfratti più tortuosi di un poco credibile corporativismo, dove il lavoro è inteso non come merce, ma come espressione spirituale: la cosa appariva bizzarra, dunque, agli occhi dell’America, e non facilmente ascrivibile alle categorie chiare dei nemici: non tutto il fascismo, inoltre, ahimè!, era da considerarsi nemico, o almeno non a tutto il mondo americano: nemico era, invece, ciò che risultava estraneo ed incomprensibile; fu, così, che Ezra passò dalla gabbia al manicomio criminale vicino Washington, dove sostò per ben 13 anni… era pazzo, dunque, non capitalista nè marxista e, dei nemici nazi-fascisti, sosteneva l’argomentazione più stramba, quella corporativistica, che l’America considerava particolarmente illiberale, economicamente schizofrenica…

Nel canto LXXVI tutto questo è già scritto e, quando Pound fu liberato dal suo lungo carcere, se ne tornò perciò in Italia, dove pure chi era stato fascista non era più tanto gradito, ma dove, però era possibile, forse, sopravvivere inosservato; il poeta tornò per un periodo a Rapallo e poi nella sua Venezia, dove era stato felice, e vi morì il 1 novembre 1972 : è sepolto sull’isola di San Michele in una tomba su cui si legge solo il suo nome, senza date e senza citazione di luoghi di nascita e di morte; anche nella tomba Pound volava fuori dallo spazio-tempo in un secolo, come il ‘900, che aveva metabolizzato lo spazio-tempo non in termini einsteiniani, ma come uno  scandalo cognitivo a cui crocifiggere i dissidenti.

E nel LXXVI Pound è particolarmente  fuori dallo spazio-tempo: certo sappiamo che si trova a Pisa, ma “memora”, divinità citata al terzo verso, lo sospinge in un viaggio tra il mito e la storia; compaiono ninfe oceanine e driadi assimilate dalla botanica  a forme di piante e fiori; compaiono clivi e ulivi e il sole nel suo intero  periplo; e compare Sigismondo Malatesta, con il corredo della sua gloriosa fama militare e del suo straordinario mecenatismo; intanto Pisa si slarga e diviene evanescente e, dopo le evocate e suggestive immagini del riminese tempio malatestiano, Ezra si sposta a Parigi, Nizza, Rapallo, Pietroburgo, Londra. I luoghi sono spazi dell’immaginazione e della memoria, dove il poeta ha assunto esperienze ed emozioni: gli ideogrammi cinesi indicanti la ”Parola” e la “Perfezione” veicolano, a loro volta, l’immagine di Confucio e del grande antico Oriente, così da poter affermare: “nessuno può dar di meglio a una nazione/ del senso di Confucio/ chiamato Chung Ni… del progesso, me ne f…”; e con Confucio entrano in scena Cocteau e il picaresco Don Fulano, il pistolero Burnes e l’America dei presidenti.. e poi un forte, ma breve acquazzone

riporta Ezra a Sirmione sul Garda e all’incontro con Joyce :” Jim (Joyce) venerava i tuoni e il “Gardasee magnifico”. E poi  c’è ancora Venezia, il Canal Grande, le sue chiese , Santa Maria dei Miracoli, il dipinto di san Giorgio e le volte d’oro di san Marco…Al centro di questa complessa dimensione di luoghi, lontani tra loro nello spazio e nel tempo, c’è un elemento agglutinante, il Mito; in questo caso, al di là del corteo delle ninfe,  nel punto di snodo del canto, dopo poco più di cento versi, Anchise e Cithera potens, libidinis espers, si uniscono in un amplesso amoroso: Anchise “strinse fianchi d’aria/tirandola a sé…non nuvola, ma corpo cristallino/ a contatto nel palmo della mano/ come vento vivo nel faggeto/ come aria forte tra i cipressi…”

Sono i versi che spiegano il canto tutto:  Anchise, l’uomo della Storia, da cui il troiano Enea,e , dunque, Roma e tutto l’occidente, incontra Afrodite ciprigna, la stringe e l’accoglie come folata di vento, ne sugge il divino che resterà nei lombi di Enea e darà adito al mondo della gloria e delle meraviglie artstiche…”me ne fotto del progresso”, dice Ezra.   E mentre scompare la prigione pisana, le sbarre, l’urlo dei vincitori (per “cui unico diritto è il potere”), tra le lacrime  (δαkρύων, δαkρύων, piangendo, piangendo, ripete il poeta), lacrime mescolate ad articolate dissociazioni di luoghi e tempi, si erge un ordine inattaccabile, quello universale del bello che si  fa storia, ardore ed eterna luce, che abbaglia e avvolge le menti; la natura e l’arte si mescolano in forme tanto imprendibili  e  fugaci, quanto vorticosamente captanti. 

E il “vorticismo”, insieme all’”imagismo”, sono, d’altra parte, le possibili definizioni riferite all’Arte di Pound: estreme formulazioni di proposte d’avanguardia post-simbolista, trovano nel Poeta americano sicuramente un qualche riscontro, soprattutto sei si pensa al gioco “vorticoso” di luoghi, spazi, figure e monumenti a cui abbiamo cercato di far riferimento; ma in Ezra Pound nulla è concettualmente precostituito e le fonti artistiche di cui si nutre risultano poi elaborate , distrutte, ricreate…anche quelle che godevano in lui di un’indiscussa suprema perfezione; si pensi alla cultura greca e a quella provenzale, allo stilnovo dell’amatissimo Cavalcanti e al Padre Dante…tutto è metabolizzato e ricreato. D’altra parte l’incantesimo che emana da questi nomi defluisce in una contemporaneità distorta e caotica: Pound risente del vuoto concettuale che la Storia ha delineato, un vuoto che contrasta dolorosamente con l’ordine magnifico di età esiodea , omerica, lucreziana, ovidiana e dantesca: si tratta di un vuoto caotico nel quale il suo verso ora si estende e ora si accorcia, senza alcun motivo, se non quello di una musica che solo il poeta e i suoi lettori più sensibili possono avvertire, secondo un contrappunto che solo un antico clavicembalo saprebbe riprodurre. E mentre Pound ripete la sua estraneità al progresso e alla scarnificazione che il Mondo ha da esso  subito, si staglia da un passato che è eternità, l’Amore di Anchise e Venere, mentre in un angolino di questo dipinto botticelliano, compare (splendido esempio di terzo stile pompeiano) un “balestruccio dal petto bianco”, al di fuori di ogni possibile gabbia.

Affresco “ terzo stile”- Ninfeo della Villa di Livia, Prima Porta, Roma

Un tentativo di contestualizzazione

L’Epica, la grande Poesia che spiegava la Storia, era finita da tempo, quando Pound scriveva; sicuramente era già un ricordo evanescente anche quando Cervantes ne aveva, con il suo grande romanzo, mostrato la non plausibilità dopo la scoperta del nuovo mondo e delle nuove economie; l’Epica, da Omero a Dante, aveva come dicevamo, “spiegato” la Storia, ma come un veliero “spiega”  le sue vele e parte, poi, verso mondi lontani e affascinanti, sfiora lidi sconosciuti, esplora terre nuove e incantevoli, abitate da ninfe e divinità naturali; quindi ritorna, forse, seguendo la pulsione motoria del nostos, riportando in patria ciò che è stato conosciuto e scoperto; per secoli la letteratura ha consacrato la superiorità dell’Epica che ha accompagnato l’Uomo nella conoscenza su  pericolosi sentieri, dove era possibile trovare l’ostilità divina o la forza di aiuti inaspettati, nonché amicizie e amori, e conoscenze imprevedute e imprevedibili. Ovviamente il Copernicanesimo ha vanificato lo sforzo rappresentativo dell’Epica: la Terra con Copernico e Galileo  ha  acquisito un volto definito, sul quale la Storia ha potuto ormai scrivere le sue indiscutibili verità, circoscrivendo il Mito a dimensioni del tutto laterali, quelle di un’immaginazione che spesso è risultata comico-farsesca, o, comunque,quasi sempre inutile, vana, patetica.

Ma Pound, nel primo de “I Cantos” scrive:

Poi scendemmo alla nave,/E la chiglia tagliò il mare divo,/Drizzammo l’albero e le vele della nave negra,/A bordo portammo pecore e i corpi nostri/Carchi di lacrime, e il vento in poppa/ Ci avviò con panciute vele,/Di Circe beneamata arte fu questa.”…

E’ l’incipit di un Poema epico, indiscutibilmente… A suo padre, Ezra aveva, infatti, scritto negli anni della prima guerra mondiale, che intendeva comporre un “big long endless poem”; poi, nel corso della sua difficile esistenza, scrisse 120 canti, 20 più di Dante, e comunque un numero notevolissimo di versi. La dimensione, la misura, è certamente quella dell’Epica; e dell’Epica i Canti poundiani  posseggono anche la complessità culturale, il livello discorsivo alto e anche criptico, nonché, come già più volte notato, la componente mitopoietica.

Cosa, dunque, rende l’epica di Pound una non-epica?

Il ‘900 ha celebrato a suo modo l’Epica; si pensi che Andrea Zanzotto aveva proposto a molti poeti di tradurre insieme l’Eneide virgiliana:  un libro a Caproni, uno a Fortini, uno a Sereni , uno a Sanguineti e uno a Pasolini… si tratta di un’ulteriore riprova che l’Epica era ormai solo un’occasione privilegiata e straordinaria per misurarsi con il passato, una sorta di Messa in requiem del passato e dell’Epica stessa; non mancano inoltre, poeti contemporanei che scelgono eroi epici per spiegare i personali conflitti, anche quelli interiori: come fa  Valerio Magrelli, che in” Geologia di un padre” ricorre ad un «Anchise a rotelle con un Enea ortopedico» per spiegare il proprio complesso rapporto con il padre malato. Ma si tratta,appunto di un voler riconoscere all’Epica una posizione di autorevolezza esplicativa di fronte all’ormai conclusa forza narrativa; tutto ciò non può essere spiegato neanche dall’eccellente lezione di Michail Bachtin a proposito della contrapposizione del Romanzo moderno al poema epico: un genere non distrugge un altro genere per affermarsi…

Ciò che potremmo, forse, invocare per capire quanto Pound sia stato un “laudator temporis acti” anche nella scelta coraggiosa di una simile tipologia espositiva della sua poesia, ha a che vedere con qualcosa che va oltre la quaestio dei generi letterari, anche se, forse, li sfiora sul piano filologico.  Proviamo ad osservare la dimensione del metro: nel ‘900, e in Pound, non ci sono gli esametri quantitativi e neanche  gli endecasillabi danteschi, convogliati nelle terzine rinterzate; l’Epica umanistico-rinascimentale, l’ultima epica, cioè, è caratterizzata  dall’ottava, con le sue rime corposamente sonore e convergenti: le ottave, infatti, chiudono i discorsi e le storie e non aprono ad un percorso unitario e mitico, non introducono un ordine strutturato dal percorso ad infinitum, come avviene da Omero a Dante. La metrica ci rivela, dunque,un problema: non c’è più spazio per la dimensione unitaria; si pensi che nel duello di Achille e Ettore, i due nemici esprimono lo stesso identico sistema di valori; il mediterraneo omerico era un luogo di somiglianze etiche e gli eroi cercavano le stesse comuni certezze. Nei secoli, poi, la frammentazione dei principi statutari del pensiero ha condotto l’Arte e la Cultura a forme di contrapposizioni concettuali di tipo entropico, a cui abbiamo dato nome di “relativismo”… ma nessun eroe lotta per ciò che altri non riconoscono e il relativismo e il caos non sono terreni possibili dell’Epos, sono basi sdrucciolevoli e scheggiate; si pensi ad  Elena, che è bella e agognata da tutti, indistintamente,  e si pensi alla città di Troia che non era, ma poteva a buon diritto essere, la Patria di Achille stesso.

Come possono i Cantos di Pound raccontare storie di sofferte lacerazioni tra individui che non pensano allo stesso modo? Che non hanno gli stessi sistemi valoriali?  Anche il pensare stesso è frantumato, sgranato, episodico e agglutinato alla sola idea hegeliana; e se Apollo è un pallido ricordo socratico, Dioniso esalta un divino entusiasmo del caos primigenio, quello della tragedia, forse l’ultimo elemento del mondo antico che sopravvive, perché è nella Storia, anzi!, è la stessa Storia: solo a tratti, in essa, è ancora visibile un lontano senso di eleganza umana e naturale; Mary de Rachewiltz, figlia di Ezra e di Olga Rudge, saggista e poetessa,  ha scritto un ebook intitolato “Ho cercato di scrivere il Paradiso”, dove racconta gli sforzi di suo padre negli ultimi anni della sua vita per approdare ad un Paradiso letterario, totalmente assente nei 120 Cantos.

E’ anche per questo che si potrebbe ipotizzare che l’opera di Pound, dal forte anelito epico, è tuttavia, priva di un elemento indispensabile, il “lieto fine”,  l’esito significativo che renda credibile, e non vano, l’impegno dell’uomo e del poeta: Dante, che è la cifra di tutti gli sforzi poundiani, come è stato più volte asserito da Montale , non abita più tra noi; manca, per avere Dante ancora tra noi, lo spazio concettuale delle certezze che rendono credibili ed affrontabili le vicissitudini di un artista; l’esilio o il carcere risultano punizioni insensate, gratuite, prive di recupero, e il Poeta soffre l’isolamento in quanto tale; può il Poeta evocare la bellezza e la perfezione, la leggiadria della natura e l’enfasi di opere meravigliose, ma il suo cammino non uscirà dalla selva e  il suo purgatorio attraverserà “a lume spento” percorsi critici ostili e giudizi demolitori.

Resta il gioco possibile della melopea e del “contrappunto: la nuova storia si contrappone al “cantus firmus” del Mito e l’innocenza e la speranza nel passato  cercano disperatamente il perdono.

Brunella Sacchetti