Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

Dante, nel terzo girone del settimo cerchio, nell’oscurità di un sabbione rovente, in cui sono puniti pederasti e sodomiti, costretti ad errare sotto una pioggia di fuoco, viene avvicinato da un’anima che gli afferra un lembo della veste ed esprime la sua meraviglia: e’ Brunetto Latini, il suo amato maestro da lui subito riconosciuto nonostante il “cotto aspetto” e chiamato per nome con grande affetto:


“Siete voi qui, ser Brunetto”? 


parole, queste, che sottintendono lo stupore di Dante nel vedere, in un luogo tanto turpe, il suo illustre maestro che si e’ macchiato di un peccato infamante nella sua umana debolezza, in netto contrasto, tuttavia, con il suo eccelso ingegno e la sua statura intellettuale. Subito emerge la stima paterna di Brunetto che si rivolge a Dante chiamandolo per ben due volte “figliuolo mio” e dicendogli di non potersi fermare per evitare la punizione di stare sdraiato per cento anni senza potersi riparare neppure con le mani dall’ignea pluvia; procedono perciò insieme senza arrestarsi e, contemporaneamente gli chiede come mai, pur essendo ancora vivo sia li’ e chi sia la sua guida.
Dante gli spiega che giusto il giorno prima si era smarrito in una valle e Virgilio, col suo soccorso, lo avrebbe ricondotto a casa cioè sulla retta via, in primis, attraverso l’arduo cammino infernale. Brunetto si rammarica per il fatto di essere morto prematuramente senza averlo potuto aiutare nella sua opera ma, secondo quanto appurato nella vita terrena, Dante avrebbe ottenuto la sua gloria perché nato in una posizione astrale favorevole (l’astrologia medievale riteneva che chi era nato sotto il segno dei gemelli come Dante, avesse la predisposizione per gli studi letterari).
A questo punto, Brunetto fa a Dante una profezia, come le altre che Dante riceve, non chiaramente esplicita:

“Ma quell’ingrato popolo maligno
Che discese da Fiesole ab antico,
E tiene ancora del monte e del macigno,
Ti si farà per tuo ben far, nimico;
Ed e’ ragion, che tra li lazzi sorbi
Si disconvien fruttar al dolce fico”.

Quell’ingrato popolo e malvagio popolo fiorentino, che discende da Fiesole (Dante accoglie la leggenda secondo cui Firenze sarebbe stata fondata dai Romani dopo la distruzione di Fiesole avvenuta per punizione dopo che Catilina l’ aveva fatta ribellare a Roma), e mantiene ancora la durezza e la selvatichezza dei montanari, ti si farà nemico per il tuo onesto operare; ma e’ giusto che sia così poiché al dolce fico non si addice dare i suoi frutti in mezzo ai sorbi acidi.

“Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
Gent’e’ avara, invidiosa e superba: 
Dai loro costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,
Che l’una parte e l’altra avranno fame
Di te; ma lungi fia dal becco l’erba.
Faccian le bestie fiesolane strame
Di lor medesme, e non tocchin la pianta,
S’alcuna surge ancora in letame,
In cui riviva la semenza santa 
Di quei Roman che vi rimaser quando
Fu fatto il nido di malizia tanta.”

Un antico proverbio li chiama ciechi: e’ un popolo avaro, invidioso e superbo: fai in modo di poterti tenere pulito dalle loro abitudini.la tua sorte ti riserva tanto onore, che sia i Guelfi bianchi che quelli neri vorranno divorarti, ma l’erba rimarrà lontano dal caprone. I bestiali fiorentini si mangino tra di loro e non tocchino i discendenti, se qualcuno ancora nasce, in mezzo al loro letame, in cui possa rivivere il sacro seme dei Romani che rimasero quando fu fondata Firenze, covo di tanta malvagità.

Il discorso e’ reso incisivo dalla presenza del campo semantico del cibo, volto perciò ad evidenziare i comportamenti istintivi e bassi dei fiorentini. Dalle parole di Brunetto inoltre emerge la concezione di Dante secondo cui la componente malvagia dei fiorentini ha origine dai rustici fiesolani e quella buona e nobile deriva dai Romani.

A questo punto Dante, ricambiando l’affetto del maestro, inteso come colui che gli ha trasmesso non meri insegnamenti scolastici e dottrinali ma una serie di valori morali, culturali e civili, gli risponde:

” se fosse tutto pieno il mio dimando,
Voi non sareste ancora 
Dell’umana natura posto in bando;
Che’ nella mente m’e’ fitta, e or m’accora,
La cara e buona immagine paterna 
Di voi quando nel mondo ad ora ad ora
M’insegnavate come l’om s’etterna:
E quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
Convien che nella mia lingua si scerna”.

Se fosse esaudito il mio desiderio, dice Dante, voi non sareste ancora bandito dalla vita terrena; poiché mi e’ impressa nella memoria e mi addolora, la cara e buona immagine paterna di voi, quando mi insegnavate come l’uomo si renda eterno attraverso opere buone e virtuose: e quanto io l’abbia caro, finché vivrò si riconoscerà nelle mie parole.

Si avverte in questo discorso tutta la riconoscenza di Dante nei confronti appunto, di un maestro di vita, che gli ha trasmesso non valori effimeri legati alla materialità come il successo ed il denaro, ma quelli nobili, svincolati da interessi, puri ed elevati, ovvero la fama imperitura presso i posteri generata da un corretto agire: tutto questo racchiuso in poche parole cioè “come l’uom s’etterna”. 
A questo punto Dante si dichiara pronto ad affrontare la sorte, a conservare nella memoria questa profezia insieme con l’altra ricevuta da Farinata, che saranno spiegate e chiarite da Beatrice, quando egli giungerà da lei.
Si evince da queste parole la statura morale di Dante, che anticipa quel suo essere “tetragono ai colpi di ventura” come dirà a Cacciaguida nel Paradiso, che indicano la forza d’animo di fronte ai colpi della sorte, in nome dei propri ideali e del valore della propria coscienza, che nulla deve avere da rimproverargli. Questa e’ la nobiltà di Dante, che ancora oggi costituisce un monito ed un insegnamento per tutti coloro che sopportano ingiustizie per motivi politici.